sabato 21 ottobre 2017

«Visitare gli ammalati»


Quando mi chiedono di intervenire in un Convegno o incontro pubblico mi chiedo sempre quale sia il titolo che mi dà tale diritto. 
Le parole, infatti, se prese sul serio, impegnano. Fare una dichiarazione pubblica significa prendere un impegno nei confronti della comunità che ti ha chiamato a pronunziarla, a meno che, come i geniali e pericolosi Sofisti greci, non riteniamo la parola stessa un’arma da utilizzare per conquistare o rafforzare ruoli egemonici e, dunque, alla Gorgia, la sganciamo da qualunque dimensione pertinente l’ethos
Sono qui come amministratore, sebbene espressione della minoranza consiliare? Non credo... Il tema di oggi, purtroppo, non viene intercettato dalla politica. Sono qui come educatore? È realistico. I temi cui rapidamente farò cenno sono parte integrante di una reale impresa educativa integrale, che abbia cioè la giusta, doverosa ambizione di trascendere le discipline e contribuire a plasmare (meglio: a far maturare) l’uomo e il cittadino che abitano negli adolescenti affidatici. Sono qui come ex volontario dell’AVO? È assolutamente probabile... Lo riconosco: fu atto d’amore nei confronti della mia allora giovane fidanzata, oggi moglie, che viveva con intensità questa forma di servizio al prossimo, ben radicata nella nostra formazione cattolica, avvenuta tra i Missionari del Preziosissimo Sangue, e, personalmente, a contatto con l’esperienza vincenziana di mia madre. All’epoca io ero troppo preso dal mio personale dolore, dalla risoluzione di una cupa visione del mondo, debitrice del Leopardi maturo e di Schopenhauer, di Guido Ceronetti e di Emile Cioran, per poter essere toccato nei precordi dalla sofferenza altrui. Un paradosso... Eppure, con imbarazzo, attraversai, col mio camice bianco, i reparti della solitudine e del dolore, cercando nel profondo di me stesso una parola di conforto per gli altri, che usciva sempre stentata, cigolando, quasi in falsetto. Non ero pronto. Non so se oggi lo sarei. Forse non si è pronti mai, e bisogna deporre ogni paura, ogni remora, zittire la ragione e lasciare esprimere il cuore.
Avendo dichiarato i titoli che rendono legittima oggi una mia parola, è possibile pronunziarne una sensata su questi temi? Voglio dire: ha senso parlare o bisognerebbe tacere e fare? Non c’è il rischio della “chiacchiera” vacua, dello stereotipo sempre in agguato in una società che predica la solidarietà e vive il suo “autismo corale”?
Proverò ad intrecciare elementi storici e filosofici per cercare una parola sensata. Ebbene, a me pare doveroso partire dallo Statuto dell’AVO che «opera nelle strutture ospedaliere e nelle altre strutture socio-assistenziali con un servizio organizzato, qualificato e gratuito per assicurare una presenza amichevole accanto ai malati nell’ambito delle strutture stesse offrendo loro, durante la degenza, calore umano, dialogo, aiuto per lottare contro la sofferenza, l’isolamento, la noia: con l’esclusione però di qualunque mansione tecnico-professionale di competenza esclusiva del personale medico e paramedico. È una presenza che integra e non si sostituisce a quelli che sono i compiti perseguiti e le responsabilità assunte dalle organizzazioni nelle quali svolge la sua attività». L’articolo 2, comma D, ci illumina, in realtà, su un’intera configurazione storico-culturale delle strutture ospedaliere e della funzione del medico e dell’infermiere che dobbiamo saper cogliere, e non considerare eterna e immodificabile. 
Voglio dire che, con l’avvento della modernità, che collochiamo tra il XVI e il XVII secolo, avviene una radicale trasformazione nella concezione dell’uomo e delle scienze, in cui la stessa medicina viene coinvolta. Il dualismo di matrice cartesiana, che separa nettamente “res cogitans” e “res extensa”, corpo ed anima, crea i presupposti affinché la medicina perda sempre più i tratti che, con tutti i limiti delle società premoderne, ne facevano cura integrale dell’uomo. Si aprono le porte nel contempo ad immensi progressi ma anche ad una scissione mai più ricomposta.
Un autore a me carissimo, che provocatoriamente cito soprattutto di fronte ad amici medici, Ivan Illich, scriveva in Nemesi medica, circa quarant’anni fa: «Un mondo in cui la salute è ottimale e diffusa è ovviamente quello dove l’intervento medico è minimo e soltanto occasionale. Gli individui sani sono quelli che vivono in case sane con un’alimentazione sana in un ambiente parimenti adatto per nascere, crescere, lavorare, guarire e morire; sono sorretti da una cultura che favorisce l’accettazione consapevole di una limitazione demografica, della vecchiaia, del ristabilimento incompleto e della morte sempre incombente». Noi viviamo, al contrario, in un mondo in cui quella che Illich chiama “casta” medica ha medicalizzato la vita (dall’utero al fine vita), facendo di ciascuno di noi un individuo indigente, bisognoso perennemente di cure e sempre potenzialmente malato. E, dunque, l’ospedale è divenuto uno dei luoghi fondamentali della nostra vita, finanche per morirci, in un’assoluta dimenticanza di quelli che sono i nostri bisogni umani più profondi. E in questi ospedali, purtroppo, e in virtù di quella inevitabile scissione prodotta dalla tecnoscienza che fonda la modernità, c’è spazio solo per la cura della “res extensa”, dimenticando spesso che dentro quella carne malata, afflitta, sofferente, si nasconde un’anima che anela cure e lenimenti, balsami e refrigeri. Le donne e gli uomini dell’AVO diventano questo balsamo, questo momento di senso nell’insensatezza del dolore o nella solitudine. Perché – vedete – un altro grande male, di cui tutti diventiamo ogni giorno più consapevoli, del nostro tempo è lo sradicamento planetario che sembra recidere ogni legame con il territorio, la comunità, sembra spazzare via le relazioni parentali, costringendoci ad un affollata solitudine, il cui dente appuntito sentiamo soprattutto nella malattia. Il mondo della globalizzazione è un mondo di apolidi solitari...
La mia sembra una descrizione cupa. Probabilmente ci si aspettava parole di speranza e, invece, ne ho pronunziate di oscure.
Il mio maestro più pericoloso, Martin Heidegger, mi ha insegnato che nel momento del massimo pericolo, però, cresce anche ciò che salva... 
Noi viviamo un tempo propizio proprio in virtù della sua crisi di senso universale che riguarda il pianeta e le nostre singole vite, le città inquinate e le relazioni umane. E che cosa può salvare? Nel 2010 uscì un libro di Jeremy Rifkin che vi invito caldamente a leggere. Si intitola La civiltà dellempatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi. In esso, con una magistrale ricostruzione dell’intera storia umana, il sociologo statunitense teorizza che questo tempo di crisi può segnare l’avvento di una nuova umanità empatica, relazionale, capace, cioè di sanare quella frattura fonda apertasi con la modernità tra “res cogitans” e “res extensa”, uomo e uomo, uomo e ambiente: «La coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e svilupparsi come se fossero le nostre. Il nostro abbraccio empatico è il nostro modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita». 
Ecco, a me sembra che gli uomini e le donne dell’AVO appartengano all’avanguardia di una nuova umanità, che sta nascendo, oscuramente, nel nascondimento, umilmente, come i grandi simboli cristiani ci insegnano, educando, attraverso l’esempio, ad un rapporto in cui l’Altro, il volto dell’altro, nella sua fragilità ci interpella costringendoci a rispondere a questo appello attraverso parole e gesti sensati. Il sogno è quello di luoghi di cura, familiari e accoglienti, dove la scissione della modernità venga superata, dove medici empatici curino la persona nella sua interezza, tornando al senso dell’antico giuramento ippocratico: «in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati».
Fino ad allora il ruolo dell’AVO resterà insostituibile e impagabile.
Una persona a me cara, di cui vi ho già parlato, ha scritto nel 1988, rivolgendosi ai malati cui andava a far visita, Mafalda, Giulia, il vecchietto che non può parlare. Con le sue parole, decentrandomi, mi congedo, da diversamente credente o da credente inquieto che pure continua a guardare alla croce, gesto di apertura e chiusura dei giorni, con stupore e venerazione: «E quando mi perdo nel vuoto del modo, del dire, del fare senza un perché, che voi tutti mi mancata ancora di più. È stato solo nel “volto” scolpito in quell’antico legno che per un attimo si è dileguata la nullità del mio essere, ma in quel volto c’eravate anche voi».

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In limine allintervento ho chiesto ai presenti di riflettere sulla parola persona, molto utilizzata da chi era intervenuto prima di me, ricordando la sua etimologia.



lunedì 16 ottobre 2017

Il Politico nel tempo del disordine globalizzato: un incontro


Il 14 ottobre si è svolto un incontro organizzato da Luigi Santamaria. Ospiti: Edoardo Dallari e Vincenzo Vitiello.



Qui di seguito la mia introduzione e una riflessione sulla serata già pubblicata da «Messaggio d'oggi».

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Grazie a Luigi, che mi auguro – nella costruzione della sua vita – possa trovare tempo, risorse ed energie per alimentare, nella sua città, nella nostra città, degli spazi perché il pensiero possa accadere, nella sua libertà, al di fuori di qualunque burocrazia o “necessità” eterodiretta (e anche di qualunque ingerenza politica). Noi ci abbiamo provato per qualche anno con la Libera scuola di filosofia del Sannio, e sarei felice se i giovani raccogliessero questo testimone. Avranno sempre il mio sostegno convinto.
Qualche anno prima ci provammo, appena laureati, negli anni Novanta, con “la rosa necessaria”, che fu laboratorio di riflessione innanzitutto poetica ma soprattutto desiderio di non rassegnarsi a una vita di “quieta disperazione” nella provincia sonnacchiosa, dormiente. Questa città troppe volte sembra oscillare come un pendola tra la cultura “organica” a qualche potentato o la fruizione privata, come se non fosse possibile creare spazi liberi. Grazie, dunque.
E grazie a Luigi soprattutto perché ha creato questa oasi in cui rigenerarmi tra l’impegno scolastico, bellissimo ma estenuante, e l’impegno politico. Sono ambiti che mi sforzo di tenere in feconda tensione, e di continuare a nutrire entrambi con il pensiero.
Grazie a Luigi anche perché mi permette di riascoltare, per la seconda volta a pochi mesi dalla intensa, sentita presentazione del libro di Guido Bianchini, uno dei maggiori filosofi italiani. So bene che lui non lo ricorda – anche se mi piace sperarlo – e senza nessun ansia di primato. Credo però di essere stato il primo ad invitare il professore in città. Era il maggio del 2005. Io – divenuto da qualche anno docente di filosofia e storia, pur avendo formazione letteraria - stavo vivendo da alcuni anni una travaglio spirituale che mi aveva spinto a riabbracciare la fede cattolica. L’incontro con i libri di Vitiello, in particolare Dire Dio in segreto, mi spinse ad organizzare un incontro, che ricordo partecipatissimo in una nota libreria cittadina.
Veniamo a noi.
Vitiello accomuna due pensatori come Jünger e Schmitt nella comune volontà di «comprendere il presente» (che in realtà mi pare la non tanto segreta ambizione del libro stesso di Edoardo...). Volontà condivisa da un pensatore oggi bistrattato, al centro di un’operazione-verità (la pubblicazione dei Quaderni neri) che vuole, in nome del suo antisemitismo filosofico e della sua convinta adesione al nazismo – sbarazzarsi anche di quanto continua ad esserci necessario proprio per capire questo tempo, il nostro tempo. Sto parlando, ovviamente, di Martin Heidegger. Questi tre autori, e Vitiello lo dice a lettere cubitali, furono tutti e tre nazisti. Uno dei miei maestri, un atipico poeta-pensatore, più volte ospite a Benevento, Marco Guzzi, mi ha insegnato che il XX secolo è percorso da istanze rivoluzionarie che sfigurano l’uomo. Esse devono essere riprese per trans-figurare quella figura d’uomo che noi ancora siamo. E mi pare che Edoardo si incammini nella stessa direzione, ambiziosa, necessaria quando scrive: «L’idea regolativa che muove questa ricerca consiste nel faticarsi ad indicare un possibile cammino percorrendo il quale possa accadere, un giorno, il rivolgimento del mondo che noi, abitatori del tramonto dell’Occidente, frequentiamo in ogni nostra forma di pensare, agire, vivere». Il rivolgimento del mondo....
Questo è il tempo del disordine globalizzato, del dominio di una razionalità tecnoeconomica incapace di regolarsi: una dissonante polifonia multipolare priva di ἀρχή,, la definisce Dallari, suggestivamente. Qui si capisce la fascinazione del secondo Schmitt, quello del Nomos della Terra, libro imprescindibile, titanico, che aiuta l’autore a pensare il rapporto senza sintesi ed equilibrio tra il tutto e le parti (che invece opererebbe nel pensiero storico-politico di Hegel). La globalizzazione supera lo Jus Publicum Europaeum fondato sullo Stato, a partire dalla pace dii Westfalia, alla fine dell’ultima grande guerra di religione. Lo Stato nazione non riesce più ad ordinare una realtà che lo dissolve dall’alto (pensiamo all’UE per l’Europa) e dal basso (pensiamo alla recentissime vicende catalane).
La densa premessa di Dallari si chiude con quello che mi sembra un progetto di ricerca per il futuro e che seguiremo con grande interesse: come si strutturerà la politica meta-statale abitata da entità neo-imperiali? Come si evolverà il rapporto fra politico ed economico in questo secolo percorso da accordi commerciali di cui i cittadini sono spesso inconsapevoli (pensiamo al Ceta o al Mes-China)?
Chiudo, lasciando a veri pensatori il compito di elevare la discussione, evocando – e sollecitando il professore ed Edoardo eventualmente ad una riflessione – una pensatrice a me carissima, che mi è tornata in mente leggendo alcune pagine del libro. Parlo di Simone Weil, la cui opera sullo sradicamento (che il mio Fortini tradusse felicemente per le Edizioni Comunità con un’espressione dantesca: La prima radice) mi pare di assoluta attualità e da ripensarsi insieme a Schmitt – la “partigiana” francese e il nazista -. Mi pare di poter dire che la sfida del nostro tempo, insomma, è quella di pensare (ed incarnare) una forma nuova di radicamento, dopo aver sperimentato la forza dissolutrice dell’economico globalizzato, che però eviti le regressioni identitarie fondate sull’ipostatizzazione del volk e del boden.
Un’ultimissima suggestione. Il prof. Vitiello chiude la sua “Prefazione” scegliendo come parola chiave del futuro prossimo e faro del nostro agire la parola “speranza”, intesa paolinamente: «Spe enim salvi facti sumus; spes autem, quae videtur, non est spes». Io vorrei chiudere invece con la parola “limite”, il cui possibile uso nei più disparati ambiti, da quello etico a quello politico, mi è stato insegnato da pensatori “eretici” a me cari come Ivan Illich e Serge Latouche. Non solo penso al limite come la sola possibile cura per la ὕβϱις ma anche come antidoto alla forza sradicante che, dissolvendo i confini, ci rende sì “abitanti del mondo” ma anche “apolidi”. Insomma, ed è domanda impegnativa per me che leggevo fino a pochi anni fa con entusiasmo e partecipazione la trilogia di Toni Negri, è possibile pensare in maniera nuova parole come “nazione” o, addirittura, madrepatria senza diventare nazionalisti ma vedendo in esse l’unico, storico (badate bene!) organismo politico in grado di garantire ai cittadini una vita dignitosa e sensata?

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 Sono convinto che la Benevento “colta” sia costituita da nicchie che andrebbero valorizzate (con un supporto logistico prima che economico) da parte dei decisori politici, ma anche lasciate completamente autonome. Questa città troppe volte sembra oscillare come un pendolo tra la cultura “organica” a qualche potentato o la fruizione privata.
Sabato 14 ottobre ho partecipato ad un evento messo in piedi da un giovane laureato in filosofia, Luigi Santamaria, che è stato capace di attivare risorse “private” e riportare in città uno dei maggiori filosofi italiani viventi, Vincenzo Vitiello, per la presentazione del libro di un giovane ricercatore, allievo di Cacciari e Severino, oltre che di Vitiello stesso, Edoardo Dallari, dedicato al problema del Politico in Hegel e Schmitt.
Ho ricordato l’esperienza de «la rosa necessaria» (che un’associazione e una rivista per altro legata a questa storica testata). Sarei ben felice se si creassero sodalizi culturali capaci di una proposta “sensata”, che nasca da un autentico bisogno ed eludano il rischio dell’evento spettacolare o autopromozionale.
In una sala gremita (e senza l’irresistibile fascinazione sul mondo studentesco di crediti e ore di alternanza scuola-lavoro...), abbiamo assistito ad un vero dialogo filosofico tra un maestro (Vitiello) ed un allievo (Dallari) che sta simbolicamente “uccidendo il padre”, emancipandosi e avviando un percorso autonomo di ricerca.
Il libro si presenta come una riflessione su due pensatori molto diversi tra loro e distanti nel tempo ma che entrambi hanno dedicato una parte essenziale della loro opera al Politico. Ma l’interesse del testo risiede soprattutto nel voler pensare il nostro tempo a partire dalle categorie hegeliane e schmittiane che vengono fatte interagire tra loro.
Vitiello nel suo intervento ha sottolineato il suo disaccordo rispetto alla prima fase del pensiero del nazista Schmitt, tutto fondato sul tema della decisione nello “stato d’eccezione”. In realtà, ha detto il filosofo napoletano, a Schmitt interessa “chi” decide. L’intervento è stato una meticolosa decostruzione della (presunta) grandezza del pensatore cattolico tedesco (o almeno della prima parte della sua produzione), pur nel riconoscimento della sua biografia sofferta. È ridicolo, ad esempio, pensarlo come padre della “teologia politica” (merito che spetta evidentemente a Platone). Diverso, invece, il secondo Schmitt, quello che scrive, dopo la “cattività”, Il Nomos della Terra (uscito nel 1950, tradotto nel 1991 da Adelphi), in cui – nel tempo del disordine globalizzato – tenta di radicare il Politico non in chi esercita il comando ma nella Terra (γ μήτηρ), come peraltro facevano anche il filosofo-letterato Jünger ed Heidegger. Ma anche questo oggi si è rivelata un’illusione. E noi siamo nel pieno di una crisi che pare senza sbocchi positivi. Unica soluzione – e qui ha parlato il grande e innovativo studioso del cristianesimo – potrebbe essere modificare non ciò che facciamo ma il modo in cui lo facciamo, attingendo a San Paolo (temi questi per altro affrontati anche da un altro allievo di Vitiello, il nostro Guido Bianchini nel suo suo L’inquietudine dell’Altro).
Edoardo Dallari ha svolto un ampio intervento, apparentemente più politico che filosofico, partendo dall’assunto che lo Stato nazionale oramai sia tramontato e sia impensabile riportarlo in vita. Viviamo il tempo della globalizzazione e di compagini neo-imperiali che pongono nuovi problemi di sovranità. L’Europa, in particolare, che pure ha vinto imponendo i suoi valori al globo intero, vive una crisi apparentemente senza rimedio. La sfida, ha detto il giovane filosofo, allora è creare una sovranità europea, come ribadito recentemente dal Presidente francese Macron. Insomma, nel tempo del trionfo dell’Economico, si pone una nuova sfida al Politico e alla sua capacità di guidare gli eventi che va accettata. È necessario creare un nuovo ordine per l’Europa intesa come “grande spazio” che sappia superare l’impasse del germanocentrismo e dei diktat del FMI. L’Europa può e deve esistere solo come Stati Uniti d’Europa... Tutto questo, ha detto Dallari, non ha a che fare (qui emerge una vera e propria filosofia della storia purtroppo solo accennata) con l’uomo e le sue scelte. Da allievo di Severino, Dallari ha parlato di «fatto destinale». L’Europa figlia della crisi (crisi dell’imperialismo nel 1918, crisi della seconda guerra mondiale, crisi del 1989) ha il compito storico di rispondere perennemente alla crisi, che è in qualche modo il motore stesso della sua storia. In «Caoslandia» (Caracciolo), il nostro tempo che contraddice le profezie di Fukuyama sul mondo pacificato, una nuova Europa ha il compiti di essere baluardo di pace rivitalizzando i suoi valori fondativi. E a farlo dovranno essere politici-artisti che operano nel vuoto, senza certezze sul futuro, nella consapevolezza che non esistono “forme” definitive, ordinamenti capaci di resistere all’usura del tempo. Qui, mi pare, che venga rivendicata l’eredità di Schmitt, nella concezione dell’uomo politico come colui che decide non sulla base di ordinamenti dati o di accadimenti prevedibili, ma nell’incertezza, nella precarietà, assumendosene la responsabilità. Dunque, non solo una visione “artistica” della politica ma anche “eroica”. Il politico, dunque, è colui che allontana la crisi ma agisce solo in virtù di essa, in essa.
L’intervento di Dallari si è chiuso con una serie di questione irrisolte: il rischio della Rete (dove si smarrisce il soggetto dell’agire), il rapporto fra dimensione politica (fondata sul consenso) e apparati burocratici, anonimi e opachi. Il problema più grande (e qui torniamo al tema centrale del libro, ossia il rapporto tra società civile e Stato) è quello di coniugare un individualismo (in cui tutti rivendicano la propria personale realizzazione) sempre più spinto con uno potere capace di decidere.
L’ultima parte dell’incontro è stata una raffinato duello dialettico in cui il maestro ha cercato di smontare l’utopia dell’allievo, ritenendo da una parte che l’Europa è già morta (come per altro argomentato in Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis, 2017), dall’altra che Nietzsche dovrebbe averci insegnato l’impotenza della volontà di potenza. Con una battuta, dopo aver ascoltato anche le domande dei presenti, ha detto Vitiello di sentirsi nel 1835, poco dopo la morte di Hegel, come se poi non ci fosse stato appunto Nietzsche e il XX secolo a smontare alcune illusioni (in particolare quella dell’esistenza del Soggetto, su cui si fonda invece la visione “artistica” ed “eroica” della Politico proposta da Dallari).
Con una mossa intelligente il discepolo è uscito dall’angolo rivendicando la parola con cui il maestro chiude la “Premessa”: speranza. Speriamo, ha detto, che tutto questo sia possibile. Spes contra spem, potremmo dire, paolinamente...
Dallari sta costruendo con solide basi il profilo dell’anti-Fusaro. Entrambi frutto del vivaio della San Raffaele, con un lessico filosofico e auctores in comune, spesso maestri identici, declinano due possibilità della filosofia politica: l’uno teso a ripensare la grande tradizione marxista in chiave “nazionale”, l’altro, invece, sulla scia in particolare di Cacciari, convinto della necessità storico-destinale di un’altra Europa capace di rigenerarsi per crisi, ereditando tutti valori che ha prodotto nel corso dei millenni.
Io, dal mio canto, mi sono permesso di suggerire – condividendo con Vitiello l’idea di una crisi ineluttabile dell’Europa come costruita fino ad oggi, e provando profondo orrore per le conseguenze della globalizzazione – di lavorare sul concetto di limite, come suggerito da Serge Latouche. A differenza di Dallari non penso la storia in termini “destinali”. Ritengo, da umile docente di storia quale sono, che la globalizzazione, esattamente come la rivoluzione industriale, sia evento accaduto in un certo modo anche per precise volontà politiche. E che, dunque, sperimentatane la potenza dissolutrice (del bisogno primario dell’uomo, il radicamento, oltre che di una vita “sensata” e sicura) sia necessario il limite come sola possibile cura per la ὕβϱις ma anche come antidoto alla forza sradicante che, dissolvendo i confini, ci rende sì “abitanti del mondo” ma anche “apolidi”. Insomma, ed è domanda impegnativa per me che leggevo fino a pochi anni fa con entusiasmo e partecipazione la trilogia di Toni Negri, è possibile pensare in maniera nuova parole come “nazione” o, addirittura, “madrepatria” senza diventare nazionalisti (senza regressioni identitarie) ma vedendo in esse l’unico, storico organismo politico “a misura d’uomo” in grado di garantire ai cittadini una vita dignitosa? Come scrive Latouche in Limite (Bollati-Boringhieri, 2012), contro l’ideologia del “senza frontiere”, «la frontiera non isola, filtra. Le frontiere, per quanto arbitrarie possano essere (e c’è da sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti». 

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Questo il libro di cui si è parlato: