giovedì 18 dicembre 2008

sinistro crepuscolo

Per un pugno di euro... A "Liberazione", in RC, a Napoli per gli appalti, in Calabria e a Firenze. Dopo la durissima sconfitta elettorale, la scomparsa della sinistra "radicale" (!) dal Parlamento italiano, assistiamo tra l'attonito e il soddisfatto al crepuscolo inglorioso di una classe dirigente (!!) che sarà ricordata a lungo per la sua rissosità, la sua insipienza, la sua mancanza di lungimiranza, e, peggio di tutto, per la sua quasi assoluta mancanza di etica. Ed è, dunque, giusto che, nel tempo del crepuscolo, l'idolo che simboleggi questa disfatta gioiosa e sorridente sia Vladimir Luxuria.

lunedì 24 novembre 2008

l'angelo necessario



Il mio amico don Giancarlo, in occasione del ritrovamento dei due angeli sottratti anni fa alla sua chiesa, mi ha chiesto una riflessione sull’angelo nella poesia. Ne è scaturita, come sempre mi accade, un ibrido, in cui ho manifestato il mio disagio rispetto ad una chiesa sempre più sorda al dialogo (in diverse direzioni), la mia concezione della poesia (appresa da Marco Guzzi) come linguaggio privilegiato dello spirito, nel secolo in cui il logos intorno a Dio si è come sclerotizzato, la necessità di meditare l’invisibile, nel tempo idolatrico che ci troviamo a vivere, dove trionfa l’immagine, dove solo il visibile è, l’urgenza di ridare centralità all’ascolto piuttosto che alla vista (l’angelo come annuncio, l’apertura del nostro “Io mariano” all’ascolto della parola). 
Ho letto, poi, la IX elegia di Rilke, in cui viene affermata la superiorità dell’uomo, custode dell’effimero attraverso la parola, che realizza la metamorfosi del visibile nell’invisibile. 
Ho letto una frammento del Corano, bellissimo, in cui Dio afferma la superiorità dell’uomo, che conosce tutti i nomi di Dio e delle cose, sugli angeli. 
Ho evocato Il cielo sopra Berlino, il sapore del sangue, il calore del primo caffè, l’angelo che volle farsi uomo per sperimentare fino in fondo l’amore e la sua fragilità, il suo precario equilibrio sul mondo, senz’ali. 
Ho chiuso con la folgorante affermazione, invito ad essere fedeli alla terra, di Dietrich Bonhoeffer, secondo il quale solo chi vive con tutte e due i piedi sulla terra vivrà con tutti e due nel regno dei cieli.

mercoledì 19 novembre 2008

I want to ride my bicycle


100° posto nella classifica di Legambiente, polveri sottili a livelli elevati, disastro totale del blocco del traffico domenicale sia per mancanza di controlli sia per mancanza di senso civico. Che fare? [...].
Lo scorso anno ho acquistato una bicicletta “a pedalata assistita”, dotata cioè di una batteria che aiuta ad affrontare le salite. Poiché l’obiezione che spesso si fa all’uso della bici a Benevento è che, essendo “una discesa e una salita” (cito un caro amico poeta), la città sarebbe poco adatta a questo tipo di mezzo, questa tecnologia “evoluta” (come la definirebbe Ivan Illich, teorico della società conviviale e autore di Elogio della bicicletta, di recente ristampato da Bollati-Boringhieri) risulta perfetta per chiunque – dai quindici ai sessant’anni – vuole tenere insieme attività fisica, decongestionamento del traffico (e delle strade in genere), riduzione dei gas inquinanti e delle polveri sottili. La bici a pedalata assistita non necessita di targa né di casco, non ha costi particolari di manutenzione. Io la uso per andare a scuola, per fare la spesa al mercato e tutti gli altri servizi in città . È scontato dire che con essa non ci sono problemi di parcheggio. Uso la macchina (mista: benzina/gas) solo se devo spostarmi per molti chilometri al di fuori della città. La scelta della bici (e della macchina a gas), oltre ad avere una ricaduta positiva per la salute e per l’ambiente, ha appesantito le mie tasche di “proletario intellettuale”. Arricchisco un po’ meno i Moratti e i Gheddafi, investo un po’ in più in cibi biologici e prodotti vegan, compro qualche libro in più… A Benevento ci sono almeno tre, quattro rivenditori che hanno modelli diversi: da quelli economici sui 500 euro (che sconsiglio perché hanno spesso problemi nelle parti elettriche) a quelli medio-alti (dagli 800 euro in su). Il Comune potrebbe tentare, in via sperimentale, l’acquisto di un blocco di bici a pedalata assistita e lanciare una sorta di “community bicycle program” [...] o bicycle-sharing, che comunque dovrebbe essere un servizio a pagamento. Faccio presente che, nell’ultimo anno, diversi professionisti (avvocati, commercialisti ecc.) hanno acquistato una bici “ecologica” e la usano per il proprio lavoro. Il punto di fondo, infatti, è quello di trovare soluzioni per la quotidianità, non per lo svago. È paradossale prendere la macchina per andare in bici su una pista ciclabile! Una delle tante cose strane che i nostri posteri, speriamo più saggi, non sapranno spiegarsi. La bici deve essere reintegrata nella vita quotidiana. Senza fondamentalismi, garantendo cioè alle persone anziane o ai disabili ottimi servizi pubblici o l’uso della macchina (e non occupando in maniera incivile i posti loro riservati, pessima pratica beneventana). Bisogna andare verso l’integrazione, la complessità. Non esistono, infatti, soluzioni uniche a problemi complessi. Ma ciascuno potrebbe partire da se stesso. Ovviamente, se qualcuno vuole provare per credere, può chiamarmi o contattarmi via mail e fare un giro sulla mia bici: 


«Puoi dire che sono un sognatore 

ma non sono il solo. 
Spero che ti unirai anche tu un giorno».

(apparso su «Messaggio d'oggi»)

sabato 1 novembre 2008

requiem



Pensiamo che la nostra vita sia popolata da tante persone. In realtà sono poche le vite altrui veramente importanti per noi, e precisamente sono quelle che, non sempre ma per sempre, ricordiamo nelle nostre preghiere serali, anche a distanza di molto tempo da quando esse sono oramai pulvis et umbra.

Pace a mia nonna Rosa,
che mordeva negli ultimi tempi
la mano amorosa che pure la nutriva.
Pace a mio nonno Nicola,
che non serbava per questo rancore,
e che volle morire nel tempo giusto.
Pace a mia nonna Anna, che visse per i figli
fino al disprezzo di sé.
Pace ad Angelina, che seppe servire
senza essere servile.
Pace a Gabriella, che ebbe in dono
l’amore vero e un male mortale.
Pace a Maria Pia, che della vita volata via
non seppe le poche gioie e le molte amarezze.
Pace a Emanuele, mite ma fiero
in un mondo corrotto e violento.
Pace a Stefania, che nelle ultime ore sognava il suo abito bianco.
Pace a mio padre e mia madre,
che si amarono per un giorno
e per una vita intera si fecero male.
Pace a mio padre, che volle sfidare il mondo
intero e ne fu sfigurato.
Pace a mia madre, che sapeva sorridere quando tutto crollava dentro e fuori di lei.
Pace, pace, pace,
Signore, dona alle anime che evoco
nelle pigre preghiere serali, ed oggi
in un’alba sciabordante,
immemore d’ogni errore,
d’ogni errare umano, trascritto nel libro della vita
solo il bene che diedero,
l’amore che furono.

14 agosto 2008

giovedì 30 ottobre 2008

onda su onda


Sono in piazza con i ragazzi in questi giorni, o nelle scuole, quando mi chiamano. E' un movimento nuovo. Li conosco questi ragazzi, sono miei alunni: non hanno neanche l'abc della politica. Ma da qui, dalla difesa della scuola pubblica, può nascere un'onda lunga. Può essere, in Italia, l'avvio di una nuova stagione, che abbia reciso le radici novecentesche di violenza e ideologia spesso accecante. Questa è la mia speranza.

giovedì 16 ottobre 2008

tum denique...



(sine charitate…)
Come quell’altro schiantatosi ubriaco
e sfibrato – lui che blaterava di purezza,
ordine, legge. Di razza.
Anche tu te ne andrai: sarà una notte
vicina. I servi ti troveranno sul letto mentre osavi l’ultimo assalto
al castello poco guarnito di future ministre
o senatrici del regno. Strapperanno
capelli, stracceranno vesti
tremuli sul corpo esanime …

«Incitatus... Incitatus...»: le ultime parole.
Dicitur. Già pronto per la teca preziosa di ori,
in una piazza blu sfiderai
per qualche anno l’eterno.

Parce sepulto.
Frotte di cellulari ilari sfileranno
avidamente inquadrando rialzi e riporti.

Pax nobis.
Brinderemo al tuo ultimo indulto.

mercoledì 24 settembre 2008

autobiografia





Nicola Sguera nasce a casa sua il 20 giugno 1967.
Vive un'infanzia senza ombre, se non quelle che la sua fantasia bizzarra trasforma, di notte, in orchi e vampiri.
Nel 1984 nasce a nuova vita: smette di mangiare carni per empatica compassione, rompe il patto con il Dio della sua tradizione familiare e conosce la sua futura moglie. Meglio sarebbe non essere mai nati, ripete spesso.
Il 24 gennaio del 1990 sua madre decide di impartirgli l'ultimo memorabile insegnamento: «nella mia fine è il tuo inizio».
Nel mercoledì delle ceneri del 1998 si inginocchia nuovamente, e prega un Dio sconosciuto: per la prima volta comprende il senso della parola "amen".
Quando la sera osserva sua figlia, raccolta in un sonno finalmente sereno, e pensa a sua madre, ai suoi alunni, al vino, alla poesia di Char, alle canzoni di Nick Cave e all'Inter, benedice e «sì, in fondo, altissimo, non onnipotente buon Signore, grazie».
(Scritta all'interno di un seminario con Domenico Notari - che ringrazio-, tenutosi il 23 settembre al Liceo Classico "P. Giannone")

domenica 14 settembre 2008

Gomorra è il mondo...


Contravvenendo ad una regola che ho seguito negli ultimi anni, ho letto un libro di grande successo quasi in tempo reale, senza aspettare il giudizio del tempo. È stata una lettura appassionante.
Tre cose ne vorrei sottolineare.
L’unico auctor che viene evocato da Saviano è Pasolini, la cui tomba diviene meta di pellegrinaggio. Eppure fra Saviano e Pasolini c’è una differenza abissale: il primo ambisce all’epica, il secondo alla tragedia. L’immaginario di Saviano, soprattutto quello filmico, è tutto, a suo modo, epico. Quando Pasolini si è confrontato con il cinema ha scelto, non a caso, la tragedia come riferimento privilegiato. Epica e tragedia rappresentano modi incompatibili di lettura della realtà.
L’altro aspetto che mi ha colpito è la presenza fitta di riferimenti filmici. Ciò mostra chiaramente come la cultura della nostra generazione (i suoi miti) siano tutti o quasi tutti cinematografici, ma anche come il cinema consenta una lettura profonda della realtà, avendo esso permeato l’immaginario collettivo (i boss che assumono pose filmiche, la villa fatta ad imitazione di Scarface).
Il terzo aspetto, il più importante, quello che eleva il libro dalla cronaca giornalistica, facendone un’opera importante di questi anni, è il basso continuo che Saviano mantiene fino all’ultima pagina per cui parlando del “Sistema”, della camorra, in realtà parla anche del capitalismo contemporaneo. La vera ambizione del libro mi sembra quella di suggerire come, in realtà, il camorrista oggi sia un imprenditore di successo, che del capitalismo matura assimila stili e ambizioni. Napoli è il mondo intero in piccolo. La camorra non è solo una delle maggiori imprese italiane, ma è la metafora stessa di un “sistema” che, dimentico di qualunque valore che non sia di tipo economico, è necessariamente criminale, anche se i suoi artefici non hanno più l’aspetto dei briganti sanguinari ma leggono raffinate opere letterarie o collezionano opere d’arte. Il messaggio di Saviano è che i camorristi, in realtà, non fanno altro che rendere puro il meccanismo che opera nella civiltà contemporanea, dove, abolito il passato e il futuro, non resta che un presente da occupare con violenza, in cui, per citare un film a lui sicuramente caro, «la candela deve bruciare da entrambi i lati». È, dunque, vana impresa contrastare il “sistema” operante in Campania senza mettere in discussione il sistema-mondo. 

martedì 15 luglio 2008

dieci libri



I libri hanno trasformato la mia vita. Alcuni in maniera più evidente. Libri lontanissimi tra loro (abito le frontiere: ortodossia è parola che non amo). Quelli di Heidegger mi hanno insegnato che il pensiero può essere decisivo in vista di un altro mondo possibile, un pensiero poetante che curi il mio sguardo egocentrato, per evitare che l’uomo diventi un’appendice delle macchine, come ipotizza Anders ne L’uomo è antiquato, e per andare oltre il Novecento (Revelli), secolo-belva, dominato dai totalitarismi. Ma è dalla Weil che riprendo l’invito a mettersi in ascolto della «parte muta, anonima, sparita della storia»: bisogna iniziare a dire che Alessandro, Cesare e Napoleone erano criminali esattamente come Hitler, se non vogliamo produrre altri Hitler (o Bush). E sempre da lei ho imparato la necessità del radicamento e la possibilità di una spiritualità aperta, mistica, che ho ritrovato anche nelle pagine dolenti e sognanti della Hillesum, che cantava mentre il suo treno viaggiava verso il lager.  Sicuramente il confronto con il cristianesimo è centrale nella mia vita, ma predilige i sentieri poco battuti, ricerca quel Quinto Vangelo, tutto fondato sull’Amore, cui Pomilio ha dedicato un romanzo tanto bello quanto poco conosciuto. O il cristianesimo al servizio dell’altro, cristianesimo adulto di cui scriveva Bonhoeffer nelle sue lettere (poi raccolte in Resistenza e resa) prima di essere impiccato per aver complottato contro Hitler. A questo cristianesimo sublime ha dato parola e immagine il più grande regista del Novecento, Andrei Tarkovskij, il cui Scolpire il tempo è uno scritto intriso di romanticismo e poesia, distillato della grande tradizione spirituale russa, erede di quella interrogazione metafisica che Dostoevskij aveva magistralmente immortalato nel suo opus magnum, I fratelli Karamazov, dove si fronteggiavano nichilismo ateo e slancio verso l’assoluto, che, secondo Steiner, è il fondamento di tutte le grandi opere letterarie. Integrare un pensiero-poetante ecosofico, una spiritualità transreligiosa, un agire politico non-violento: i libri mi aiutano in questa ricerca che non avrà mai fine.

(Apparso su «BMagazine», luglio 2008)

domenica 29 giugno 2008

tradizione, tradimento


Tesi
«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,13-17).
Antitesi
«Il peccato grave si oppone all'azione della grazia eucaristica» (Benedetto XVI).
Sintesi
«Corruptio optimi pessima».

sabato 21 giugno 2008

caimano


«Denuncerò la magistratura che vuole sovvertire la democrazia» (Silvio Berlusconi, 20.06.2008). «Si arriva a girare l'ultima scena, che forse più di tutte le altre fa capire il vero senso della pellicola. Silvio Berlusconi (interpretato dallo stesso Nanni Moretti), entra nell'aula di tribunale per presenziare alla lettura della sentenza del processo, presumibilmente il processo SME. È solo, non è più potente, e nessuno dei suoi alleati gli sta vicino. Viene condannato a 7 anni. Ciò nonostante, egli esce fuori dal palazzo di giustizia, ammonendo i giudici a temere la reazione del popolo che non avrebbe permesso la condanna persecutoria di un suo eletto e, dopo aver rilasciato dichiarazioni ai giornalisti, un gruppo di persone viene ad acclamarlo mentre sta entrando nella sua macchina. All'uscita dei giudici invece, gli stessi che avevano festeggiato il condannato, incominciano a tirar loro di tutto, comprese delle bombe Molotov» (Il caimano, voce Wikipedia).
Il film di Moretti (uscito nel 2006, quando la parabola berlusconiana sembrava giunta al suo epilogo), rappresentante intelligente di quella borghesia post-ideologica maturata negli anni Settanta, fu accolto con perplessità perché non ricostruiva gli anni del berlusconismo trionfante né appariva come una docufiction. Era un bellissimo film sulla solitudine che si sublima in passione (la storia del produttore Bruno Bonomo, che dilapida i suoi averi per amore del cinema) e della solitudine che si esorcizza nell'esercizio di un potere "incantatorio" e "assoluto" (la storia del "Caimano"). In realtà, oggi lo sappiamo finalmente, era un film profetico, in cui, come spesso accade ad un grande artista, era previsto il nostro presente.
Berlusconi con la sua sortita finale contro la «magistratura sovversiva» mostra in maniera cristallina come non abbia mai compreso realmente i principi che sono alla base dello Stato liberale. Egli incarna perfettamente quel rischio "totalitario" contenuto nei sistemi democratici che Tocqueville denunciò come "dittatura della maggioranza".
Il nostro paese è in grado di bloccare questa deriva? O gli anticorpi non esistono più per cui assisteremo giorno per giorno alla dissoluzione della separazione dei poteri, tutti "unificati" nelle mani di un solo uomo, che già detiene l'esecutivo e il "mediatico"?

martedì 20 maggio 2008

poesia del calcio


Domenica, dopo pranzo, ho staccato il telefono e il cellulare, spento il televisore. Ho dormito con mia figlia. Quando ci siamo svegliati, mi sono affacciato ripetutamente cercando un segno: delle vele neroazzurre che mi dicessero che la mia squadra ce l'aveva fatta, contro i miei cupi presentimenti, ancora segnati da un ferale 5 maggio. Niente. Tutto taceva. Ho acceso il televisore e ho visto scattare la panchina in segno di gioia. Da non credere.
Sono tifoso dell'Inter dall'età di cinque o sei anni. Almeno così credo di ricordare. Mio padre mi regalò un completino che è infisso nella mia memoria, con i calzoncini neri. Fu il caso, dunque, a decidere, perché mio padre non amava il calcio. Da allora la passione per questa squadra ha accompagnato la mia vita con gioie (pochine fino a qualche anno fa) e delusioni (moltissime).
Il calcio - anche quello praticato con sempre più problemi fisici - è il legame simbolico con un altro tempo della mia vita ma anche con un altro modo d'essere. E' la possibilità di regredire verso l'indistinto dell'appartenenza, la dissoluzione della mia individualità quasi sempre controcorrente nel fiume tranquillizzante del gruppo.
So bene che il calcio odierno è pieno di corruzione. Che gli uomini che girano in quest'ambiente sono povere persone troppo ricche e molto corrotte. Che i presidenti delle squadre sono emblemi di quel capitalismo di cui mi auguro la fine ogni giorno. Eppure...
Eppure la pura passione del tifoso per la propria squadra, le sue lacrime e le sue grida di furore sono un potenziamento della vita a cui non potrei rinunciare.
Eppure gesti atletici come il goal di Ibrahimovic, il goal di Vucinic, il goal di Osvaldo hanno il potere di far passare in secondo piano tutto il marcio del calcio, gesti fuori dal tempo, pura poesia, come Pasolini ben sapeva.

domenica 11 maggio 2008

un Dio debole


La sera, prima di coricarmi, prego. Ringrazio Dio per i doni avuti. Ieri sera, per esempio, pensavo alla morte, a quando morirà un caro amico e andrò sulla sua tomba. E questo pensiero triste ha evocato tutte le grandi gioie della mia vita, che non potrei mai elencare tutte (forse un giorno lo farò, come Borges). E poi pensavo al Dio debole e fragile cui mi rivolgo, il Dio che ha rinunciato, creandoci, alla sua onnipotenza, facendo di noi cooperatori nella storia della salvezza del mondo (idea formatasi nel confronto con le tragiche riflessioni di Quinzio e quelle più pacate ma profondissime di Jonas). E, recitando il Pater, sentivo oscuramente come quei congiuntivi esortativi siano la profonda verità di questo Dio: «Sia fatta la tua volontà, venga il tuo regno...». Il crocifisso per me è il simbolo di questo Dio. Ma allora, mi dico, la mia fede non si fonda sulla resurrezione del Cristo. Non si fonda sul Cristo. Un Dio debole annunciato da un profeta che nella sua crocifissione testimonia come Dio stesso penda dal tempo della creazione dall'albero della vita e della morte, e affidi a noi la sua e la nostra salvezza!

Ripenso spesso ai versi di Caproni, del Lamento del preticello deriso:

e prego; prego non so ben dire
chi e per cosa; ma prego:
prego (e in ciò consiste
- unica! - la mia conquista)
non, come accomoda dire
al mondo, perché Dio esiste:
ma, come uso soffrire
io, perché Dio esista.


Ripeto: non perché Dio (r)esiste ma perché (D)io resista.

martedì 6 maggio 2008

la Destra e il capitale


Siamo in una fase di turbolenza straordinaria del ipercapitalismo planetario.
Molti analisti prevedono una catastrofe paragonabile a quella del 1929.
In Italia trionfano le Destre, cioè quei partiti che hanno sempre proclamato la virtù del capitalismo, del liberismo, la necessità di ridurre i lacci dell'agire economico.
Il capitalismo - Marx lo scriveva nel 1848, centocinquanta anni fa - dissolve tutto ciò che è solido: tradizioni, radicamento...
Gli esodi biblici di questi anni lo dimostrano in maniera lampante. Viviamo in non-luoghi abitati per lo più da individui monadici e sradicati (da un passato riconoscibile o da un luogo familiare).
Eppure queste stesse Destre apologetiche del capitale dissolutore (che è dunque il male da curare) in un gioco di prestigio illusionistico riescono a far credere, grazie alle problematiche securitarie ed identitarie, di essere loro la cura del male!
Tremonti parla giustamente di "paura" nel suo libro. Ma la loro risposta è ipocrita, perché non cura il male alla radice, anzi lo aggrava, aggiungendo alla paura la violenza...
Peter Gabriel cantava: «Fear she is the mother of violence»

venerdì 2 maggio 2008

Grillo e la Sinistra


Finalmente «il manifesto» con una pagina di lettere pubblicata il 30 aprile ha fatto autocritica rispetto alla posizione spocchiosa e difensiva (di casta, oserei dire) presa in questi anni sul fenomeno Grillo. Mi chiedo come sia possibile non rendersi conto che le battaglie portate avanti in questi anni dal comico genovese sono chiaramente, inequivocabilmente "di sinistra", comunque si intenda questa parola? La cecità del giornale più aperto, avanzato e plurale della sinistra italiana non la dice lunga sulla cecità complessiva della rappresentanza politica di sinistra spazzata via dalle elezioni? Certo, Grillo non esaurisce lo spettro di ciò che una sinistra dovrebbe fare, ma oggi nessun soggetto che opera "politicamente" può illudersi di sintetizzare l'agenda delle cose da fare. Ciascuno può occupare uno spazio: ebbene, come i Girotondini illo tempore occuparono lo spazio - ora vuoto - della tutela democratica, così Grillo e la rete da lui creata occupa un duplice spazio.
Il primo è quello della denuncia della "democrazia dimidiata" presente in Italia. Non ci si faccia ingannare dalle forme, dai "vaffa...", scambiandoli per qualunquismo o populismo. Grillo è rimasto l'unico, nella campagna elettorale soft, a gridare con la necessaria indignazione che l'Italia non è un paese democratico, che in nessun paese del mondo il padrone dei media in Italia potrebbe fare politica, che la legge Gasparri è un'aberrazione intollerabile. La sinistra si è limitata a rimuovere il problema, come un fastidio. La denuncia del Parlamento italiano come ricettacolo di condannati è il secondo punto di forza della sua denuncia. Anche qui, come si fa a non considerare questa una battaglia della sinistra? Come è tollerabile che il Presidente del Consiglio sia il mandante della corruzione che ha portato l'avvocato Cesare Previti in galera? Per non parlare delle battaglie ambientali contro inceneritori e nucleare, a favore di energie alternative.
Il secondo spazio occupato da Grillo, a livello metodologico, è quell'immenso territorio disertato dalla sinistra classica: la rete, con il suo blog. Grillo sta indicando una via possibile di azione politica che utilizza il mezzo più avanzato della terza rivoluzione industriale. Anche qui, come non capire che questo spazio va agito, che rompe le forme classiche dell'aggregazione politica ma offre inaudite nuove possibilità di agire collettivo? Perché tanta spocchia, tanto sprezzo per le migliaia di persone che vanno ai "comizi-spettacolo" e, attraverso la rete, agiscono, raccogliendo firme, organizzando campagne di boicottaggio o, semplicemente, informandosi in maniera alternativa, costruendo informazione? Non è scandaloso che l'oltre milione di firme raccolte il 25 aprile sia stato relegato dal «Corriere» e da «Repubblica» in un trafiletto di dieci righi? Dunque, il mio appello è iniziare la costruzione di una rete di sinistra plurale, di cui parte integrante sia questo popolo, diverso geneticamente da chi "viene" dalla Sinistra, ma inequivocabilmente vicino nei contenuti delle battaglie e, spero, soprattutto nelle forme innovative con cui svolgerle.

giovedì 1 maggio 2008

festa del lavoro?


Il Moloch contro cui dovremo combattere nei prossimi decenni, nella teoria e nella pratica, è il Lavoro, con le altre due divinità ad essa correlate, il Progresso e il Consumo. Già Jünger ne L'Operaio dava le coordinate per comprendere la radicale mutazione introdotta dalla tecnica nel lavoro e nella società del lavoro. Oggi giustamente si celebra il lavoratore. Questa festa ha senso solo se diventa la rivendicazione di un altro lavoro, integralmente umano, quello che ha a che fare con la nostra creaturalità, non con ambizioni prometeiche, quello che ci ricorda che siamo custodi e non padroni del mondo, con esso interagiamo e da esso continuamo a dipendere. Non il lavoro distruttore, non il lavoro che diventa un feticcio capace di reclamare continuamente sacrifici umani. Bisogna "lavorare" molto sulle nostre teste, dove una controfigurazione diabolica del lavoro è entrata in profondità, ha contagiato ogni ambito della vita, che deve diventare produttivo, finanche il "tempo libero".
Riprendere in mano L'uomo è antiquato di Anders, punto di partenza di ogni diagnosi del presente e progetto per il futuro.

sabato 26 aprile 2008

senza rivoluzione


Per la prima volta quest'anno sto affrontando, con una mia classe, il Risorgimento come rivoluzione mancata, sicuramente non di popolo. Mai sono riuscito ad affrontare la Resistenza, se non in maniera scolastica. Materia incandescente per me. In ogni caso, nell'amarezza di questo tempo, non posso non riscontrare nei momenti decisivi della nostra storia una spaccatura che diventa tratto originario, stigma indelebile. A differenza degli americani (4 luglio) o dei francesi (14 luglio) i nostri atti di fondazione non sono condivisi. In fondo, l'Italia è vissuta sempre in un clima di "guerra civile", calda o fredda. Aveva ragione Umberto Saba: mentre altre nazioni avevano alla loro origine un "parricidio" (il re è sempre un grande padre), l'Italia aveva un fratricidio.

venerdì 25 aprile 2008

lacrime


Mi accingo, come (quasi) tutti gli anni, ad andare alla manifestazione per la commemorazione del 25 aprile. Quest'anno, però, lo spirito è molto diverso. Per la prima volta si svolge in un paese nel cui Parlamento non ci sono forze che, esplictiamente, derivano da quelle che, per lo più, animarono la Resistenza al nazisfascismo e ispirarono la Costituzione, varata giusto 60 anni fa.
Per questo mi pare doveroso rileggere le parole di Pier Paolo Pasolini, come se esse avessero atteso tanti anni per diventare definitivamente vere:

Lacrime
Ecco quei tempi ricreati dalla forza
brutale delle immagini assolate:
quella luce di tragedia vitale.
Le pareti del processo, il prato
della fucilazione: e il fantasma
lontano, in cerchio, delle periferia
di Roma biancheggiante in una nuda luce.
Gli spari; la nostra morte, la nostra
sopravvivenza: sopravvissuti vanno
i ragazzi nel cerchio dei palazzi lontani
nell’acre colore del mattino. E io,
nella platea di oggi, ho come una serpe
nei visceri, che si torce: e mille lacrime
spuntano in ogni punto del mio corpo,
dagli occhi ai polpastrelli delle dita,
dalla radice dei capelli al petto:
un pianto smisurato perché sgorga
prima d’essere capito, precedente
quasi al dolore. Non so perché‚ trafitto
da tante lacrime sogguardo
quel gruppo di ragazzi allontanarsi nell’acre luce di una Roma ignota,
la Roma appena affiorata dalla morte,
superstite con tutta la stupenda
gioia di biancheggiare nella luce:
piena del suo immediato destino
d’un dopoguerra epico, degli anni
brevi e degni d’un intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro
che, adolescenti, prendono la strada
della speranza, in mezzo alle macerie
assorbite da un biancore ch’è vita
quasi sessuale, sacra nelle sue miserie.
E il loro allontanarsi nella luce
mi fa ora raggricciare di pianto:
perché? Perché non c’era luce
nel loro futuro. Perché c’era questo
stanco ricadere, questa oscurità
Sono adulti, ora: hanno vissuto
quel loro sgomentante dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
a cui ogni martirio è stato inutile,
servi del tempo, in questi giorni
in cui si desta il doloroso stupore
di sapere che tutta quella luce,
per cui vivemmo, fu soltanto un sogno
ingiustificato, inoggettivo, fonte
ora di solitarie, vergognose lacrime.

sabato 19 aprile 2008

fede "nel segreto"


Ho letto con la consueta attenzione, dovuta a chi spesso in solitudine ha testimoniato nella nostra città la possibilità di un altro cristianesimo, non bigotto, non superstizioso, non “pio” (nella oramai duplice accezione della carità tipica dei beneventani, che ha bisogno di ostentarsi, e del culto idolatrico di Pio da Pietrelcina). Ma dissento profondamente da quanto scritto dalla Zanin. È bene chiarire da dove dissento. Non più dall’interno della chiesa cattolica, da cui sono fuoriuscito, se cioè è umanamente possibile, nella Pasqua dello scorso anno, quando avvertii l’inconciliabilità di molte mie idee con le idee e le pratiche della chiesa cattolica (odierna). Ora mi sento un discepolo fraterno del Gesù che emerge, ad esempio, dai libri di Barbaglio. Con lui attendo il Regno di Dio e la resurrezione dei corpi. Il dissenso con la Zanin è però radicale sui “segni dei tempi” che lei intravede in chiave positiva, come rinnovamento del messaggio evangelico. Io li vedo, invece, come segni della sua estrema degenerazione. Il battesimo “politico” e mediatico di Magdi Allam è quanto di più lontano dal quell’invito al rapporto segreto con Dio cui Gesù invita continuamente («Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà», Matteo, 6:5, 6). Il signor Allam ha pregato in una immensa sinagoga mediatica, è stato visto da molti uomini. Ha già avuto la sua ricompensa. Ha tradito il messaggio evangelico. Come chi ha voluto che ciò accadesse. La Zanin, poi, esalta il dato numerico (le copie dei libri, le moltitudini che accolgono il papa…). Il “regno della quantità” è il dominio del principe di questo mondo. Non discuto la “fame” di sensatezza che gli uomini hanno oggi, evidente, come lo smarrimento. Il mio dubbio radicale riguarda la capacità della chiesa odierna di dare una risposta vera, cioè non esteriore, a questo bisogno, a porsi come argine contro il nichilismo imperante. Il 2 febbraio scorso è morto Michele Ranchetti. Maestro nel vero senso della parola, dunque appartato, studioso e traduttore di Freud, di Wittgenstein, della storia della chiesa, poeta. Ebbene Ranchetti negli ultimi anni aveva svolto una radicale critica dell’istituzione ecclesiastica, soprattutto di quella legata al pontificato di Giovanni Paolo II, fondata su una “teologia della presenza visibile”, spettacolare e perfettamente integrata nel mondo della comunicazione globale. La “morte in diretta” di Wojtyla non è stato che il compimento di quella teologia ostensoria, quando “masse” di giovani andavano a fotografarsi col cellulare davanti al cadavere di uomo. In una riflessione del 2000 scriveva Ranchetti: «Una Chiesa come questa corrisponde […] all'abbandono, non detto ma praticato, del cristianesimo come religione in favore di una Chiesa visibile in cui si compendia la storia». La disobbedienza diventa una scelta obbligata, con la ricerca di una spiritualità interiorizzata, vissuta en to krypto. Sempre più, dunque, sento di ripetere con Ernst Bloch che la vera funzione delle chiese è quella di rendere possibile le eresie, che, forse, preservano in forma misteriosa il seme integro della “buona novella”.

(apparso su «Messaggio d'oggi»)

venerdì 18 aprile 2008

Mastella e i Filistei


Quando ancora non era immaginabile l'esito catastrofico della crisi (era la destra che sembrava dibattersi in una crisi mortale), la celebrità nostrana, Clemente Mastella, fu coinvolto con il suo "cerchio magico" in un'inchiesta, tutt'ora in corso. Sembra un secolo fa... Rilasciai delle dichiarazioni abbastanza pesanti al «Corriere del Mezzogiorno», mi fu chiesto di ampliarle eventualmente. Scrissi un pezzo, mai pubblicato, per motivi ignoti (era il 20 gennaio). Eccolo qui. (Mastella non è il responsabile di quanto accaduto, ma se il governo Prodi avesse resistito fino all'estate, Berlusconi sarebbe scomparso dalla scena politica. Di questo ne sono certo. Quindi ha una responsabilità enorme nella storia italiana dei prossimi dieci, quindici anni. E non ha portato nulla a casa!)

Le macerie e il deserto

È molto difficile parlare di quanto sta accadendo nel Sannio e in Campania. Lo è in assoluto, ma lo è certamente di più per chi associa ai nomi ripetuti dai telegiornali volti di persone conosciute, talvolta amiche. È ancora più difficile quando quel mondo che ora è sotto accusa è stato il proprio mondo familiare, in cui “Sandra”, ad esempio, era una cara amica di tua madre. Per questo non è possibile per me non restare sgomento rispetto a questa bufera. Eppure, mi è stato insegnato, «una cosa è il giudizio, un’altra la pietà». E allora, mi dico, è quanto mai urgente, è doveroso anzi, cercare risposte razionali.
Prima, però, a margine, da “povero cristiano” senza chiesa, mi sento interpellato da alcune parole ascoltate sul piano non morale, non religioso ma spirituale. Ho sentito abnorme e profondamente contrario al messaggio gesuano imputare la “persecuzione” giudiziaria alla testimonianza dei valori cattolici. Al cattolico Mastella – in positivo - dico: la sequela Christi presuppone il consegnarsi ai propri carnefici senza opporre resistenza. Questo forse andava testimoniato davanti agli italiani, piuttosto che evocare, con suggestive metafore sfuggite ai più (il calice, la feccia, l’imminente Pasqua), il proprio “martirio”. In negativo, il cristianesimo ci educa al senso del limite dell’uomo in quanto creatura, costantemente tentata dal peccato, fragile. Non possiamo mai autoassolverci. E se suona ridicolo un magistrato che rivendica il suo altissimo senso dello Stato, stride chiunque ribadisca continuamente urbi et orbi di essere persona “perbene”. Al Mastella (ex) ministro della Giustizia (la Dike greca) che, giustamente, spesso ricorda la sua laurea in filosofia, ricordo come, a fondamento della cultura occidentale, ci sia un uomo che, accettando una sentenza ingiusta di morte, evocava la sacralità delle Leggi, sulle quali si fonda la possibilità stessa della vita civile (“politica”), esortando i discepoli al loro rispetto anche nel caso di cattiva o pessima applicazione.
«Umana actiones, non ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere». Questo insegnava Baruch Spinoza. Lo sforzo di intelligenza cui siamo tenuti non può non partire da un riconoscimento di “correità” o di “corresponsabilità” di chi, in primis, dunque, colui che ora scrive, non avrebbe dovuto rassegnarsi all’esistente, e, dunque, degli intellettuali, dei giornalisti, della presunta “società civile”. Nessuno, o pochissimi, sono innocenti. E la destra che ora, come giusto, cavalca l’onda, non può dimenticare che non ha utilizzato metodi di governo diversi e che la delegittimazione della magistratura è il vero chiodo fisso del suo dominus, Silvio Berlusconi.
Il Caimano di Moretti si chiudeva con una scena tenebrosa: sostenitori del politico descritto nel film lanciavano bombe molotov contro i giudici che l’avevano condannato. Nell’ultima autodifesa il Caimano si appellava al consenso popolare contro il potere della magistratura, considerando l’investitura una “assoluzione” dalle leggi tout court. Ma poteva Moretti immaginare l’applauso proveniente dalle viscere che la Camera ha tributato al Ministro della Giustizia, il quale indicava nella magistratura un potere potenzialmente eversivo? Poteva immaginare che in quindici anni (dall’inizio degli anni Novanta ad oggi) la sinistra italiana facesse proprie le ragioni del berlusconismo, vedendo nella magistratura un pericolo per la democrazia? Dunque la vittoria del “Caimano”, vittoria culturale molto più che politica (e dunque destinata a lunga durata) è definitiva. Berlusconi potrà uscire di scena, ma la sua visione di che cosa è lo Stato e di quale debba essere il rapporto fra i suoi poteri, di cosa significhi essere eletti e rappresentare il “popolo, ha vinto.
Ciò che sto dicendo, evidentemente, prescinde dall’esito del procedimento giudiziario in atto nei confronti di vertici e alti esponenti dell’UDEUR. Idem dicasi per quanto riguarda Antonio Bassolino. Su questo deve pronunciarsi, e non può che pronunciarsi solo la magistratura. Ogni ingerenza – questo vale anche per i casi D’Alema-Forleo per intenderci – è, essa sì, devastante per la vita democratica del paese. Posso solo dire, da profano, che sembra molto difficile provare l’impianto accusatorio, il quale individua un sistema piuttosto che singole vicende di rilevanza penale. Ma al giudizio politico siamo chiamati, perché le intercettazioni su cui si fonda l’inchiesta – come le precedenti tutte, dalla Unipol a Ricucci, da Vittorio Emanuele di Savoia a Saccà-Berlusconi – aprono una squarcio angosciante sul degrado morale e politico (e linguistico!) dell’Italia, da Nord a Sud. Ne emerge un paese in cui il potere politico, costituito in casta funzionante per contiguità familiare o cooptazione, pervade ogni sfera “pubblica” mosso da un horror vacui per il quale nessun posto non può non essere lottizzato, spartito, in assoluto spregio a qualunque criterio di merito o capacità (come ha scritto Battista su queste pagine): questo vale per il posticino nella fiction televisiva ma anche per quello di ingegnere in una ente pubblico. E chi non accetta questa logica è spazzato via, come insegna il caso di Loretta Mussi, ottima manager che aveva reso il Rummo di Benevento un ospedale veramente “civile”, utilizzando per lo più criteri di capacità, e che per questo è stata mandata via, dopo essere stata messa sotto accusa in un consiglio comunale dall’intero centro-sinistra. Ne emerge un paese in cui la perpetuazione del potere (del partito, della famiglia, del mio potere) diventa fine in sé. Mastella appare disarmante proprio per la sua incapacità oggettiva di distinguere tra sfera privata, familiare e “res publica” (come, ad esempio, già l’inchiesta dell’«Espresso» di novembre sulla gestione de «Il Campanile» aveva mostrato). È il “familismo” di cui parlava la sociologia degli anni Sessanta a proposito del Sud. Lo stesso si può dire di Antonio Bassolino o di Ciriaco De Mita. I poteri in Campania si sono strutturati in modo di sorreggersi reciprocamente (per questo non appare casuale la contemporanea crisi del bassolinismo e quella del mastellismo), utilizzando il consenso di massa per distribuire incarichi, cooptare nell’amministrazione, creare posti di lavoro per le clientele ecc. Tutto questo senza minimamente calcolare costi e benefici. Perché (e ragiono machiavellicamente indossando panni non miei), se il fine fosse stato il bene dello Stato (del Comune, della Regione), forse si sarebbe potuto giustificare anche tutto, ma poiché il mezzo era diventato fine, abbiamo immondizia che ci sommerge, territori inquinati, camorra dilagante, ospedali inefficienti, appalti gonfiati e quant’altro.
Il centro-sinistra in Campania lascerà il deserto. Bassolino avrebbe già dovuto dimettersi da molte settimane. Su di lui – che abbiamo votato in questi anni sempre più disillusi – ricade la vergogna dei rifiuti. È stato quasi un sovrano “ab-solutus” (legibus?). Dovrebbe autoesiliarsi in perpetuo dalla politica. Si ridurrà, probabilmente, a fare il ras locale di qualche Elba perduta. L’UDEUR, questa è la mia analisi, uscirà senza grossi danni dall’inchiesta ma distrutto politicamente. So che è metafora frusta, ma ci aspetta una lunga traversata nel deserto. Ci aspettano anni in cui sono vietate le scorciatoie politiciste.

Giuseppe De Rita - nella brillante analisi svolta col suo CENSIS sull’Italia – afferma che esistono minoranze virtuose (nel mondo delle imprese, del volontariato sociale e culturale, nel mondo religioso), ma dispera che esse possano trovare in “questa” politica il collettore che le faccia diventare traino dell’intero paese. Ebbene, a maggior ragione l’analisi vale per il Sannio e la Campania. Le minoranze “virtuose” non possono più contare sulla politica. Non ci sono neanche più le illusioni palingenetiche dei primi anni Novanta. Abbiamo visto che, crollata la prima Repubblica, la seconda è stata in quasi tutto peggiore. Eliot scrisse una volta: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». È rischioso illudersi di salvare qualche pezzo della storia che abbiamo alle spalle per ricominciare da lì. Dunque, nessuna illusione, nessuna scorciatoia. Ciascuno nel suo privato a livello culturale, a piccoli gruppi che – senza “centri direzionali” – cerchino di farsi rete a livello sociale, deve ricostruire le possibilità di una politica “onesta”, dove tale aggettivo indica non tanto, o non solo, il divieto di non fare interessi privati (che non consistono solo nell’arricchimento) nell’esercizio della cosa pubblica, quanto, soprattutto l’agire responsabile, la consapevolezza che “rappresentare” significa agire per il bene collettivo, e cioè tutelare la terra, l’acqua e l’aria, garantire che l’ospedale guarisca e non uccida con medici e manager capaci piuttosto che amici, riprogettare le città in vista della “misura umana”, evitare ogni collusione con le associazioni criminali. Forse fra quindici o venti anni quel che ora chiamiamo ancora “sinistra” sarà pronta nuovamente per cimentarsi nell’amministrazione, senza farci vergognare di esserne parte o di averla votata.

giovedì 17 aprile 2008

macerie



Macerie. La mia storia personale incrocia ancora una volta la grande storia. Ho visto crollare muri, morire grandi uomini cui nomi pronunzio nelle mie aule. Ora assisto attonito alla scomparsa della sinistra dal Parlamento italiano. Le cause sono molteplici: una pessima legge elettorale, il gioco al massacro del Partito Democratico di Veltroni, una pessima campagna elettorale, l'inconsistenza di un cartello nato a fini elettorali, l'impresentabilità di una classe dirigente vecchia o guasta, l'incapacità di fare scelte coraggiose. Ma il dato è sotto di noi, alle spalle, terrificante. La sinistra non c'è più in parlamento. Possiamo passare i prossimi anni ad elaborare il lutto o vivere questa catastrofe come un nuovo inizio. Vorrei impegnarmi in questo, a partire dal mio luogo, dallo spazio che abito, la mia città. Ciò che verrà (che non si dovrà chiamare sinistra, probabilmente) dovrà essere un'esperienza fortemente territoriale e comunitaria.