domenica 16 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XVI

Teresa Simeone ha onorato il mio libro di una lettura attentissima e, in molti passaggi, assolutamente empatica, della quale non posso che ringraziarla ancora. Nella seconda parte del suo intervento, muove tre rilievi, tutti meritevoli di un tentativo di risposta da parte mia. Considero gli incontri che sto portando avanti, grazie alla disponibilità di amici straordinari, “a partire dal libro” (non sul libro), un momento di “vaglio” del mio lavoro. La qualità degli interlocutori costringe a rileggere ciò che ho prodotto negli anni e a testarne la “resistenza”.
I tre rilievi di Teresa sono i seguenti:
1) come è possibile che, in un percorso in cui viene affermata l’ineludibilità del nesso vita-opera, Heidegger svolga un ruolo così centrale?
2) la poesia può essere un’alternativa alla “ragione critica”?
3) la scienza e la filosofia non sono in grado di “arginare” le pretese potenzialmente distruttive della tecnica?
Sulla prima questione, rinvio a quanto scritto negli anni sulla questione Heidegger-nazismo, in prima battuta, per non ripetermi. A Teresa, però, che solleva un problema preciso, rispondo, come ho già fatto nel libro, ricordando che un suo grande allievo, ebreo, ritenne altissima la sua speculazione malgrado la miseria morale dell’uomo. Non è risposta sufficiente. Me ne rendo conto. Ma l’alternativa sarebbe rinunziare al pensiero di Heidegger a causa della sua bassezza umana. Ovvero rinunziare ad un pensiero potentissimo, capace, se compreso, di mettere in discussione l’intero assetto della civiltà occidentale. Questo, sia ben chiaro, non implica l’accettazione “integrale” di Heidegger. Mentre per la maggior parte dei miei “maestri eretici”, la vita è parte integrante dell’opera (penso alla Weil, in primis, o a Bonhoeffer), in questo caso no. Inoltre, come pur scritto nell’introduzione del libro, proprio il corto circuito fra autori diversissimi dovrebbe colmare le evidenti “lacune” presenti in essi. Esempio concreto? Molti saggi del libro sono dedicati a questioni etiche. Voglio dire che, pur ritenendo Heidegger pensatore “assiale”, non ho mai pensato di seguirne sentieri ed esiti. Ritengo, però, il suo ripensamento dell’ontologia, il suo auspicio di un superamento della “filosofia” verso un “pensiero rammemorante”, la centralità affidata al linguaggio della “poesia” acquisizioni irrinunciabili per un pensiero che voglia essere realmente “trasformativo”.
Sul rapporto poesia-ragione critica, potrei rispondere a Teresa che solo l’accettazione del “paradigma” heideggeriano rende possibile capire in che senso e perché la “filosofia” deve finire. Anche qui rinvio ad altre riflessioni più analitiche in proposito. Quello che mi premeva, però, sottolineare dialogando con Teresa è che, a mio avviso, resta dentro un’idea di poesia che è tutta “soggettiva”, emotiva, sentimentale, poesia prodotta proprio dall’accettazione che altre siano le “vie” per giungere alla “verità”. Heidegger consente di ripensare questa deriva (che può essere invertita). La mia ricerca è “dentro” questa idea di poesia-pensiero, poesia capace di “vedere” la realtà in modo non tecnoscientifico. La qual cosa ha poco a che fare con il “sentimento”, visto, a partire almeno dal XVII secolo, come qualcosa di separato e contrapposto alla ragione. Lo sguardo della poesia non è “irrazionale”, ma intriso di una razionalità altra, non strumentale né critica. Questo, ovviamente, non deve impedirci di utilizzare tutti gli strumenti umani per capire la complessa realtà in cui siamo immersi. E per agire in essa trasformativamente. Come credo di andar facendo quotidianamente.
Alla terza domanda di Teresa vorrei rispondere in maniera abbastanza secca, dicendole “no, non è possibile”. Invece, mi limiterò ad invitarla alla lettura di uno dei più cari dei miei “maestri eretici”, Günther Anders [nella foto], totalmente ignorato dalla nostra manualistica filosofica. E vorrei riparlarne dopo questa lettura. La scienza, di cui la filosofia è madre per poi divenirne ancella, a partire dal XVII secolo, nasce con un progetto di dominio in cui l’illimitato è genetico, e cioè il rifiuto di qualunque limite. Come pochi decenni prima si erano varcate le colonne d’Ercole, così si sognò l’immortalità (Cartesio), nuove Atlantidi il cui benessere fosse garantito dalla tecnica (Bacone), si violarono i segreti più reconditi della natura, si scisse l’atomo, si manipolò la cellula… Il limite non sarà mai fissato da alcuna bio-etica (pur doverosa), ma solo da un ripensamento ab imis dell’essere. Di qui, e chiudo come ho iniziato, la centralità di Heidegger.

mercoledì 12 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XV

Ti ringrazio per avermi scelto per presentare il tuo libro. Ne sono onorato. In un primo momento, lo confesso, ho pensato ad un errore di persona! Come sai non sono un esperto di filosofia e sotto tale profilo sono il meno indicato a parlare (anche se, chiarisco subito, il tuo libro non è di filosofia). Mi guadagno da vivere facendo l'avvocato e scrivo per diletto. Tutto qui. La mia presentazione dunque è quella di un semplice lettore.
Ti conosco dai tempi de la rosa necessaria. Venni ad uno dei vostri incontri. Esordisti così: «Noi qui leggiamo poesie». Mi piacque molto quella frase. Se posso condensare il tuo libro in un'espressione, forse non troverei frase più adatta. In effetti indichi nella poesia una possibilità di salvezza. Ti dico subito che ne sono convinto anch'io. Su come la poesia possa compiere questa missione stornando l'umanità da certe miopie, questo è un altro discorso. Ci ritornerò a breve.
Il tuo è, solo apparentemente, un libro di riflessioni varie. In realtà credo ci sia un forte filo conduttore che lega le pagine. Anzi, penso ci sia un'“onda” squisitamente narrativa. Quella a cui ogni bravo scrittore deve tendere, che tiene desta l'attenzione del lettore e che gli fa vivere con partecipazione il “racconto”. Per me questo è un pregio. Non trascurabile. E spero non me vorrai, visto che nelle tue pagine cerchi di mettere in discussione la “tecnica”, non esclusi taluni aspetti formali e dimensioni estetizzanti della letteratura, così come sino ad oggi la conosciamo.
Nell'introduzione, infatti, in particolare nello "Scopo del libro”, poni subito delle riflessioni importanti; parafrasando una tua espressione poni «profonde domande di senso», ed io aggiungo , come appassionato di scrittura e dunque anche dagli aspetti tecnici ed estetici ad essa connessi, poni di fatto anche “l'ostacolo” squisitamente narrativo: «stiamo vivendo un tempo apocalittico, con l'emergenza contestuale di quattro crisi, ecologica, energetica, economica e psichica. Il rischio concreto è quello di un vero e proprio collasso». In altri termini obblighi il lettore a chiedersi: «E ora? Come usciamo da questo tempo “apocalittico”? Come evitiamo il collasso? Come superiamo l'ostacolo?»
La parte centrale del libro, attraverso la presentazione dei "Maestri eretici" (ma anche più innanzi con le bellissime riflessioni sulla “tecnica”), individua lo sguardo nuovo da adottare. Cominci a dare, cioè, degli spiragli di uscita. Sono autori "forti”; il loro pensiero e le loro scelte di vita suonano come un ceffone a viso aperto. Con intuizione inedita accosti tra loro pensatori, scrittori, registi, addirittura contrastanti. Dai un esempio concreto di lotta contro la “parcellizzazione dei saperi”. È un contrasto apparente, poiché alla fine il lettore riesce a cogliere in ciascuno di tali “maestri”, possibilità concrete per invertire la marcia verso il collasso, per “capovolgere l'abisso”. Attraverso le pagine si coglie bene la “proposta” di uno sguardo diverso. Usando una tua metafora, lo sguardo attuale scruta l'orizzonte innanzi la prua del Titanic. Il rischio è immenso. Da una simile nave, evidentemente, dobbiamo cercare di scendere.
Nella parte finale del libro, caro Nicola, indichi nella poesia una strada. Ritengo però sia solo un accenno ad una soluzione. L'onda narrativa del tuo libro, dopo un percorso intenso, indubbiamente ritorna ad un equilibrio e dunque si compie. Tuttavia, accennando al superamento dell'ostacolo (ancorché nell'ambito di un forte segnale di speranza) fai nascere in chi legge degli interrogativi cruciali e soprattutto l'urgenza di risposte. Ecco, proprio qui, da comune lettore, la mia mente si affastella di domande. Hai posto “profonde domande di senso” utilizzando ancora la tua espressione, riesci a farle porre al lettore comune, e poi lo “abbandoni” con questo messaggio: «la poesia è una via di salvezza». Ma come? In che modo? Come può la poesia dare una risposta? Salvare? Come deve essere la poesia della salvezza? In che modo può riuscire nella sua missione? I poeti devono andare in avanscoperta? E gli altri? I non poeti? Non ci vorrebbe chi educhi ad andare verso questa nuova poesia? Chi sia in grado di "preparare"? Qual è il linguaggio di questa nuova dimensione poetante? E soprattutto è un linguaggio che deve abbandonare totalmente la sua dimensione estetica così come la conosciamo? Ognuno dal suo piccolo deve fare la sua parte. Ma affidarsi solo a processi individuali di cambiamento, onestamente, penso sia troppo poco. Credo che adottare un sguardo nuovo non sia facile soprattutto per chi è affetto da miopia cronica. E' cogente dunque anche porsi il problema di come si possa educare all'adozione di questo sguardo diverso.
So che uno scrittore che voglia far passare un messaggio, qualunque esso sia, ha sempre il dovere di sedurre il lettore, di sforzarsi di “toccare” i suoi sensi. Per chi scrive questa è un urgenza sacrosanta al pari del contenuto. Lo sforzo di rendere condivisibile un messaggio, dopotutto, dovrebbe essere comune ogni disciplina. Come lettore è inutile negarti che mi sono nutrito molto anche di quella poesia e letteratura estetizzante o di puro diletto che tu biasimi nel libro. Allora mi chiedo se non bisognerà preparare il terreno proprio a chi come me forse non è ancora pronto ad abbandonare del tutto una certa dimensione estetica. Educarlo e condurlo sulla strada di questo “rinnovamento” o "rovesciamento". Porsi il problema di come i non poeti potranno acquisire lo sguardo “non rapace” e “non dominatore” sul mondo.
Mi auguro sinceramente di leggerti di nuovo, quanto prima. Nell'auspicio che tu possa rendere sempre più agevole la strada nuova da percorrere.

Giovanni Rossi

Giovanni Rossi è avvocato e scrittore.
Il testo è rielaborazione dell’intervento tenuto in occasione della presentazione di
In quieta ricerca a Vitulano l’8 dicembre 2012.

lunedì 10 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XIV

«Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze» (Oscar Wilde). Perché un’affermazione così provocatoriamente conformista in uno scrittore notoriamente indifferente al giudizio dell’opinione pubblica? Probabilmente Wilde voleva farci riflettere su come ciò che appare, spesso, rifletta ciò che è; su come il “visibile” rimandi ad un “invisibile” di cui è manifestazione, esteriorizzazione, fisicizzazione. Quando ho avuto in mano il libro di Nicola, ho pensato proprio a quanta verità ci sia in questo aforisma. Esso, infatti, è anche corpo, materializzazione della sua spirituale visione della vita. Provo ad analizzarne gli elementi.
Il materiale di cui è fatto, carta riciclata, ci parla dell’anima ecologista di Nicola; la casa editrice è “Percorsi”, di cui è socio Carlo Panella, direttore de «Il Vaglio», cui Nicola è legato da un rapporto di stima e di leale amicizia; la copertina è illustrata da Christian Mirra, noto grafico e vignettista, già vittima e testimone dei fatti della Diaz, in occasione del G8, cui Nicola, Michelangelo Fetto e Antonio Intorcia, durante la “Notte Bianca della Scuola Pubblica Sannita”, hanno conferito la cittadinanza onoraria di Benevento, proprio quando la stessa cittadinanza veniva tributata dall’amministrazione comunale al capo della Polizia, Antonio Manganelli.
Vale la pena di soffermarsi sull’illustrazione che, a mio avviso, delinea elementi fondamentali nel vissuto di Nicola: la bicicletta, metafora della sua visione del tempo e di uno stile che, nell’“andare lento”, coglie la necessità di sottrarsi alla frenesia della contemporaneità per godere degli incontri sul cammino e per assaporare i luoghi che si attraversano; il prato fiorito, in primo piano, la sua attenzione per la natura e l’amore per la poesia; il monte alla sinistra con il monumento, forse un castello, e le case di un tipico paesaggio di paese il rispetto per le tradizioni, la storia, il passato; il mare col sole al tramonto il pensiero meridiano e il suo legame con Franco Cassano; i libri che riempiono il disegno la cultura che nutre le sue giornate. La dedica alla madre, radix/matrix, per usare le espressioni di uno dei suoi amati poeti, Paul Celan, e alla figlia Caterina, semen, testimonia il legame con due donne centrali nella sua esistenza, a cui si aggiunge un’assenza/presenza, quella della sua compagna di vita che ne rappresenta il trait d’union, la continuità tra un passato ed un futuro che si fondono nel presente.
Il titolo (In quieta ricerca) rimanda al significato di una ricerca che dà valore, socraticamente, alla vita ma condotta quietamente, senza l’affanno faustiano, come si ricorda nel libro; la ricerca però è anche sempre «inquieta», perché è conversione e ri-conversione, messa in discussione di ciò in cui si crede, correzione e revisione, conflitto e lacerazione...
La prefazione è affidata ad un’altra presenza importante, Marco Guzzi, il pensatore sensibile e attento che ha operato in lui una profonda conversione, avvicinandolo, dopo l’ateismo militante cui era approdato, ad una visione più serena della spiritualità.
Qual è lo scopo del libro? Nicola lo dichiara esplicitamente: criticare il mito del progresso, valorizzare uno sguardo poetico sulla natura che nasca da una profonda rigenerazione spirituale; riconoscere la nostra creaturalità per lenire il prometeismo che, dall’avvento della modernità, guida le sorti umane; prendere consapevolezza dalla necessità di applicare quell’etica della responsabilità che Hans Jonas ci ha indicato come necessaria per poter consegnare ai nostri figli una madre Terra non del tutto devastata da una tecnica illimitata.
Il libro è percorso dalla raffinata poesia di René Char («Se abitiamo un lampo, il cuore dell’eterno») ; dalla saggezza pedagogica di Edgar Morin, che, nel ricordare il monito di Michel De Montaigne a formare «teste ben fatte» invece che «ben piene» ripropone un insegnamento/missione che richiede eros, piacere, desiderio, amore non legati al potere, ma al dono, esattamente come fa ogni giorno Nicola con gli studenti che hanno la fortuna di averlo come educatore; dalla «coerenza mobile» di Marco Revelli, a proposito della quale Nicola dice che è propria di chi, come lui, è fedele alla propria scaturigine, ma mette comunque in discussione la propria tradizione; dalla critica di Serge Latouche all’americanizzazione del quotidiano e all’occidente culturicida, culturofago, con la sistematica distruzione della biodiversità culturale; dallo smantellamento del mito dello sviluppo che ha portato, incarnato dall’homo faber/demens al comunismo sovietico, ad Auschwitz, a Hiroshima; dal continuo, esplicito/implicito, richiamo alla filosofia di Heidegger.
«Ho combattuto tutta la mia vita sulle frontiere» è la frase preferita che Nicola, riprendendo Charles Peguy, utilizza spesso per connotare le sue scelte di vita, il suo essere partigiano, il suo coraggio nel prendere posizioni difficili, spesso decisamente “eretiche” e che lo pongono fuori da ogni chiesa, all’interno della quale si sentirebbe soffocare. D’altronde, come scrive Ernst Bloch, «il meglio della religione è che essa suscita eretici». La prima parte del libro è, quindi, dedicata proprio ai “maestri eretici”: perché? Eresia” deriva dal greco airesis, che significa “scelta”. Eretici erano gli appartenenti ad una scuola, come quella stoica o epicurea, consapevoli di compiere una precisa scelta tra le diverse forme di vita e conoscenza; in ambito cristiano, invece, venne ad assumere connotazione negativa, dal momento che si era obbligati a scegliere un’unica via, quella Orto (retta)-Dossa(opinione), indicata dal Maestro e garantita dall’Ecclesia. Problema che si pone ininterrottamente a Nicola che crede sia essenziale all’essere umano scegliere, prendere posizione.
E tale assunzione riguarda soprattutto non una domanda fra le tante che l’uomo può farsi, ma la domanda, cioè: c’è Dio? La cui tragicità affatica inevitabilmente ogni pensatore onesto e consapevole. Mario Pomilio, con Il Quinto Evangelio e Dag Hammarskjöld, premio Nobel per la pace, gli offrono spunti per rispondere. Non è l’atto religioso a fare il cristiano e neppure la sua fuga nel trascendente, ma la sua partecipazione alla storia di Dio come si manifesta nella storia del mondo. Il nuovo cristianesimo nasce sulla disposizione alla speranza e sul dissenso, sulla disobbedienza al «principe di questo mondo», dall’incontro con Cristo, dalla scoperta dell’altro e dal dono di sé.
Sono questi maestri che gli consentono di superare il rifiuto di una fede confessionale senza rassegnarsi all’ateismo, ma approdando ad una spiritualità che ne appaga l’anima senza rinchiuderla in una chiesa. Una possibilità di risposta, nell’operare una netta separazione tra religione e spiritualità, tra cristianesimo come dogma (gerarchia/istituzione) e kerigma (annuncio/ testimonianza), Nicola l’ha trovata in Bonhoeffer, Weil, Hillesum.
Dietrich Bonhoeffer gli ha indicato cosa significhi vivere in Cristo, come il figlio sia venuto proprio ad abolire la religione, anzi a diventare «il Signore anche dei non-religiosiĞ, e come l’uomo che pone Cristo al centro sia pienamente immerso nella propria mondanità, sia «fedele alla terra», disinteressato al problema della salvezza individuale. Ma Bonhoeffer lascia aperte altre domande: come si deve porre quest’uomo di fronte al culto e ai sacramenti? Si è cristiani sulla base dell’adesione ai precetti di fede o in base ad un’adesione esplicita o implicita a Cristo?
Simone Weil, nel ricordargli come gli occidentali abbiano distrutto il passato nelle proprie patrie e in quelle altrui, come il lavoro abbia nella gioia un valore spirituale profondo, ha dato supporto alla sua convinzione che sia necessario abbandonare l’idea moderna di “progresso” e «mettersi in ascolto della parte muta, anonima, sparita della storia». La Weil visse integralmente le proprie idee: volle farsi operaia, fragile, povera; andò volontaria in Spagna durante la Guerra civile, fu profondamente credente, ma non volle mai entrare in una chiesa cattolica che misconosceva la potenza salvifica delle altre fedi.
Etty Hillesum, ebrea che morirà nel 1943 ad Auschwitz, nel suo Diario, ci mostra come per lei la fede sia arrendersi completamente a Dio, in un atto estremo di consacrazione e di amore... Cosa hanno in comune Bonhoeffer, Weil, Hillesum? Una risposta alla domanda fondamentale di Nicola, che è poi la nostra, e, soprattutto, aver vissuto in perfetta coerenza di principi e azioni: Bonhoeffer la possibilità del tirannicidio, Weil l’impegno, Hillesum la resa a Dio nel momento della massima sofferenza. Lo stesso Marco Guzzi, dice Nicola, gli «ha insegnato a non separare le nostre biografie dai nostri saperi». E Heidegger, allora?
La loro individuazione come maestri di vita sembra, in qualche modo, pacificare proprio la scelta di aver conferito ad Heidegger la centralità nella sua filosofia. Riconosco a Nicola di aver aperto, con spirito acuto e attento al dibattito internazionale, la cultura sannita alla riflessione su pensatori poco frequentati, come appunto Martin Heidegger. Personalmente credo, però, che sia anche il più imbarazzante “scandalo”, proprio nel senso di skándalon, che egli si trova a vivere: dover continuamente giustificare la sua predilezione per un filosofo che non è stato semplicemente omissivo nei confronti del Partito Nazista, non è stato “indifferente”, ma ne è stato un sostenitore convinto; il membro pagante dal 1933 al 1945 del NSDAP; il rettore dell’università di Friburgo che disse ai suoi studenti: «Fate che non siano teorie o “idee” a guidare il vostro essere. Il Führer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, per oggi e per il futuro»; che disprezzava la Repubblica di Weimar e citava Omero: «Il governo di molti non è bene, fate che sia il governo di uno solo, di un solo re»; che non ha scritto una sola riga, anche dopo la fine della guerra, sulla Shoah e che a Marcuse, che in una lettera del 20 gennaio del 1948 gli chiedeva perché non avesse parlato dei campi della morte, rispondeva che lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista era paragonabile a quello dei tedeschi nell’Unione sovietica, esattamente lo stesso argomento che adducono oggi gli ex filonazisti. Capisco che, come ha più volte sottolineato Gianni Vattimo, è talmente scontato il collegamento col nazismo quando si parla di Heidegger, da essere irritante e dunque ininfluente filosoficamente, ma se dopo I libri di Victor Farias, Heidegger e il nazismo, e quello di Hugo Ott, Martin Heidegger, che hanno affrontato la posizione di Heidegger, ancora quest’anno Emmanuel Faye pubblica Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, vuol dire che il problema non è affatto superato. Non basta, infatti, e Nicola lo sa bene, citare Günther Anders quando, a proposito di Heidegger, riconosce: «Un tal filosofo, mediocre moralmente, quanto grandioso speculativamente» che riconduce la sua scelta politica a opportunismo, condannando la viltà dell’uomo, ma salvando la grandezza del filosofo. Non basta perché il problema non è se sia stato o meno incoerente con la sua filosofia, ma se la scelta ideologica sia anche frutto della sua speculazione o se la sua riflessione abbia determinato la scelta politica. E’ questo il problema più scottante che il libro di Faye affronta anche in considerazione della straordinaria influenza che Heidegger ha avuto e continua ad avere sul pensiero contemporaneo.
Fare come propone Heidegger a proposito dell’Essere, inoltre, «porsi in ascolto», non sembrerebbe indulgere ad un fatalismo, e quindi ad una sorta di storicismo in cui l’accettazione dell’esistente non è che la versione drammatica del più pacato «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale». Questo Essere che si svela non rischia di essere visto come il logos che percorre la storia? Si lascia ascoltare, bene, non si impone, ma è pur vero che, storicisticamente, la percorre. Se l’Essere si rivela nel tempo, nel momento storico, allora è giustificato che si sia rivelato nell’avvento e nel trionfo del nazional-socialismo?
Nicola, come molti grandi filosofi e poeti, è convinto che l’aspetto nobile, aereo della filosofia heideggeriana riposi nella calda poesia che arricchirebbe la fredda filosofia. È sicuramente l’aspetto più contemporaneo, affascinante delle conclusioni heideggeriane, ma io mi chiedo: l’aver affidato al valore della parola, della poesia che incanta, che stupisce, che ammalia, l’ascolto dell’essere può difenderci dalla fascinazione acritica, dalla capacità affabulatoria del linguaggio, dall’uso spregiudicato del carisma che incanta la fantasia, ma narcotizza la ragione critica? Penso ai filosofi veggenti, ai profeti convinti di potersi mettere a guida dell’umanità e orientare il futuro degli uomini. La poesia, dice infatti Heidegger, è «lo sguardo sul mondo» che salva; è ciò che può «rintracciare la direzione della svolta».
Al di là della bella suggestione che un pensiero poetante può indurre e del dialogo che pensatori come ad esempio Gianni Vattimo accettano tra poesia e filosofia, è veramente possibile una filosofia che sia poesia? La poesia è diversa per ciascuno, è canto dell’anima individuale, mentre la filosofia aspira all’universalità; poesia è perdersi mentre il filosofo è ossessionato dal non perdersi; la poesia è rivelazione della verità, la filosofia ricerca della verità; la poesia è illuminazione, folgorazione: è il fulmine; la filosofia è riflessione, attenzione: è l’incendio.
E ancora: quell’oscurità linguistica, quell’ermeticità di Heidegger, che per Nicola è una scelta obbligata per sfuggire il canto delle sirene di un linguaggio “prostituito” alla metafisica e alla scienza, non è piuttosto ripudio di ciò che è comune, medio, razionale; insofferenza alle regole, al diritto; rifiuto per la democrazia, la scienza, la tecnica? Certamente la democrazia può degenerare in libertinaggio, certamente la scienza può condurre all’abisso di Hiroshima, certamente la tecnica può distruggere il pianeta, ma la democrazia è nata per garantire il dialogo tra gli esseri umani, la scienza per consentire il controllo di una natura che non è sempre buona, ma anche selvaggia e distruttiva, la tecnica per migliorare le condizioni di esistenza, sconfiggere malattie. Cosa può salvarci dai loro esiti aberranti? Nicola è convinto che sia la poesia e che la Filosofia che, insieme al maestro, identifica tout court con la metafisica cartesiana, sia destinata alla morte, a meno che non si lasci abitare dalla poesia. Ma perché ipotizzare la morte della Filosofia, come ultima ratio? Con il riferimento a Popper, a Khun e ad Heisenberg non ci ricordi tu stesso, caro Nicola, che la scienza e la filosofia sono in grado di darsi l’antidoto, di crearsi da se stesse gli anticorpi per difendersi dallo scientismo? Personalmente continuo a pensare che ciò che anche oggi possa darci il limite necessario a correggere la hýbris di un sapere illimitato sia l’etica: è l’etica che, nella deriva politica, civile, religiosa, nella disumanizzazione tecnologica, nell’offesa alla Terra e agli esseri viventi, nella barbarie omofoba e xenofoba può darmi ancora quei punti di riferimento ineludibili che nessuna fascinazione estetica, per quanto forte, può cancellare. Etica è limite, la mancanza di etica è l’illimitato. Heidegger non ha lasciato alcuno spazio ad essa. E ancora: perché la ragione deve essere contrapposta ai sentimenti? Non era Alcmeone che già nel V secolo a.C. indicava un’unica sede, il cervello, per i pensieri e i sentimenti? Lo stesso Kant, considerato il filosofo del dovere, del rigore, del finito sostiene nella Critica della Ragion pura che il sapere scientifico poggia su un mondo che deve, fenomenicamente darsi per essere conosciuto, ma non nega che ci sia una realtà, oltre quella naturale retta da leggi necessarie, che si caratterizza come il mondo della libertà. È l’Etica che ci rende liberi e ci fa scoprire non la nostra onnipotenza, ma la nostra dignità di esseri umani, il comune fondamento della nostra umanità. Noi siamo giudici e imputati, desiderosi di illimitato, ma consapevoli della nostra limitatezza e questo limite non è dato da niente e nessuno fuori di noi, né ce lo può dare solo la poesia, che spesso invece è trasporto, suggestione, incantamento, ma è dato dalla legge morale che è propria di ogni essere umano. Personalmente, pur lasciandomi cullare dalla poesia quando le ansie mi soffocano l’anima e pur rispettando profondamente la raffinatezza e la nobiltà della tua scelta, nelle decisioni importanti, nell’orientamento della mia vita preferisco ancora affidarmi alla ragione “critica”, a quella ragione “buona” che dà il limite a se stessa e che ancora può difenderci da quei monstruos che Goya ha descritto così efficacemente e contro i quali tutti noi, io e te, amico mio, combattiamo ogni giorno.

Teresa Simeone

Teresa Simeone insegna storia e filosofia presso il Liceo Artistico di Benevento. Collabora a «il Vaglio».
Il testo è rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione della presentazione di
In quieta ricerca a Vitulano l'8 dicembre 2012.

venerdì 7 dicembre 2012

"In quieta ricerca" XIII

Ieri [30 novembre], alla Luidig, ho assistito alla (seconda) presentazione del libro In quieta ricerca; è stato una sorta di controcanto all'apoteosi del Teatro de Simone, una specie di controfestival, cui Nicola si è esposto con grande umiltà, quasi lo ritenesse un atto dovuto. È stata una sassaiola, e non solo da parte dell'irriverente Guido Bianchini e del decadente Luigi Furno.
L'immagine che ho di Nicola è, come gli ho detto, tutta nella copertina del suo libro. Non è un espediente per glissare sul contenuto: il libro l'ho letto, anche avidamente, ma ritenendolo una “mappa concettuale per diventare Nicola Sguera”, non ne parlerò. Con questo non voglio essere riduttivo: c'è la vita, la formazione, la complessità, la forza e la debolezza di un uomo che io ritengo, per me, guida e ascolto. 
Ma dicevo della copertina, azzeccatissima, a mio parere: azzeccatissima nell'aver individuato la dimensione di Sguera, un paesaggio in quiete, tra libri che volteggiano, un sole sullo sfondo, senza esseri umani nel paesaggio, né animali. Una illustrazione vegetariana. Che paradossalmente ha, come richiamo degli esseri umani, solo prodotti di quella tecnica pure tanto aborrita a parole da Nicola: libri rilegati, una bicicletta, occhiali, una barca, poche case. Gli uomini scompaiono e ricompaiono nelle loro realizzazioni. Anche la famiglia, un punto fermo nella vita di Nicola, è assente. Ma forse la sta raggiungendo, nell'illustrazione. Forse sta tornando alla comunità dal suo otium di campagna. 
Questo è ciò che sempre ho rimproverato a Nicola, che in modo testardo si definisce socratico: Socrate costruiva la verità col dialogo e nel dialogo, in una dimensione politica di ricerca; in Nicola, la dimensione politica (nel senso più largo del termine) è una dimensione di divulgazione, di una verità propria ch'è il frutto piuttosto di una introspezione, di una spiritualità, anche profonda. 
La mia impressione è che Nicola abbia pudore della propria spiritualità, e si ostini a sporcarla col mondo. I risultati sono spesso maldestri, o equivocati, come nella scritta «Sguera infame», sul muro del “suo” liceo [vedi foto in basso]. Chi ha scritto ciò, si è impressa una macchia ancora peggiore di quella presunta: l'ingratitudine. Se per un attimo vi soffermate su ogni singola parola, capirete che cosa voglio dire. 
Tuttavia, Nicola, la tua foto sorridente accanto la scritta mi ha turbato. Capisco il tuo amore per la frontiera, ma in questo momento sei più su una china, e fa' attenzione. Te lo dico perché ti voglio bene. Perché ti voglio bene, ieri t'ho detto che ogni comunità ha gli intellettuali che si merita. Voleva essere, nel mio registro comunicativo che conosci, un complimento scherzoso. Perché io ritengo che tu sia, per la nostra città, una rosa necessaria.

Nunzio Castaldi

Nota apparsa su Facebook (con il titolo "Nicola Sguera, ovvero sull'infamia o dell'infamità"). Nunzio Castaldi ama definirsi «partita I.V.A.». In realtà, conserva una passione autentica per la filosofia (e in particolare per il pensiero e l’opera di Carlo Michelstaedter) e per la cultura latina.

La scritta immortalata nella foto di Massimo Terella fa riferimento alle polemiche legate alle "occupazioni" delle scuole da parte degli studenti, frangente nel quale io ho assunto una posizione fortemente critica, suscitando le ire delle frange più radicali del movimento studentesco

mercoledì 7 novembre 2012

"In quieta ricerca" XII

Quando ho deciso di raccogliere parte dei miei scritti in un libro, per la copertina non ho avuto dubbi: malgrado l’appassionata frequentazione della pittura occidentale, da Masaccio a Bacon, malgrado l’amicizia con artisti di chiara fama, ho voluto che ci fosse un disegno che evocasse una delle mie grandi passioni: il fumetto. Per questo ho scritto a Christian Mirra, autore di uno dei graphic novel più importanti degli ultimi anni, sia per quello che racconta sia per come lo racconta. E Christan, sulla base di poche mie indicazioni (un omino che si muove tra città e campagna) ha tirato fuori una cosa tutta sua, con la bella invenzione dei libri che prendono il volo… 
Ci tenevo, però, oltre a ringraziare ancora Christian, a sottolineare che la scelta – oltre al dovuto omaggio al fumetto, con il quale ho elaborato da giovane le mie categorie morali e parte della mia estetica – ha valenza teorica e pratica nello stesso tempo. La bicicletta, infatti, per me non è uno svago ma il simbolo di una tecnologia “buona e intelligente”, che amplifica le facoltà umane senza corromperle. E non inquina, fa bene alla salute, facilita le relazioni… e… 
Nella primavera del 2011 tenni degli incontri seminariali, ospitati dal L@p – Asilo 31, dedicati alla lettura di un breve testo di Ivan Illich, tradotto in italiano con Elogio della bicicletta. Illich è uno dei maestri “eretici” di cui parlo nel libro… A gennaio dovrei iniziare un altro breve seminario a lui dedicato. Quest’anno ricorre il decennale della scomparsa. Nel libriccino la tesi di fondo è che una società è tanto più iniqua quanti più quanta di energia consuma. Fu illuminante per me: cambiare tecnologie e andare verso il futuro, ad esempio, con la bicicletta (sì, ho scritto proprio andare verso il futuro…) non incide solo sulla qualità della vita (aria, salute del corpo, relazioni, vivibilità cittadina) ma anche sulla giustizia sociale.

lunedì 5 novembre 2012

"In quieta ricerca" XI


Questa raccolta di brevi scritti di Nicola Sguera parla di un unico tema, e cioè dell’attraversamento di una soglia, di un rivolgimento interiore e al contempo planetario che stiamo sopportando tutti insieme, dentro una spessa caligine di inconsapevolezza, e cioè senza una cultura che illumini il senso del transito in atto.
Concentrando la propria attenzione sulla natura di questo tempo estremo, in cui ciascuno di noi convive con uno stato terminale e con un barlume di auroralità, il libro non può che riferirsi a quegli autori che lungo il XX secolo si sono dedicati alla passione escatologica di una fine che segnala alle orecchie davvero deste i presagi di un avvento. Ad esempio Martin Heidegger negli anni ’50 scriveva: «Se penseremo in base all’escatologia dell’essere, dovremo un giorno aspettare l’estremo del mattino nell’estremo della sera, e dovremo imparare oggi a meditare così su ciò che è all’estremo».
Purtroppo questa riflessione sul senso delle varie fini in atto (fine delle ideologie, della modernità, dell’Occidente, della storia delle guerre, del matrimonio patriarcale, di un certo cristianesimo, della democrazia liberale, ecc.) è ancora molto carente, e questa povertà di pensiero spiega la depressione psichica prima che economica, e spirituale prima che culturale, dei popoli europei.
Nicola perciò si concentra su quei “maestri eretici” che invece si sono consacrati alla sperimentazione fisica, direi, del proprio trapasso, e della transizione antropologica in cui siamo centri-fugati come in un vortice tremendo: da Bonhoeffer a Kuhn, da Char a Tarkovskij, da Simone Weil a Morin, e così via.
Che cosa unisce questi ricercatori così estremi?
Proprio la loro dedizione, la loro sensibilità ai moti sottilissimi del Nascente, di quella umanità rinnovata che sta tentando di emergere in noi e sul pianeta terra, per sostituirsi a forme di conoscenza e di convivenza ormai del tutto inadeguate, stantie, false, e sostanzialmente insostenibili.
Questi autori di conseguenza vivono sul limite dei tempi, sulla soglia, ed esorbitano da ogni ripartizione accademica dei saperi, in quanto il Nascente sconvolge proprio quelle frontiere mentali che abbiamo edificato lungo i secoli tra scienza e visione, tra poesia e verità, tra spirito e materia, tra contemplazione e trasformazione del mondo.
Nicola in sostanza non vuole distrarsi, non vuole “fare letteratura”, e non può neppure “filosofare”, perché percepisce con troppa sofferenza, dentro le fibre emotive della propria carne, il tracollo di un’epoca intera, e l’urgenza di un rovesciamento senza precedenti.
In tal senso i suoi sono scritti rivoluzionari.
Il termine Rivoluzione va infatti assolutamente recuperato, purificandolo dalle deformazioni, dalle limitazioni concettuali, e dalle violenze in cui lo abbiamo interpretato negli ultimi trecento anni.
La Rivoluzione è invece innanzitutto un moto di Ritorno, un termine astronomico, che ci indica che torniamo però andando in avanti, come diceva Char: il ritorno è in avanti.
La Rivoluzione in atto è una trasformazione antropologica, la fine di un’intera figurazione storico-culturale dell’umanità. La Rivoluzione è cioè un’onda in cui siamo già tutti coinvolti, a noi spetta solo di collaborare a questa transizione, e cioè di comprenderne e di facilitarne la direzione evolutiva.
Partecipare consapevolmente a questa Rivoluzione significa insomma impegnarsi attivamente nella propria e al contempo cosmica guarigione, e cioè nella trasformazione, cellula per cellula, di tutte le nostre distorsioni, paure, rabbie, disperazioni, e conseguenti distruttività. È un immenso lavoro interiore e insieme culturale, e alla fine necessariamente anche politico. Questo è in realtà il novum, ancora non ben individuato, del XXI secolo: dobbiamo comprendere che la rivoluzione indilazionabile di tanti assetti violenti e ingiusti di questo mondo non può procedere se non è accompagnata e ispirata ad ogni passo dai processi della nostra più intima e quotidiana liberazione interiore.

Marco Guzzi

Marco Guzzi è poeta e saggista. L’ultimo suo libro è Il cuore a nudo.

domenica 4 novembre 2012

"In quieta ricerca" X

Non a caso Giancristiano Desiderio è una delle persone che ho voluto ringraziare ad apertura di libro, essendo stato in questi anni un interlocutore prezioso in maniera direttamente proporzionale alla distanza che separa le nostre “visioni del mondo”, distanza che non ha impedito (anzi, ne è stato elemento propulsore) di creare, insieme ad Amerigo Ciervo, la Libera Scuola di Filosofia del Sannio, palestra dialettica, esercizio permanente del dialogo tra diversi.
L’articolo che ha voluto dedicarmi (Ciò che dice e ciò che non dice Nicola Sguera) su Sanniopress ne è conferma, cogliendo problematiche centrali del libro ma da un’angolazione e con attrezzi culturali totalmente altri. Per questo è per me, che vivo la pubblicazione del libro come una messa a punto o una messa in discussione degli “attrezzi” costruiti negli ultimi vent’anni, uno stimolo importante.

1) Ethos. Giancristiano parte dalla premessa che il vero nucleo di quanto vado scrivendo sia da ricercarsi nella vita, concepita eticamente. Assolutamente vero, ma già qui mette in campo la sua strumentazione che predilige la “distinzione”, mentre l’assunto (anche esplicito) di In quieta ricerca è la volontà di tenere insieme, di tessere insieme (in maniera “complessa”) non solo teoria e prassi ma tutti gli ambiti dell’umano, che retroagiscono l’uno sull’altro. Per me l’etica è ipso facto politica, ma anche estetica e spiritualità (per citare solo gli ambiti che frequento con più consapevolezza). 

2) La svolta. Che cos’è la “svolta”? Scrive Giancristiano: «[Essa] quando verrà, fonderà un nuovo mondo in cui la tecnica che ci signoreggia si inabisserà definitivamente permettendo così che l’essere esca dall’oblio». Termine entrato nel lessico filosofico grazie ad Heidegger, per spiegare l’evoluzione del suo pensiero, esso a me evoca in primis quel turning point che dà il titolo ad un libro importante di Fritjof Capra (Il punto di svolta) e poi il primo libro di Marco Guzzi, nume tutelare e prefatore di In quieta ricerca, a cui esplicitamente ispiro parte importante delle mie riflessioni. L’errore che, però, compie Giancristiano è di vedere nella “svolta” o una necessità teleologica (sul modello hegelo-marxista) o un’attesa fideistica. Da una parte, invece, la “svolta” è una urgenza del nostro tempo, dettata da motivi che sono di ordine ecologico ed economico (ma anche etico e spirituale, ovviamente), pena l’autodistruzione di condizioni di vita “umane” sulla Terra-Madre che ci è stata affidata in custodia. Da questo punto di vista, dunque, nulla di esoterico o “metafisico”. Svolta come cambiamento radicale, come superamento della “preistoria” in cui ci troviamo ancora a vivere sia nel rapporto uomo-natura che nel rapporto uomo-uomo, entrambi fondati sullo sfruttamento e la vessazione. Dall’altra, invece, la “svolta” richiama l’urgenza di un ripensamento ab imis della metafisica e dell’ontologia (di qui la centralità del pensiero heideggeriano, su cui tornerò). Solo rispondendo in maniera diversa (a livello della “teoria”) alla domanda “originaria” posta dal pensiero greco («Che cos’è l’essere?») sarà possibile quella radicalità (nella “prassi”) di cui il nostro tempo “terminale” ha bisogno. Anche qui, dunque, un nesso inscindibile, complesso, fra la teoria e la prassi. L’una, se non cerca sempre di incarnarsi, rischia una luciferina ascesa iperurania e, dunque, l’insignificanza, l’altra, priva di “sguardo”, di teoria appunto, rischia di compiere errori clamorosi (come la storia del comunismo, ad esempio, dimostra). Ma, in ogni caso, vorrei fosse chiaro che la “svolta” non accadrà senza un’attiva partecipazione degli uomini. Questo, per evocare il noto verso di Hölderlin, è il tempo del “massimo pericolo”. È vero: cresce anche “ciò che salva”. Ma il pericolo è totale. È il pericolo dell’annichilimento dell’umano nell’uomo e del luogo del suo abitare. La “svolta” non è una necessità: è una speranza, che va supportata nel pensiero e nell’azione. La storia non è retta da alcun telos. L’uomo è libero in essa di dannarsi o di salvarsi. 

3. Heidegger. Con Giancristiano abbiamo già proficuamente duellato sul problematico pensatore della Selva Nera. Non ripeterò argomentazioni di quel confronto. Volevo, invece, sottolineare come, in realtà, non sia vero che «il pensiero di Heidegger è innalzato a chiave di lettura di tutta la storia della filosofia» o che sia il pensatore fa ombra a tutti gli altri. Nell’"Introduzione" ho scritto che forse l’unico aspetto originale di In quieta ricerca è il tentativo di far interagire pensieri e vite lontanissime tra loro. Il pensiero di Heidegger è monco su questioni per me assolutamente centrali, va integrato e messo in cortocircuito con mondi lontanissimi da lui. Giancristiano, poi, riprende la sua assimilazione dell’heideggerismo (di cui rivendico un’interpretazione non “urbanizzata”, gadameriana ma radicale, “rivoluzionaria”) allo storicismo crociano nel «cambiamento del concetto di verità […]: la verità non è più un rispecchiamento ma una creazione, è storia o, per usare l’enfasi heideggeriana, evento». In realtà, come ben coglie Roberto Esposito nei suoi libri recenti, in Heidegger, come in altri autori (penso al mio amato Char) c’è sempre qualcosa che è “a monte”, che non è nel flusso del divenire storico (anche se questo “a monte” non è “origine”, non può, se non equivocato, come accadde all’Heidegger “nazista”, divenire, semplicemente “tradizione”). Questo “a monte” (che potrei anche definire, con Celan e Illich, “a nord del futuro”) è spiazzante rispetto alle categorie temporali cui è avvezzo lo storicismo, perché le fa esplodere: è un “a monte” ma non è “origine”, è sì “futuro”, ma un futuro cui non si giunge con mappe e percorsi lineari (“a nord del futuro”). E non è l’essere a «bucare» la storia, ma l’uomo che riesce a riorientare il suo sguardo e il suo ascolto (sull’essere). 

4. Poesia. Giancristiano scrive che «questo pensiero del nuovo inizio – che a Nicola piace chiamare pensiero poetante - svolge la stessa funzione che un tempo svolgeva l’emancipazione del progresso o della rivoluzione». No! Il pensiero poetante è intimamente “rivoluzionario”. Marco Guzzi oggi è uno dei pochi pensatori (poeti!) a non temere di usare la parola rivoluzione. La poesia (intesa non come tecnica o genere) non è il lusso di anime belle ma quello sguardo e quell’ascolto di cui necessita una rivoluzione integrale. Il poeta è colui che si libera dello sguardo rapace, dal dominio e prepara la possibilità di un’altra vita, di una “reliance”, come la chiama Morin, tra uomo e mondo e uomo e uomo. Paradossalmente, dunque, non posso che condividere la chiusa della riflessione di Giancristiano: ciò che accade non è in nostro potere (questa era l’illusione “umanistica”, poi fattasi prometeica e ora, per certi versi, post-umana: la tecnica sembra guidare la storia) perché siamo – inconsapevolmente – parte di un “antropocosmo” complesso; ma nello stesso tempo siamo chiamati a fare quanto in nostro potere – lavorando su di noi e sulle comunità in cui viviamo, nelle teorie e nelle buone pratiche – perché il degrado della nostra dimora terrestre e delle relazioni interumane sia corretto, senza illusioni palingenetiche. Il “millennio” sia solo la perfezione che ci permetta di misurare la miseria del nostro tempo, chiedendo ogni giorno a noi stessi «a che punto è la notte».

giovedì 1 novembre 2012

"In quieta ricerca" VIII

La parte più interessante del libro In quieta ricerca di Nicola Sguera è quella non scritta. Non è una battuta, tantomeno un paradosso, ma un complimento. I migliori libri di filosofia hanno una parte scritta e una orale. Il libro di Nicola appartiene a questa categoria per un motivo tanto semplice quanto vero: perché in lui il pensiero trae i succhi dalla vita per ritornare alla vita. La filosofia – anche se Nicola non crede all’esistenza della disciplina, e fa bene - è intesa come vita filosofica o vita etica, e la morale, sull’esempio di Bonhoeffer, non è formalismo ma vita concreta (ma questo, ossia che Gesù e Paolo non erano né filosofi né dottrinari ma creatori di ethos, me lo dice anche un mio vecchio amico che scriveva di queste cose e le praticava sotto le bombe americane, tedesche e durante la dittatura mussoliniana). Solo che in Nicola la vita morale è vissuta nell’attesa di una svolta che, quando verrà, fonderà un nuovo mondo in cui la tecnica che ci signoreggia si inabisserà definitivamente permettendo così che l’essere esca dall’oblio dell’oblio e così sia. È questa speranza, che mi fa venire in mente la canzone di Tenco («Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà…»), che rende la ricerca di Nicola inquieta e quindi saporita ma allo stesso tempo rischia di trasformarla in dottrina o, peggio, in quell’ideologia da cui rifugge come da un peccato di gioventù.

Nel testo vi sono tanti nomi, ma tutto – sia ciò che è scritto sia ciò che non è detto - ruota intorno al pensiero di Heidegger che è presente troppo e troppo poco. Il troppo dipende dalla lettura che si fa della storia della filosofia e addirittura della storia dell’Occidente: tutta la storia della filosofia, a partire da Platone per giungere a Nietzsche e alla Tecnica passando per Cartesio e Kant e il loro soggetto, è letta come un destino dell’oblio dell’essere. In altre parole, il pensiero di Heidegger è innalzato a chiave di lettura di tutta la storia della filosofia, proprio come gli hegeliani facevano con la filosofia di Hegel. Ma questa interpretazione destinale di tutta la filosofia è un’esagerazione di Heidegger che neanche Gadamer prendeva sul serio e, anzi, metteva in guardia dal seguirla. Per un motivo anche abbastanza semplice: perché la storia del pensiero è molto più ricca di ogni sua riduttiva interpretazione. L’idea di vedere nella storia della filosofia solo la soluzione di un unico grande problema impoverisce la nostra stessa interpretazione storiografica perché ci priva dei concetti direttivi che sono la fonte stessa della storiografia. Il troppo poco dipende invece dal fatto che Nicola non assume fino in fondo il cambiamento del concetto di verità che anche in Heidegger, come nella tradizione dell’idealismo tedesco e dello storicismo italiano, è presente: la verità non è più un rispecchiamento ma una creazione, è storia o, per usare l’enfasi heideggeriana, evento. Se lo facesse gli verrebbe meno l’elemento – l’essere - che può “bucare” la storia e così, quando sarà, cambiarla con una fine che è un nuovo inizio o un tramonto che è una nuova alba. Questo pensiero del nuovo inizio – che a Nicola piace chiamare pensiero poetante - svolge la stessa funzione che un tempo svolgeva l’emancipazione del progresso o della rivoluzione. Solo che nel tempo della gioventù la rivoluzione era politica, mentre ora nel tempo della maturità la rivoluzione è poetica. Se un tempo c’era il progresso, oggi c’è l’utopia: se l’ideologia progressista si è rivelata fasulla e sbagliata perché, in fondo, apparteneva alla stessa famiglia prometeica della tecnica che riduce l’essere a oggetto o semplice-presenza, il principio utopico della speranza lascia essere ciò che non è ancora. Se Nicola storicizzasse fino in fondo il concetto di verità incontrerebbe la libertà come elemento che “buca” in modo sui generis la storia, ma non lo fa perché con la libertà incontra anche i tabù: il capitalismo, il mercato, il moderno, la razionalità, la scienza come tragica storia umana e non più destino o erranza. Il passaggio dall’idea di progresso a quella di utopia è un passo in avanti ma, come nel giro di una prigione, ci si muove sempre nel meccanismo ideologico, tanto che il capovolgimento del mondo tecnico nel mondo poetico equivale a uscire dal dominio proprio per dominare ciò che non si lascia signoreggiare. Come se ne esce? Non prendendo troppo sul serio Heidegger, altrimenti, come diceva proprio Josè Mourinho reinterpretato benissimo da Nicola, si corre il rischio che chi capisce solo Heidegger non capisca niente di Heidegger che ci offre proprio una di quelle teleologie da cui Nicola rifugge. Se ne esce coniugando insieme possesso e abbandono, senza ritenere che dove ci sia l’uno non ci sia l’altro. Possesso e abbandono co-esistono sempre e non sono utopici. Sono le due regole calcistiche senza le quali non c’è condizione umana. Ma ne riparliamo un’altra volta. 

Giancristiano Desiderio

L’articolo è apparso su Sanniopress
Giancristiano Desiderio è scrittore e giornalista, studioso, tra l’altro, dell’opera crociana e autore di fortunati libri sul rapporto fra calcio e filosofia.

mercoledì 31 ottobre 2012

"In quieta ricerca" VII

Bobby Falvella, socialista ed ecologista senex/puer, sempre vitalissimo e stimolante, ha letto il mio libro, ne ha scritto, come sempre in maniera essenziale. Lo ringrazio. Ha aggiunto, poi, su Facebook, una domanda: «La morte è cosa stupida e crudele: stupida perché distrugge preziose memorie e patrimoni di cultura faticosamente accumulati (miliardi di gigabyte), crudele perché spezza legami ed affetti, produce dolore e sofferenza. L’entità (che... avrebbe progettato ed organizzato questo incredibile disastro ecologico) può essere definita benigna ed intelligente? Non rispondere che il disegno divino non è conoscibile perché, invece, è chiarissimo e risulta (valutato con lo strumento della logica) stupido e crudele. Non rispondere che la logica non è tutto, perché, invece, è l’unico strumento di pensiero razionale che proprio il disegno divino ci... avrebbe assegnato».
Sostanzialmente le critiche che mi muove sono due:
1) coltivare il sogno di una prossima palingenesi sociale;
2) militare in formazioni politiche irrilevanti.
Quindi, una critica alla teoria e una alla prassi.
Alla prima critica rispondo che il mio pensiero si è nutrito negli anni di quella “corrente calda” (Bloch) della tradizione socialista/comunista, che prende avvio, nella mia lettura, dalle lotte contadine della Germania riformata. Nella “lunga durata”, il comunismo non è “scienza” (come pretese Marx) ma aspirazione morale alla giustizia, con un profondo radicamento “religioso”. Quella che Falvella definisce «palingenesi sociale» è la stella polare che deve guidare il nostro agire. Non una necessità “provvidenziale” o “immanente” della storia. Ma, per citare il mio maestro Fortini, la «Gerusalemme celeste» che ci permetta di cogliere l’imperfezione e l’ingiustizia radicale di questa civiltà terminale (ma che potrebbe anche non finire mai di finire…). L’attesa del “Regno di Dio” (che mai si realizzerà sulla terra), annunziato da Gesù in Palestina, è il prototipo di un annunzio che sprona all’azione: «Spianate le montagne, il Signore arriva».
Al secondo rilievo rispondo dicendo che, se ci troviamo di fronte ad un tempo “terminale”, come dice Marco Guzzi “apocalittico”, le strategie riformatrici non incidono, non intaccano minimamente le strutture malate e corrotte a livello sociale ed economico delle nostre civiltà. Però vorrei anche ricordare a Bobby che l’epigrafe scelta per il libro, dopo molti tentennamenti, dice di fare il possibile e sognare l’impossibile… Anche nel piccolo della mia realtà cittadina, non mi sono mai tirato indietro nel “fare”. Anche qui, però, reclamando, prima di tutto con me stesso, una radicalità che aspirasse a cambiamenti reali.
Infine, sulla questione “Dio”… Una tradizione aurea di pensiero, che parte da Plotino, mi ha insegnato che l’unico atteggiamento legittimo nei confronti di ciò che chiamiamo per convenzione “Dio” è la docta ignorantia. Non reclamo neanche il “sentimento” o la “fede” come organi di conoscenza del divino. Mi appello, invece, all’esistenza, contro ogni logica, del bene nel mondo. Perché, chiedo a Bobby, agisci moralmente? Perché ti preoccupi di piante, animali e uomini? Perché la sofferenza ti indigna? Io credo che il bene in te sia il segno visibile, questo sì, direi tangibile, che il Bene è, in un modo misterioso e combattuto, nel mondo. Questo è il mio Dio, che insieme a noi, attraverso di noi, diviene. Non credo nel Dio delle religioni rivelate, nel Dio onnipotente. Credo in un Dio impotente, crocifisso ogni giorno nelle sofferenze e nella morte. Per questo sento vicini nella fede persone come la Hillesum: «Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri».


P.S. 

Definisci i miei genitori, che hai conosciuto bene «ultrareazionari». Per amor di verità, vanno dette due cose. La prima è che erano democristiani convinti, in un tempo in cui, come ben sai, la DC era tutto e il contrario di tutto. La tua espressione si potrebbe equivocare e amplificare il senso del mio “tradimento” familiare e di classe… Ma, soprattutto, mi sta a cuore ribadire, come implicitamente nella dedica a mia madre del libro, che lei è stata la radice non solo del mio essere ma anche del mio pensiero e del mio agire. Da lei ho imparato il rispetto quasi religioso per gli umili, da cui naturalmente è scaturito quello che tu definisci “cristianocomunismo”. Senza mia madre e, aggiungo, senza mia nonna, non avrei mai, probabilmente, capito cosa sia la compassione.

lunedì 29 ottobre 2012

"In quieta ricerca" VI

In libreria In quieta ricerca di Nicola Sguera (Percorsi Editore, prefazione di Marco Guzzi). La ricerca non è affatto “quieta”, il linguaggio a volte è criptico, ma efficace.
A Benevento (enclave vaticana nel Regno di Napoli, secondo Pasquale Falvella nel 1825, nel 1974 al Referendum di Fanfani votò contro il divorzio … al 75 %!) si è verificato un miracolo di antropologia culturale: un filosofo comunista (nato da cattolicissimi genitori, ultrareazionari) predica la... decrescita economica, il culto dell’ambiente e la... ecosostenibilità (Gandhi e Latouche). 
E non basta: il professore Sguera (esule in patria, come Dante Alighieri) pretende addirittura di inculcare... rigore e coerenza morale in studenti e concittadini. Impresa pressoché disperata nella cattolicissima Italia. 
Politicamente Nicola Sguera è impegnato nella estrema sinistra: da buon cristianocomunista, quale si professa, coltiva il sogno di una prossima, improbabile palingenesi sociale e contesta le demoplutocratiche democrazie occidentali. 
Classico esempio di filosofo meridionale che salva la propria coscienza di intellettuale militando in minuscole, inconcludenti nicchie politiche... laddove il suo stimolante contributo/testimonianza sarebbe di preziosissimo aiuto dentro un grande partito di massa (Gramsci).


Bobby Falvella



Bobby Falvella (Napoli, 1933), architetto e ambientalista, da anni scrive sul suo blog, eco-news, di territorio e ambiente.

sabato 27 ottobre 2012

"In quieta ricerca" V

La scelta delle persone che avrebbero discusso di In quieta ricerca alla sua prima presentazione ovviamente non è stata casuale, ma naturale conclusione (provvisoria) di un dialogo che continua con tre persone molto diverse da loro e anche da me, i cui interventi ho voluto pubblicare in Di soglia in soglia, per continuare il nostro fecondo dialogo. È per questo che vorrei puntualizzare alcune cose, essendomi limitato in quella sede a ringraziare tutti i presenti, volendo riflettere a freddo sulle loro sollecitazioni. Con Luca Rando abbiamo condiviso tanto, tantissimo, anche a livello intellettuale, sebbene ad un certo punto, direi in coincidenza con il mio ritorno (problematico e inquieto) alla fede. Dal suo intervento traspare la conoscenza minuta dei vari passaggi che hanno scandito il mio percorso. Ha fatto una lettura lucida del libro ed preziosissima per chi volesse capirne le strutture portanti. Luca sa che la riflessione sulla scuola è quasi assente perché l’auspicio è quello di tornarci in maniera approfondita in futuro. 

Amerigo Ciervo ha voluto, invece, con una composizione “musicale” che ben si addice alle sue competenze, omaggiarmi in maniera ellittica. Ha focalizzato, infatti, quello che io ritengo uno dei nuclei ispiratori di ciò che vado scrivendo: cristianamente vorrei chiamarla “speranza”, laicamente “utopia” (con i distinguo, presenti nel libro, operati da Jonas). Per questo ha evocato un filosofo a me molto caro, Ernst Bloch, citando il quale aprii il primo incontro con Marco Guzzi alla Sala del Reduce il 3 aprile del 1993. Era esattamente la stessa frase, accostandola ad una frase di Ernesto Buonaiuti, che evocava «il vomere della speranza», smarrito dal pensiero cristiano. Mi accomuna ad Amerigo la volontà di rimanere fedele al messaggio cristiano, alla virtù della speranza, ma coniugandola all’utopia concreta, che si sforza non di raddrizzare «il legno storto dell’umanità», di portare il paradiso in terra, bensì di migliorare quel lembo di mondo e di umanità che ci viene assegnato, senza mai rassegnarsi alla ineluttabilità del male, «con la testa fra le nuvole e i piedi ben piantati per terra». 
Sapevo già che dei tre l’intervento più “critico” sarebbe stato quello di Gaetano Cantone. Non ha deluso le mie attese. Ci sono parti dell’intervento di Gaetano che condivido integralmente, e che sono state oggetto di discussione in questi anni di attività comuni, soprattutto all’interno de “i Giannoniani”. In particolare, il rifiuto del mito del progresso e della ricostruzione dell’arte e della cultura in base a tale criterio fallace, o la sua notazione sulla vocazione alla “stupefazione”. 
Sono tre le questioni, mi pare, problematiche che Gaetano mi pone: 
1) i maestri che cito non sarebbero affatto “eretici”; 
2) c’è un eccesso di “sentimento” e di “soggettività” nelle cose che scrivo; 
3) c’è una “sintesi” pacificante finale. 
Sono rilievi, come sempre, di grande intelligenza. Provo a rispondere. 
L’eresia dei miei maestri è molto diversificata: i “religiosi” evocati sono tutti eterodossi rispetto alla propria tradizione. Bonhoeffer nelle lettere dal carcere si spinge a parlare di un mondo totalmente secolarizzato, in cui anche il cristiano deve vivere «etsi Deus non daretur». La Weil contamina grecità e cristianesimo, affascinata dal catarismo e dalla gnosi, elaborando, nella lettera a padre Perrin, un’idea estremamente sincretica della fede. La Hillesum è una “teodidatta” fuori da qualunque schema religioso tradizionale. Pomilio riprende la dottrina (eretica) del quinto vangelo. Illich, sospeso dalle sue funzioni sacerdotali, teorizza la società moderna come corruzione dell’originale messaggio gesuano. Non riesco ad immaginare eresie più esplosive di queste. Hammarskjöld, tra i “religiosi”, è l’unico che sembra essere ortodosso, rispetto alla sua fede riformata. La sua “eresia” mi è apparsa però nella volontà, tutta antimoderna, di tenere insieme la pratica politica, ai massimi livelli, e la fede vissuta «in segreto», una fede tormentata e piena di dubbi. 
Dei “filosofi” direi che l’eresia di Heidegger è quella di avere, lui filosofo, auspicato la fine della filosofia e l’avvento di un pensiero postmetafisico. Mi pare che questa “eresia” sia stata normalizzata in primis da molti suoi discepoli o sedicenti prosecutori. E infatti la filosofia sopravvive floridamente come disciplina accademica, spesso esercitata sugli stessi testi del maestro che ne reclamava il superamento. Anders è autore eretico per una pluralità di ragioni: l’aver continuamente transitato tra impegno teorico e impegno civile, la pluralità degli stili scelti. Autore antiaccademico per eccellenza, pochissimo amato dalla cultura italiana (fatto salvo il meritorio lavoro di «Linea d’ombra»), totalmente assente dai manuali, malgrado la grandezza del suo capolavoro. Kuhn, per quanto sicuramente la sua opera sia stata oramai metabolizzata, mi appare ancora dotato di forza dirompente rispetto alle pretese di una tecnoscienza immemore della propria storia e fiduciosa in uno sviluppo lineare della conoscenza come della civiltà. Di Morin, insieme a Gaetano, ammiro la forza, tutt’ora eretica a mio avviso, di rompere gli argini disciplinari, di reclamare un sapere non totalizzante (di stampo dialettico) ma complesso. Latouche e Revelli sono autori che hanno messo in crisi molti dogmi della cultura di “sinistra”, oggetto di scandalo per molti studiosi (in particolare economisti) che considerano le loro posizioni addirittura reazionarie. Tarkovskij e Steiner, infine, sono eretici rispetto ai generi da loro praticati, reclamando con le loro opere l’assoluto, parola pronunziata con pudore o disprezzo dall’arte e dalla cultura contemporanea. 
Il secondo rilievo di Gaetano è assolutamente corretto. Nella mia scrittura c’è una forte carica “sentimentale” e soggettiva. Lo considero un retaggio di quelle “pratiche della differenza”, che il pensiero femminile ha contributo a diffondere, e che mi ha permesso di sanare, almeno dal mio punto di vista, la lacerante contraddizione fra “passione e ideologia”. Qui credo che abbia un peso non indifferente la differenza generazionale, la cesura culturale che si potrebbe collocare nella seconda metà degli anni Ottanta. 
Sul terzo rilievo, invece, dissento. Non solo perché, evidentemente, la mia ricerca è davvero “inquieta”, senza fine, ma perché, seppur faticosamente e superando una naturale tendenza irenica, ho maturato una visione che altrove ho definito “eraclitea” del reale. E mi pare sia sfuggito a Gaetano il peso che hanno le epigrafi di tutte le sezioni, versi di quel René Char che, unico tra i grandi poeti del Novecento, cerca di cantare questa dimensione dialettica della realtà, ma senza sintesi finale. La sintesi, sia delle nostre biografie individuali sia dei grandi processi storici, sarà sempre fatta “altrove”. La mia passione per il Novecento e la sua cultura nasce anche dall’accettazione del “frammento” come necessità di un tempo che non può più aspirare a sintesi. Ci sono parole di Bonhoeffer, che cito nel libro, assolutamente illuminanti. 
È sempre un grande onore sapere che qualcuno ha letto con attenzione quanto abbiamo scritto. Quando per queste persone si prova stima incondizionata l’onore raddoppia. E per questo, ancora una volta, li ringrazio.

giovedì 25 ottobre 2012

"In quieta ricerca"* IV

Il libro di Nicola Sguera si sviluppa in quattro sezioni, solo apparentemente distinte e parzialmente interagenti: i maestri eretici (davvero? perché?), la storia (le storie, la politica, la tecnica, la bioetica,...), il sacro (le conversioni) e la poesia (ovvero del linguaggio).
A.1. Nel libro tutto si tiene per via di “conciliazione”. Autori diversi per cultura e scelte, pagine che parlano di libri e che hanno segnato il percorso di ricerca di Sguera si “incontrano” nel terreno della definizione di eresia rispetto alle culture dominanti coeve o dinanzi agli schemi sovrapponibili del pensiero accademico dominante; alcuni di questi autori son stati, per così dire, “ininfluenti” durante la loro vita o conosciuti ed apprezzati da un ristretto nucleo di amici ed estimatori: noi li abbiamo letti ed apprezzati dopo lo svolgimento drammatico ed intenso delle loro vite sebbene appartenessero pienamente tutti all’evolversi del ’900. Altri tra gli autori “indagati” (Heidegger, Morin,...) hanno avuto ed hanno un’influenza dibattuta e problematica, lungi dal sedare tensioni o vere e proprie tenzoni (il nazismo nell’uomo Heidegger, ad esempio). 
Da tutti gli autori “raccontati” Sguera cerca conferme per un approccio personale (ai limiti dell’individualistico) alla tenuta di un pensiero plurale (aperto, colloquiante, dedito al cambiamento,...) annettendo, relazionando o componendo un filo rosso che sia in grado di dare voce agli utopisti, ai profetanti, ai dolenti o ai dubbiosi: sembra di trovarvi un sotterraneo (ma inconfessato) modus di placare in “sistema” le diversità, pacificandone le identità.
A.2. Su altro fronte, anche senza voler insistervi troppo, è posta la questione irrisolta della formazione culturale (ed esistenziale, nel complesso) di ciascun individuo: dalle accademie (di tutti i tempi e di tutte le modalità) si deve andar via; insomma lasciare i solchi ereditati o consolatori e avventurarsi nel grande mare delle realtà diverse avendo come principale obiettivo il “radicare il sapere nelle nostre vite”.
A.3. Ritengo che per far questo bisognerà tornare nelle contraddizioni che il Novecento ha lasciato irrisolte, anzi cambiare anche punto di vista soprattutto dinanzi a quanto abbiamo dato per scontato e “veritiero” in modo assoluto; lasciare le apoditticità ideologiche che hanno condizionato popoli ed individui per una ricerca (inquieta, molto inquieta) degli elementi emancipanti e liberatori per ciascun individuo. Il Novecento con le sue avanguardie è stato ipostatizzato fin troppo spesso come portatore di progresso (la guerra invocata dai futuristi come “igiene del mondo”) lasciando un marchio di orrore sulla carne dei popoli (il secolo veloce ed anche della shoah
A.3b. Credo sia necessario abbattere quella sorta di “evoluzionismo darwiniano” su cui, ad esempio, si reggono al fondo le varie storie sulla creatività del XIX e XX sec.: eccessiva la dose di interdipendenza conflittuale, spacciata per dialettica, tra l’uno e l’altro dei movimenti artistici, ciascuno dei quali derivante per ostativa filiazione (con l’ovvia freudiana uccisione dell’avo) dal precedente. Il linearismo millenaristico si è nascosto spesso sotto il paludamento di “nuovo”. Ciò premesso il secolo scorso ha inseguito l’idea di bellezza, ma ne ha presto abbandonato la fattualità, negatole quindi una destinazione ed un ruolo nella formazione del pensiero, con tutte le gravi conseguenze verificatesi tristemente proprio nella fase della cosiddetta “civiltà dell’immagine” (responsabili i filosofi che discettano di etica ed estetica come discipline difformi, soprattutto se si privilegia l’autonomizzazione dell’estetico che vedo pericolosa pur non essendo un lukacsiano).
A.3c. Stinta come dopo il diluvio, relegata in perenni soste ancillari nelle cucine del tardocapitalismo e resa materia inerte da un pensiero che pur abusando delle parole non le conosce davvero nella loro densità identitaria, la bellezza è negata di fatto dalla “tecnica” - e dai miti che la fondano in un ruolo di super partes - nel rapporto con la mutazione della realtà e, soprattutto, dell’idea di realtà (ancora responsabili i filosofi troppo occupati dal “proprio” ricettario). La “tecnica” ha costruito (politicamente), realizzato (economicamente) ed assolto (ideologicamente) perfino i genocidi in virtù del rapporto costi-benefici: l’essere è denotato per la propria tipologia economica, non essendo la tecnica estranea al potere o oggettivamente solitaria nel lungo percorso di conquista perenne della realtà nota od ignota. 
A.4. Infine, il linguaggio è una dirimente questione nel rapporto tra gli individui. I contesti mutano e i linguaggi sembrano rincorrere gli accomodamenti (in filosofia, come in arte o nella comunicazione): a perseguire linguaggi di incantamento o di affabulazione sembrano destinati solo i santi, gli artisti ed i poeti, al resto dell’umanità “restebbero” i linguaggi della connessione. Eppure tra la fine del secolo scorso e nel primo decennio di questo secolo abbiamo sperimentato la commistione, l’interpolazione, la coesistenza ed anche la dispersione dei linguaggi (annettendo le “due culture” d’un tempo in ampi laboratori) (in una formula direi che la commistione costituirà la ragione identitaria della connessione, altrimenti che mi connetto a fare se non rapporto a me la diversità dell’altro, con tutto quel che segue?). 
A.5. Il sacro in Nicola Sguera è costante interrogazione in filiazione culturale, “sentimentale” (per via di passione) ed aperto alla speranza: lungo l’albero del sacro s’inerpica il progetto esistenziale, le ragioni morali che sorreggono l’operato di un uomo e le sue scelte (il caso di Bonhoeffer). (Il sacro insegue Nicola, lo scova spesso nella terribile vita, lo costringe ad una lotta, rimette in circolo eredità e scelte dell’età pensante, ponendo in difficoltà qualsiasi soglia critica dinanzi al senso stesso della vita). 
In questo ambito tutto si tiene e tutto torna al medesimo desco: l’io declinato non in solitudine (anche se in Nicola tende a debordare, invadendo le ragioni del fare, sovrapponendosi alla percezione condivisibile della mutevolezza come decantato “chimico-poetico” dell’io), gli altri accolti in reciprocità e gli scenari delineati con rigore (l’imperium che ha radicamenti lontani). (Qui, nel sacro vi sono distanze che io e Nicola tentiamo di colmare in molte occasioni, evidentemente senza riuscirvi ancora, ma nutriamo “speranza”)
A.6. Tutto l’impegno della conoscenza va ascritto al senso della stupefazione: essa annette e rivolta, sconquassa e mette in circolo relazioni di senso, spesso mescola le sensazioni alle certezze; in altre parole rimette in discussione l’accertato (burocratico) delle nostre esistenze, condannandoci al dubbio (che non è ritenuta una qualità morale nei nostri tempi). (Ancora: forse saremo sgombri da assiomi e portatori di arsure non sopite se la stupefazione prende il ruolo che le compete nelle nostre vite). Per via di stupefazione si giunge all’appropriazione: l’interiorità diviene così il solo terreno di “cultura” per la qualità umana (questione che non comporta infantili deviazioni dell’io protagonista; siamo creature” dinanzi al mondo, siamo nel e del mondo ma non “il” mondo; l’eccesso del sé rimanda alla patologia della supremazia).
Ogni essere umano si impegna quando “sente” e “parla” del sé (quando giunge al pensiero poetante): mette in discussione molto e molto altrettanto insegue nel dare senso alle proprie scelte da cui discende quello struggimento (sehnsucht) per l’incompiutezza e la “nostalgia” dell’incorrotto (dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij prediligo l’episodio in cui Boriska, il giovane figlio d’un costruttore di campane senza “eredità” sapienziali, gioca la propria partita esistenziale con la coraggiosa sfrontatezza del poiein).

Gaetano Cantone

Rielaborazione dell'intervento tenuto il 13 ottobre al Teatro De Simone. L'immagine è una tempera su carta di Cantone dal titolo "Angeli metafisici n. 97"