«La razionalizzazione totale e la
modernizzazione in cui si incarna, esige, in particolare, una nuova
collocazione delle masse: una permanente mobilitazione che operi uno
sradicamento assoluto. Ogni individuo
deve essere strappato a ogni tradizione, a ogni consuetudine, a ogni forma di
vita consolidata e deve mettersi a disposizione del meccanismo della generale
permutabilità. La razionalizzazione deve essere integrale, deve
neutralizzare ogni significato che non sia la crescita della produzione e la
competizione per l’accesso a una quota di ricchezza [...]. La vita è trasformata in corsa, l’energia vitale in carburante per
conseguire il possesso e il consumo di oggetti nella maggior quantità
possibile. La meta è sempre oltre, il
desiderio non può mai essere saziato, il processo della razionalizzazione
deve strutturarsi come pura processualità sciolta da vincoli e da condizionamenti
passati o futuri: ciò che conta è che le
aspettative crescano, che non si fermi mai la corsa.
L’individuo è trascinato come da un fiume in
piena, dalla potenza della ratio
produttiva. Perciò debbono essere strappate le radici della individualità e
della socialità tradizionali: la tradizione, il passato debbono essere
distrutti. Ma anche il futuro non può essere oggetto di “rappresentazione”, di
progetto. La ratio produttiva non ha
tempo, o meglio ha il tempo astratto dell’attualità permanente, della precarietà
della moda».
Così scriveva alcuni anni fa Pietro Barcellona in Lo spazio della politica (Editori
Riuniti). Come può, mi dico la scuola, essere palestra di democrazia, stante
l’assolutezza di questo valore, che pure oggi potrebbe essere messo in discussione
(e penso alla dichiarazioni di Soros
sul “totalitarismo del capitale”)? Da questo punto di vista credo che solo
l’uso consapevole di una didattica
democratica possa essere utile come responsabilizzazione all’impegno politico.
Intendiamoci: non mi faccio illusioni. La società odierna non ha bisogno di
spiriti critici ma solo di cervelli brillanti, non di “tafani” ma di brillanti
sofisti, imbonitori politici e televisivi. Non credo che ci saranno molti spazi
operativi (anche perché il “micropotere” dà alla testa anche alle persone
apparentemente più sobrie: potrei ritrovarmi tra vent’anni ad essere un docente
autoritario!). Vorrei educare i ragazzi ad acquisire il punto di vista della Arendt, la cui proposta consiste in una riabilitazione del politico, inteso come
“spazio pubblico” di azione e di libertà. La politica non è da lei intesa più
come lotta per il potere, ma come “modo di espressione di sé” e della propria libertà.
E che cos’è la libertà? «Il miracolo della libertà è insito in questo
saper cominciare, che a sua volta è insito nel dato di fatto che ogni uomo, in
quanto per nascita è venuto al mondo che esisteva prima di lui, e che
continuerà dopo di lui, è a sua volta un
nuovo inizio». Questo vorrei insegnare
ai miei allievi: a non credere
nell’immutabilità del mondo (come la mia generazione credeva nell’eternità
dell’URSS). Ciascuno di loro dovrà sapere - proprio perché “neo-nato” - che ha
la potenzialità di dare nuova nascita al mondo: «Come vivere senza
ignoto dinanzi? Gli uomini d’oggi vogliono che il poema sia a immagine della
loro vita, fatta di così poco rispetto, di così poco spazio, e bruciata
d’intolleranza. Perché non è loro più lecito agire supremamente, nella
preoccupazione fatale di distruggersi distruggendo il prossimo, perché la loro
inerte ricchezza li frena e li incatena, gli uomini d’oggi, affievolitosi
l’istinto, perdono pur conservandosi vivi, persino la polvere del proprio nome.
Nato dal richiamo del divenire e dall’angoscia della ritenzione, il poema,
sorgendo dal suo pozzo di fango e di stelle, testimonierà, pressoché in silenzio,
che nulla era in lui che già non fosse esistito realmente altrove, in questo ribelle
e solitario mondo delle contraddizioni» (René Char).
Attraverso la bellezza
(che è verità) scopriranno di poter trasformare il mondo, temprando qualunque
tentazione demiurgica nella scoperta della vera
presenza dell’altro in una dimensione politica vissuta come libera scelta:
«Il suggerimento indistinto di una libertà
smarrita o da riconquistare - l’Arcadia dietro di noi, l’Utopia davanti a noi -
bussa alla soglia più remota della psiche umana. Questo pulsare fantomatico sta
al cuore delle nostre mitologie e concezioni politiche. Siamo creature
frustrate e consolate a un tempo dal richiamo di una libertà appena fuori della
nostra portata. C’è un campo in cui questa esperienza di libertà si dispiega.
C’è una sfera della condizione umana in cui essere significa essere liberi. È la sfera del nostro incontro con la
musica, con l’arte e la letteratura» (Steiner).
Simone Weil è probabilmente la pensatrice cui più mi sento vicino in
questi ultimi anni, per il suo percorso sempre aperto, per il suo sforzo di
coniugare un impegno politico mai dogmatico, scaturente dalla compassione per
la sofferenza degli esseri, con una tensione spirituale altissima, anch’essa
non dogmatica ma aperta ad ogni linfa vitale delle tradizioni religiose. Per
questo mi piace concludere con una sua citazione, che afferma la necessità di
un impegno individuale nel passaggio di millennio che stiamo attraversando:
«Viviamo in un’epoca che non ha precedenti, e nella situazione presente
l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve ora essere
totalmente esplicita. Il linguaggio e tutto il modo d’essere ne devono essere
impregnati.
Oggi non è sufficiente esser santo: è necessaria la
santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza
precedenti […].
Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce
d’improvviso, una invenzione. Fatte le debite proporzioni, mantenendo ogni cosa
al proprio posto, è quasi un fatto analogo a una nuova rivelazione
dell’universo e del destino umano. Significa mettere a nudo una larga porzione
di verità e di bellezza sino ad ora
nascosta sotto uno spesso strato di polvere. Esige più genio di quanto sia
occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova
è un’invenzione più prodigiosa».
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