mercoledì 17 febbraio 2016

ciò che è vivo e ciò che è morto in "1984"


Bene fa Teresa Agovino a rendere omaggio ad uno dei più grandi scrittori e intellettuali del XX secolo, George Orwell, collocato, insieme a Camus, Illich, Chiaromonte e altri, tra i “maestri irregolari” in un memorabile libriccino di Filippo La Porta, alcuni anni fa presentato a Benevento. 1984 rimane un grandissimo romanzo, che ha avuto, rispetto ad alcune “derive” novecentesche, grande potere euristico. Se, ad esempio, Teresa avesse scritto queste cose nel 1984, io le avrei sottoscritte in pieno. Erano anni di controllo delle coscienze, di passivizzazione, ottenuto con l’uso distorto di media “ottusi” come la televisione, monodirezionali, atti a plasmare “spettatori”. Non che oggi la “civiltà dello spettacolo” analizzata da Debord sia meno pervasiva, anzi. Però, volevo soffermarmi su due degli aspetti sottolineati da Teresa, per domandarmi, senza certezze precostituite, se, invece, questa civiltà non abbia prodotto al suo interno degli anticorpi, fornendo nuovi strumenti di azione e consapevolezza.
La Agovino porta l’uso degli sms e della scrittura su Facebook come emblema di formazione di una “neolingua” elementare, espressione di modi di pensare semplificati. È vero. Però, premesso che ogni civiltà usa, ad esempio, delle abbreviazioni funzionali alle tecnologie usate (sull’Arco di Traiano, per risparmiare spazio e tempo di scultura, ad esempio), perché non vedere anche l’altro lato della medaglia? Ovvero, che mai come oggi i giovani scrivono! C’erano sociologi che teorizzavano negli anni Settanta, anche con l’esplosione del fenomeno delle radio private, la rinascita di una civiltà “orale”. Ebbene, non solo non è accaduto, ma una stessa tecnologia nata per essere “orale” (il cellulare) è divenuta essenzialmente strumento di scrittura (lo faceva notare Maurizio Ferraris in Ontologia del cellulare). In ogni caso, e qui introduco il secondo punto della mia riflessione, il cellulare e i social network vanno analizzati non solo per i messaggi che veicolano ma anche per come lo fanno, cioè creando “rete”. «Il medium è il messaggio», la frase spesso ripetuta a sproposito di Mc Luhan, mai come in questo caso è vera: nello scrivere, spesso di inezie, nel postare canzoni o foto, si ricrea un legame sociale che riemerge come bisogno primario in una civiltà atomizzata. A me questa sembra una novità che rende il romanzo di Orwell inutilizzabile per il nostro tempo, e le riflessioni, pur profonde della Agovino, datate. Si pensi al ruolo decisivo dei social network nelle rivoluzioni della “primavera araba”, ad esempio. La televisione oramai è un medium al tramonto (almeno nelle modalità di fruizione che ne hanno caratterizzato la storia novecentesca), e non è forse casuale che il declino del berlusconismo politico coincida con la sempre maggiore marginalità dello strumento su cui il tycoon ha costruito le sue fortune. Non scompare, evidentemente, ma si trasforma, si contamina con altri media, viene fruita in maniera non più passiva. Certo, sono processi ancora in atto. Ma anche in questo caso non funziona più lo schema monodirezionale.
Rimane in piedi la contestazione al “panopticon” universale che le nuove tecnologie consentono. E questo mi pare, ovviamente, un punto su cui l’analisi di Teresa non si possa contestare. E rispetto alla quale è necessario allestire una risposta filosofica e giuridica all’altezza del rischio.


(Apparso su «Il Vaglio» nel marzo 2012)

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