Bene fa Teresa Agovino
a rendere omaggio ad uno dei più grandi scrittori e intellettuali del XX
secolo, George Orwell, collocato, insieme a Camus, Illich, Chiaromonte e altri,
tra i “maestri irregolari” in un memorabile libriccino di Filippo La Porta, alcuni anni fa
presentato a Benevento. 1984 rimane
un grandissimo romanzo, che ha avuto, rispetto ad alcune “derive”
novecentesche, grande potere euristico. Se, ad esempio, Teresa avesse scritto
queste cose nel 1984, io le avrei sottoscritte in pieno. Erano anni di
controllo delle coscienze, di passivizzazione, ottenuto con l’uso distorto di
media “ottusi” come la televisione, monodirezionali, atti a plasmare
“spettatori”. Non che oggi la “civiltà dello spettacolo” analizzata da Debord
sia meno pervasiva, anzi. Però, volevo soffermarmi su due degli aspetti
sottolineati da Teresa, per domandarmi, senza certezze precostituite, se,
invece, questa civiltà non abbia prodotto al suo interno degli anticorpi,
fornendo nuovi strumenti di azione e consapevolezza.
La Agovino porta l’uso degli sms e della
scrittura su Facebook come emblema di formazione di una “neolingua” elementare,
espressione di modi di pensare semplificati. È vero. Però, premesso che ogni
civiltà usa, ad esempio, delle abbreviazioni funzionali alle tecnologie usate
(sull’Arco di Traiano, per risparmiare spazio e tempo di scultura, ad esempio),
perché non vedere anche l’altro lato della medaglia? Ovvero, che mai come oggi
i giovani scrivono! C’erano sociologi che teorizzavano negli anni Settanta,
anche con l’esplosione del fenomeno delle radio private, la rinascita di una
civiltà “orale”. Ebbene, non solo non è accaduto, ma una stessa tecnologia nata
per essere “orale” (il cellulare) è divenuta essenzialmente strumento di
scrittura (lo faceva notare Maurizio Ferraris in Ontologia del cellulare). In ogni caso, e qui introduco il secondo
punto della mia riflessione, il cellulare e i social network vanno analizzati
non solo per i messaggi che veicolano ma anche per come lo fanno, cioè creando
“rete”. «Il medium è il messaggio», la frase spesso ripetuta a sproposito di Mc
Luhan, mai come in questo caso è vera: nello scrivere, spesso di inezie, nel
postare canzoni o foto, si ricrea un legame sociale che riemerge come bisogno
primario in una civiltà atomizzata. A me questa sembra una novità che rende il
romanzo di Orwell inutilizzabile per il nostro tempo, e le riflessioni, pur
profonde della Agovino, datate. Si pensi al ruolo decisivo dei social network
nelle rivoluzioni della “primavera araba”, ad esempio. La televisione oramai è
un medium al tramonto (almeno nelle modalità di fruizione che ne hanno
caratterizzato la storia novecentesca), e non è forse casuale che il declino
del berlusconismo politico coincida con la sempre maggiore marginalità dello
strumento su cui il tycoon ha costruito le sue fortune. Non scompare,
evidentemente, ma si trasforma, si contamina con altri media, viene fruita in
maniera non più passiva. Certo, sono processi ancora in atto. Ma anche in
questo caso non funziona più lo schema monodirezionale.
Rimane in piedi la
contestazione al “panopticon” universale che le nuove tecnologie consentono. E
questo mi pare, ovviamente, un punto su cui l’analisi di Teresa non si possa
contestare. E rispetto alla quale è necessario allestire una risposta filosofica
e giuridica all’altezza del rischio.
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