Siamo davanti ad un
vaso, della preziosa collezione di vasi del Museo. Ce ne parla Mario Rotili in questo libro che
custodisco gelosamente. Tracce dell’antico Sannio, molto esteso
geograficamente.
Sul vaso la
rappresentazione di un “simposio”. Se guardate lo schermo vedrete scorrere la
ricostruzione che ne ha fatto Marco
Ferreri nel 1988, con Irene Papas, tra gli altri.
Presso i Greci e i
Romani, il simposio era quella pratica conviviale, che faceva seguito al
banchetto, durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del
simposiarca, intonavano canti conviviali (skólia),
si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze,
conversazioni, giochi ecc.). La parola indica il bere (posin) insieme (syn).
Sarebbe interessante ripercorrere il nesso fra spiritualità, filosofia e
letteratura intorno alla tavola, da Platone ai Vangeli, da Dante a Caravaggio. George Steiner ci ha lasciato un
memorabile saggio (Due cene) di
raffronto fra il simposio descritto da Platone e l’ultima cena di Gesù. Ma io
vi parlerò, come avete capito dalla lettura di Valentina Gaudini, solo di Platone,
che stasera domina incontrastato.
Platone ci ha lasciato
un’opera intitolata Symposion,
tradotta talvolta anche, estensivamente, con il termine Convivio o Banchetto. In
realtà il termine greco è preciso e tecnico: nel simposio non si mangiava, si
beveva. Al centro vi era, dunque, una bevanda non solo sacra a Dioniso, dio del
vino, ma fulcro, insieme al pane e all’olio, della civiltà alimentare
mediterranea, come insegna Massimo
Montanari in La fame e l’abbondanza.
Quest’opera è davvero
strana. Malgrado abbia avuto un enorme influsso su tutta la cultura occidentale
e sia impensabile l’intero Rinascimento e il cosiddetto neoplatonismo (da
Ficino a Pico della Mirandola, passando per Botticelli) senza di essa, appare
difficilmente integrabile in un eventuale “sistema” platonico.
Lasciatemi, almeno di
passaggio, omaggiare stasera, a nome di tutta la Libera Scuola di Filosofia del
Sannio, uno studioso che ha dedicato tutta la sua vita alla filosofia, in
particolare a quella platonica e in particolare all’opera di cui parleremo
stasera. Parlo di Giovanni Reale,
scomparso l’altro ieri. Possiamo non essere d’accordo con lui, e non lo siamo
su molte cose. Ma fino all’ultimo giorno egli si è dedicato con amore a quello
che Dante chiama nel Convivio “pane
degli angeli”. Un modello per tutti coloro che amano questa disciplina.
Consentitemi una
parentesi. Platone è l’oggetto “perfetto” per l’esercizio dell’attitudine
ermeneutica (termine che deriva dal nome di un’altra divinità, dopo
Atena/Minerva, Hermes). Il corpus platonico si presta alle più svariate
interpretazioni per le sue incredibili ambiguità, esattamente come la figura di
Socrate ci pone, al pari di quella di Jehosua, una “vita” da interpretare e
reinterpretare continuamente. Non entrerò in questo ginepraio. Diciamo che la
tendenza scolastica è quella di “ridurre” Platone a sistema mettendo al centro
la cosiddetta “teoria delle idee”, degli archetipi. Ebbene, in questo sistema
il Simposio appare poco integrabile.
Mentre il Platone che potremmo definire “maior”, sistematico (ripeto: si tratta
di una semplificazione storiografica ma è quella che molti di voi hanno
introiettato) definirebbe una via maestra alla conoscenza, alla liberazione
dalle tenebre della caverna, che passa attraverso una ridefinizione della
“filosofia” (amore per il sapere) in vero è proprio sapere (la conoscenza delle
idee perfette e immutabili), via aristocratica, percorribile da pochi, lunga e
faticosa, bisognosa di una scuola diremmo oggi di specializzazione che fu l’Accademia,
il Simposio, al contrario,
democraticamente, immagina che esista una via aperta a tutti per elevarsi alla
dimensione ideale. Ma questa via, ed è elemento fascinoso del libro, viene
spiegato ad un Socrate letteralmente “ignorante” da una donna, l’unica donna
della filosofia greca, fatta salva l’austera e tragica figura di Ipazia di
Alessandria, neoplatonica barbaramente uccisa e fatta a pezzi (fu scorticata fino alle ossa, forse usando
gusci di ostriche) dalla
comunità cristiana aizzata dal vescovo, san Cirillo... La filosofia,
permettetemi l’ennesima breve digressione (ma stasera sarò digriediente) è tutta maschile. Luce Iragaray ci ha illuminato
sulla dimensione “fallica” del pensiero filosofico che sarebbe, proprio con il
Platone “maior” e il suo mito della caverna, volontà di emanciparsi, per
sempre, dall’utero, dal grembo materno andando verso il cielo, verso il sole,
verso l’Iperuranio...
Torniamo a Diotima...
sacerdotessa di Mantinea che introduce uno sprovveduto Socrate agli ultimi
misteri d’amore... La sacerdotessa prima di tutto ribalta la visione
tradizionale dell’Eros, che, con una serie di varianti, troviamo nei discorsi
raccontati da Platone (quelli di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane e
Agatone). Eros non è un dio ma un demone. La parola evoca, giustamente, nel
nostro cervello “cristianizzato” fiamme infere, forconi, Cagnaccio,
Barbariccia, a qualcuno Geppo o Spawn... Invece per i Greci il “daimon” è un «essere divino» che si pone a metà strada
fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediare tra
queste due dimensioni, per questo rappresentato con le ali. Diotima insegna a
Socrate che tale natura ibrida deriva ad Eros dall’essere figlio di due
divinità con caratteri antagonisti. Dai genitori Eros ha ereditato un anelito a
qualcosa che non ha... Alla bellezza...
Se Eros non è un dio a lui non dobbiamo
obbedienza o venerazione, come voleva la tradizione. Esso, fuor di metafora,
non è qualcosa che ci domina dall’esterno facendo di noi dei burattini nelle
sue mani, come l’Elena descritta nel famoso Encomio
di Elena del sofista Gorgia. «Amor vincit omnia e nos cedamus amori», come
scrive amaramente il Virgilio delle Bucoliche.
No, Eros è una forza che ci abita e che può spingersi alle più alte vette della
conoscenza, ai più intimi segreti del mondo. Questa conoscenza amorosa è
raccordo fra cielo e terra, fra umani e divini, come direbbe Martin Heidegger.
E sì, alla fine potrà portarci all’idea, alla somma idea, ma partendo sempre
dal mondo dalla sua sensuale bellezza...
Ma nel passo che Valentina ha letto c’è
un passaggio delicato e prezioso su cui vorrei riflettere con voi... Vi si dice
che Eros passa tutta la vita ad amare la sapienza. Il testo greco dice,
ovviamente, “philosophos”. Eros è filosofo... Che significa questa sconcertante
affermazione? Non siamo abituati a pensare, forse distorcendo lo stesso
messaggio gesuano in un cristianesimo ascetico, sessuofobico e dualistico
(quindi in fondo gnostico) che l’eros e la filosofia non possono andare
d’accordo? Che la filosofia è liberazione dalle passioni? Quello che vorrei
comunicarvi stasera, in fondo, ha molto a che fare con il mio lavoro, con il
nostro lavoro, se Amerigo mi consente, avendo con lui un rapporto che trascende
l’amicizia e la condivisione quotidiana nella scuola. Io e Amerigo abbiamo
sempre concepito la nostra attività, il nostro insegnamento, sulla scorta di
questo Platone simposiaco, diotimeo,
come un’attività, e spero di scandalizzare i benpensanti, “erotica”. Il motore
della paideia può essere solo l’amore. Possiamo illuderci, ogni giorno daccapo,
di avviare i ragazzi che ci vengono affidati lungo la via del sapere solo se li
amiamo nella loro fragilità, nella loro ignoranza spesso abissale. E questo è
il motore della paideia perché, nel profondo, è la radice stessa della
philosophia. Eros, dice Platone, è filosofo perché ama la sapienza, e la ama
perché non la possiede. Solo gli dèi sono sapienti e non hanno bisogno di
conoscere null’altro. Il filosofo, mosso dall’eros, è colui che sempre sa di
non sapere e dunque anela a sapere, sapendo che non potrà mai sapere una volta
per sempre. Questa è l’unica “sapienza” che possiamo sperare di inoculare,
eroticamente (dunque attraverso l’esempio e la presenza: per questo la scuola
non può essere semplicemente sostituita dalla tecnica), nei nostri allievi. Che
la ricerca non avrà mai fine, ma che, nello stesso tempo, il desiderare stesso
la sapienza mai raggiungibile (altrimenti diventeremmo dei... non è forse il
sogno prometeico e faustiano della scienza moderna?) è bello e godibile in sé.
Il vero sapere, come anelito al sapere, è un fine in sé.
Il vaso, il simposio, Platone, Eros, la
filosofia, la paideia... Massimo Recalcati ha pubblicato un libro la cui
lettura vi consiglio vivamente... Io l’ho preso nella versione digitale. Se la
tradizione e la rivoluzione, come scrive Cassano ne Il pensiero meridiano
devono essere coniugate, noi per primi dobbiamo imparare a far incontrare
nuzialmente questo manufatto in cui affondano le nostre radici e quest’altro,
in cui ci sono le chiome... Il libro si chiama L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. Leggiamo:
«Nell’epoca
dell’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica è ancora possibile
una parola degna di rispetto? Cosa può restare della parola di un insegnante o
di un padre nel tempo della loro evaporazione? La pratica dell’insegnamento può
accontentarsi di essere ridotta alla trasmissione di informazioni – o, come si
preferisce dire, di competenze – o deve mantenere vivo il rapporto erotico del
soggetto con il sapere?
È un bivio
culturale con il quale siamo confrontati. Ma per scegliere la via
dell’erotizzazione del sapere occorre che l’insegnante sappia preservare il
giusto posto dell’impossibile. È il tratto che contrassegna ogni trasmissione
autentica: la trasmissione del sapere di cui la Scuola si incarica a ogni
livello, dalle scuole elementari sino a quelle post-universitarie, non è la
chiarificazione dell’esistenza o la riduzione della verità a una somma di
informazioni, ma la messa in evidenza di come ruoti attorno a un impossibile da
trasmettere. Il maestro non è colui che possiede il sapere, ma colui che sa
entrare in un rapporto singolare con l’impossibilità che attraversa il sapere,
che è l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Non perché non esista una
Biblioteca delle Biblioteche capace di raccogliere tutto il sapere, ma perché,
anche se esistesse e se leggessimo ogni suo libro, non avremmo affatto risolto
il limite che attraversa il sapere come tale. Il sapere non si può mai sapere
tutto perché è per sua struttura bucato, non-tutto, impossibile. Uno scarto
irriducibile lo separa dal reale della vita. Si deve dire allora che un
insegnamento ha come tratto distintivo il confronto con il limite del sapere
attraverso il sapere, mentre il maestro che mostra di possedere il sapere può essere
solo una caricatura risibile del sapere».
Chiudo questa breve riflessione andando
all’inizio del testo letto...
Vi si dice, ricordate, che Eros svolge
una doppia funzione di intermediario, di “pontefice”. Fa da tramite fra gli
uomini e gli dèi e lega le due regione del mondo, quella celeste e quella
terrena, «cosicché il tutto risulta collegato con se stesso». Ebbene, in queste
due brevi notazioni possiamo trovare preziose tracce per la nostra ricerca e
per il nostro agire. Da una parte dobbiamo sempre ricordare che una parte di
noi è connessa con il divino, attraverso forze mediatrici. Lo stesso Socrate
evocava spesso il “daimon” che abitava in lui e gli suggeriva cosa non fare.
Dall’altra il Platone “minore” e sublime del Simposio ci dice, in questo tempo
rischioso di distruzione sistemica dell’habitat naturale, che il tutto è
collegato. Eros, dunque, oltre ad essere possibile traccia delle nostre
filosofie e delle nostre pedagogie può essere la guida celeste per le nostre
etiche e per le nostre politiche.
(Intervento tenuto nel Museo del Sannio il 17 ottobre 2014 all'interno del Festival filosofico "Sophia" organizzato dalla Libera Scuola di Filosofia del Sannio)
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