lunedì 6 dicembre 2010

diario occupazione III


Sabato 4

In mattinata è previsto il corteo di tutte le scuole. Leggo il manifesto che lo lancia. Ne condivido alcuni punti, non la chiamata finale, di chiara matrice anarchica, al blocco delle città, alla rivolta generalizzata. Gli anarchici hanno un grande potere di penetrazione in un ambiente oramai totalmente deideologizzato come quello della scuola, e riescono facilmente ad imporre le loro parole d’ordine.
Faticosamente, nel primo pomeriggio, riesco a ricostruire quanto è accaduto la mattina, dopo notizie confuse che giungevano da ogni parte: gli occupanti del Classico avevano deciso di cessare l’occupazione, come concordato con la Dirigente; saputa la notizia i manifestanti erano confluiti in massa a Piazza Risorgimento. Alla fine il Liceo è stato lasciato. Mi scriverà poi più tardi uno dei rappresentanti d’Istituto della volontà di rilanciare, in altre forme, protesta e rivendicazioni. Bravo!
Alle 15 con le due colleghe che più intensamente hanno creduto alla bontà e alla maturità dell’autogestione andiamo a parlare con i ragazzi del Rummo. Ci sono le varie “anime” dell’occupazione. Con molta chiarezza esponiamo la nostra posizione: è stato un successo, nei contenuti e nel messaggio lanciato alla città, ora si abbandona questa forma di protesta e si trattano delle “riforme”, si creano dei tavoli di discussione a livello di istituto e di città per una vera autoriforma della scuola. Noi, in caso contrario, non garantiremo più la nostra presenza e il nostro supporto. Alcuni capiscono il senso del nostro discorso, lo condividono, ma sono netta minoranza. Vado via con l’impressione, condivisa, che tra molti degli occupanti, soprattutto dopo quella che è stata percepita come “caduta” del Classico (e che, invece, è stato un atto responsabile, maturo), si sia diffusa una sorta di “sindrome da Termopili”: «Liceali, godetevi la vostra colazione…». Intanto non hanno organizzato nulla di interessante: si canta e si gioca a carte… Sono molto perplesso.

Domenica 5

Continua l’incertezza. Navigo tra profili, scrivo, chiedo informazioni, mi sento con le colleghe. Non possiamo semplicemente lavarcene le mani: lo dobbiamo ai nostri alunni, che tali restano anche se assumono, dal nostro punto di vista, posizioni sbagliate. Credo, inoltre, che la realtà sia dialettica, che ogni nostra azione la modifichi, quindi non mi rassegno.
Alle 10 mando un messaggio a tutti i miei alunni, in cui spiego quanto accaduto il giorno prima: «Abbiamo detto loro che ritenevamo un successo quanto fatto, a patto che l’occupazione terminasse il fine settimana e si discutesse con il Dirigente per avere, nel corso dell’anno, degli spazi di cogestione. E che, invece, rimanere in attesa dello sgombero con la forza avrebbe vanificato quanto di buono fatto». Lo inoltro anche ai leader della protesta, o quelli con i quali ho maggiormente interloquito in questi giorni. Nel pomeriggio viene convocata un’assemblea alle 16. La maggioranza decide di proseguire sine die l’occupazione. Le ragioni della minoranza suscitano irritazione e reazioni vibranti. I ragazzi mi scrivono. Sono amareggiato.
Dopo cena vado a scuola. Non entro, ma chiedo ai ragazzi di smontare le mie cose lasciate a scuola (l’amplificatore, le casse…). Qualcuno di loro chiede conto del mio mutamento di posizione: rispiego le cose dette il giorno prima. Mi sembrano confusi. Chiedo: qual è il vostro obiettivo? «Arrivare fino al 14… la caduta del Governo… l’affossamento della Legge Gelmini…». In bocca al lupo. «Vi dimostreremo che sapremo organizzare attività importanti anche senza l’aiuto dei professori». Ne sarei molto felice. È quello che ho sempre desiderato.
In bocca al lupo, Spartani. Speriamo che nessuno di voi debba cenare il pane amaro d’un prosaico Ade…

sabato 4 dicembre 2010

diario occupazione II


Giovedì 2

Alle 10 sono al Rummo. Assisto all’incontro dei ragazzi con tre colleghe. Dissento su alcune questioni, ma trovo straordinari quei docenti che accettano di mettersi in discussione senza la rete del “potere” conferitoci da voti, registri, programmi. Tutto quello che normalmente insegniamo come astratta teoria chiede di essere incarnato. Se non ora, quando? Commentando la mia lettera aperta la signora Anna Romano scrive sul “Quaderno”: «Il disagio che mia figlia manifesta è la mancanza di idee da parte dei suoi compagni per dare un senso a queste giornate, ma a me sembra che manchi una componente fondamentale di quella scuola, e cioè i docenti! Dove sono? Perchè non sono con loro e li aiutano a capire come ha fatto lei, che gira per i vari istituti? La fiducia dei propri alunni la si guadagna stando al loro fianco sempre, soprattutto in questi momenti». Aiutare a capire… Questo dovrebbe essere scritto nel nostro ideale “giuramento di Socrate”, cui ogni docente dovrebbe essere chiamato all’inizio della sua carriera.
Iniziamo a vedere (con la LIM, la lavagna luminosa multimediale, destinata a cambiare le modalità dell’insegnamento nei prossimi anni) Capitalism. A love story. Spiego rapidamente ai ragazzi chi è Michael Moore, i suoi documentari sull’uso dell’armi in America, sull’11 settembre, sul sistema sanitario, il suo radicalismo democratico. Seguono in raccolto silenzio. Non parliamo della rivoluzione (o forse sì), ma cerchiamo di “capire” (insieme) il nostro tempo. Lo spiego anche a due rappresentanti dei genitori che sono venuti, intelligentemente, a vedere con i propri occhi.
Alle 16,30 sono al Giannone, la scuola nella quale ho insegnato negli ultimi anni. La maggior parte degli occupanti sono impegnati in un’assemblea interistituto al Guacci. Leggo ai ragazzi presenti la mia Lettera aperta, esprimo la mia posizione. Li ascolto. Il maggior disagio è nato in loro dall’atteggiamento dei professori. Non c’è stato dialogo, anzi, momenti di tensione forte il giorno dell’occupazione. L’atteggiamento dialogico e aperto della Dirigente ha evitato degenerazioni. Li sprono a chiedere un incontro ufficiale con la componente docente per spiegare le ragioni del movimento. Sono convinto che solo l’azione sinergica di tutte le componenti della scuola potrà avviare un processo di autoriforma. Li lascio con una riflessione di Edgar Morin (il cui La testa ben fatta invitava i ragazzi a «prendere in mano la loro educazione»), sulla necessità di una riforma del sapere che proceda di pari passo con una riforma dell’istruzione: «Abbiamo bisogno di riarmarci intellettualmente, istruendoci per pensare la complessità e per tentare di pensare i problemi dell’umanità nell’era planetaria».
Vado al Guacci, dove trovo una situazione ancora diversa dalle altre. Qui il gruppo “consapevole” è abbastanza ridotto. Predomina la componente ludica. Ci mettiamo in un’aula piccola. Ci raggiunge la collega, riflettendo con la quale è nato tutto. Trovo quest’atteggiamento ammirevole. Non è persuasa di quel che i ragazzi fanno ma c’è, è presente, si mette in discussione. Chiedo ai ragazzi e alle ragazze di parlare, di raccontare la loro esperienza. Emergono entusiasmo per l’“impresa”, delusione per la risposta del corpo dell’Istituto. Dai nostri interventi emergono alcune proposte agibili per il futuro: la costruzione di una redazione e di un giornale di istituto, la proposta di momenti di cogestione con la partecipazione attiva dei docenti, grazie anche alla grande disponibilità del Dirigente, l’avvio di un cineforum pomeridiano e di incontri periodici di approfondimento sull’attualità e di invito alla lettura. Sono i piccoli gruppi consapevoli che cambiano la realtà…

Venerdì 3

Alle 10 sono al Rummo. Completiamo la visione del documentario di Moore, sui disastri del turbocapitalismo americano, la crisi del 2006. Ho preparato una breve discussione sulla “decrescita”. I ragazzi non ne sanno nulla. Parlo loro di Ivan Illich e di Serge Latouche. Più che discutere l’impalcatura teorica del movimento, cerco di fare proposte operative: comprare una caraffa filtrante e iniziare a bere l’acqua di casa, preparare cibi (come lo yogurt) a casa, ipotizzare di sostituire lo scooter con una bicicletta elettrica… Ma soprattutto iniziare quel complesso lavoro di “decolonizzazione dell’immaginario” senza il quale il mondo delle “merci” con i suoi lustrini continuerà a dominare dentro di noi. E, filosoficamente, iniziare ad incrinare il mito del “progresso”, che da Bacone infesta la cultura occidentale. Indico loro i siti dove approfondire l’argomento. Chiudo sollecitandoli a raccontare l’esperienza che stanno vivendo, e parlo loro di questo Diario. «Trovate le vostre parole per spiegare, fuori di qui, che cosa sta accadendo». La discussione continua con alcuni dei ragazzi, turbati da queste proposte. Mi rendo conto, parlando con loro, di quanto sia difficile scalfire la “cultura” del consumo, delle merci, del progresso, della velocità che soprattutto i media hanno inculcato in loro, il pensiero unico. Il ruolo di educazione alla “resistenza” degli insegnanti è decisivo.
I ragazzi si spostano in massa per partecipare al corteo con le altre scuole.
Penso a cosa fare il pomeriggio con loro. Mi piacerebbe ragionare sulla forza trasformativa della grande poesia, leggere Dylan Thomas e René Char (caro dottor Del Vecchio, i ragazzi sono affamati di poesia, mi creda, e forse anche di rivoluzione; forse avrebbero bisogno di adulti in dialogo piuttosto che di laudatores temporis acti e dei loro sprezzanti giudizi). Mi arriva un messaggio: salta tutto per il pomeriggio.
Non so cosa accade e accadrà domani. Non so quando i ragazzi termineranno l’occupazione. Per rispetto nei loro confronti non partecipo mai alle assemblee. Li condizionerei. Aspetto trepidante lo sviluppo degli eventi.

venerdì 3 dicembre 2010

diario occupazione I


Martedì 30 

È il mio giorno libero (dies sacer per i docenti delle Superiori). Su Facebook verso ora di pranzo vengo a sapere che i ragazzi hanno occupato: Scientifico, Classico, Guacci, Alberti, Alberghiero, Artistico… È un fulmine a ciel sereno. Mai come quest’anno la parola “occupazione” era stata assente dalle discussioni tra e con i ragazzi. Che fare? Ne discuto in rete con una collega cara e appassionata. Scrivo nel tardo pomeriggio una Lettera aperta rivolta soprattutto ai colleghi: rimaniamo accanto ai ragazzi in questo momento nevralgico della storia del nostro paese. L’epigrafe è di De André: «E se vi siete detti / non sta succedendo niente…» È la Canzone del maggio, che chiude: «provate pure a credervi assolti / siete lo stesso coinvolti».
Verso le 20 vado al Rummo. Compro qualcosa da portare: merendine, cioccolata, un pandoro, qualche bottiglia di tè. Assisto ad un duro scontro verbale davanti alle porte. Gli occupanti non vogliono esterni dentro. All’interno c’è un clima sereno: si discute animatamente, ma tutto è tranquillo. Abbraccio il megafono che ho prestato ai ragazzi. Lo rivedrò alla fine di tutto? :)Inizio a capire che questi ragazzi sono una novità rispetto agli anni passati. È nell’agire che cercano consapevolezza, sono assolutamente privi di “ideologia”, di posizioni precostituite. Concordo di venire l’indomani a fare qualcosa.

Mercoledì 1

Alle 9,30 sono al Rummo. Ho portato con me un amplificatore con due casse, il jack per collegare il tutto al pc portatile, una cassa autonoma con il microfono. Mi sono preparato tre, quattro cose utilizzate negli anni scorsi per i giorni di LIC…enza al Giannone: la spiritualità nella musica di Battiato, un’introduzione all’opera di Bob Dylan, i rapporti tra musica classica e rock. Opto, alla fine, per De Andrè. Faber sarebbe stato accanto a questi ragazzi. Ne sono certo. Inizio facendo ascoltare Carlo Martello. Cortocircuito: ma questo re, affetto da sexual addiction, non ci ricorda un sultano del nostro tempo? «È mai possibile o porco di un cane / che le avventure in codesto reame / debban risolversi tutte con grandi puttane?». Il giorno prima Sky aveva trasmesso l’intervista a Nadia Macrì… Parlo di De Andrè, “traditore” di classe dalla seconda metà degli anni Sessanta, dell’influsso di Brel, dei concept album, del suo cristianesimo radicale. Arrivo agli anni Novanta. Chiedo, infine, un religioso raccoglimento per ascoltare La domenica delle salme, la più grande canzone italiana di tutti i tempi a mio avviso. È un momento intenso, la profetica descrizione del quindicennio di regime che sta per chiudersi, grazie anche ai ragazzi che avevo di fronte: «La domenica delle salme / gli addetti alla nostalgia / accompagnarono tra i flauti / il cadavere di Utopia / la domenica delle salme / fu una domenica come tante / il giorno dopo c’erano i segni / di una pace terrificante». L’atrio è un brusio di voci, volti che si cercano… I ragazzi sono eccitati: li capisco. Alla fine li invito a coltivare Faber, cantore degli esclusi, degli ultimi, contro ogni morale farisaica. Mi chiedono una riflessione sulla questione meridionale nel pomeriggio. Studio.
Torno da loro alle 16,30. Per fortuna alcuni colleghi hanno scelto di esserci: li ammiro. Non condividono completamente la scelta dell’occupazione, eppure ci sono, sono con i loro ragazzi, continuano ad essere quello che sono: educatori. È un sollievo per me. I ragazzi vogliono parlare di Saviano e della camorra, della parola e del suo potere, vogliono fare corsi di chitarra, di pizzica, di scultura… 
L’aula è piena e attenta. Chiedo loro qualche riflessione preliminare. Alcuni stanno leggendo Terroni di Pino Aprile. Ne parlano. Dico loro che, in tutti questi anni, ho sempre cercato di dare un’immagine problematica del Risorgimento italiano, che ne facesse vedere i limiti ora entrati nella consapevolezza comune, esplosi col brigantaggio, ma anche i limiti del pensiero democratico “sconfitto”, i limiti del mazzinianesimo e l’assenza di una seria riflessione sulle specifiche condizioni del Sud. Salto nel Novecento. Utilizzo Tre modi di vedere il Sud di Franco Cassano. Illustro i due paradigmi predominanti del pensiero meridionalista (quello coloniale e quello del “ritardo”), e i loro limiti. Infine, mi dilungo sul “pensiero meridiano”, modalità creativa per riprendere l’annosa questione e uscirne dalle secche. I ragazzi intervengono, pongono domande, il discorso tocca altre questioni centrali: l’economia, il capitalismo, Marx… Propongo, per l’indomani, di vedere Capitalism. A love story di Moore. Proposta accettata.
Faccio un salto al Giannone. Abbraccio ragazzi che sento ancora alunni miei. Parlo con un collega caro, che mi racconta del senso di responsabilità. L’Istituto è perfettamente in ordine. Si gioca a pallone sotto la pioggia e si chiacchiera. Mi chiedono di venire l’indomani, nel pomeriggio. Mi chiamano anche dal Guacci. La sera, in rete, dialogo. Un mio ex alunno, molto impegnato a destra, critica ferocemente il movimento: non sanno neanche per cosa protestano, dice. Ribatto: la consapevolezza si crea, è un percorso. Questi ragazzi chiedono di essere parte attiva del loro processo di crescita e chiedono che lo Stato investa più risorse nella formazione. Posto le foto delle occupazioni. Mi fa piacere essere accanto a loro: ad insegnare, ad imparare.

martedì 30 novembre 2010

occupazioni...


«E se vi siete detti / non sta succedendo niente…»

Gli studenti beneventani hanno occupato alcune scuole della città (Benevento è città di paradossi e controtendenze: qui il movimento universitario è “a rimorchio” di quello studentesco sia per numeri che per proposta operativa… ). Ero ancora un “precario” quando si svolsero stancamente le ultime occupazioni prenatalizie, tristi e prive di senso. Per molti anni questa pratica di protesta è stata abbandonata. Ora, improvvisamente e senza annuncio, ritorna in un momento fondamentale della storia del nostro paese.
Che tipo di contributo possiamo dare noi docenti a quanto accade? Una collega cara mi scrive su Facebook: «Questi non ci vogliono». È, dunque, giusto lasciarli vivere la loro protesta. Ma la scuola è anche nostra. Non dico il Rummo piuttosto che il Giannone o il Guacci, no, dico la Scuola, con la S maiuscola, quella di cui ha parlato Domenico Starnone in Vieni via con me. È nostra in quanto educatori, è nostra in quanto padri e madri di figli che la frequentano o la frequenteranno, è nostra in quanto cittadini di questa città e di questo paese, dove essa ha ancora il dovere di formare la coscienza civile. E, dunque, la cosa ci riguarda. Possiamo decidere di guardare la vicenda con distacco, con l’alibi che oramai la Riforma (sic!) Gelmini per le Superiori è già partita, o cercare di guardare al di là del nostro naso, e, per una volta, “tornare a volare”. Cosa sta accadendo in questi giorni? Assistiamo alla fine indecorosa di una lunga stagione politica, “l’età berlusconiana”, dominata dall’ego ipertrofico di un uomo malato di narcisismo, prima, poi via via di delirio di onnipotenza e, infine, come denunziato dalla moglie, di sexual addiction. È evidente che il berlusconismo è stato anche (e potentemente) una cultura (egemonica già a partire dagli anni Ottanta) e un blocco di interessi. Ma ora tutto questo sta finendo, e non solo per gli scandali sessuali o per i crolli di Pompei o per le rivelazioni di Wikileaks. No: la “narrazione” del berlusconismo non funziona più, né egli si è mostrato in grado di garantire quegli interessi che i suoi governi avrebbero dovuto tutelare. E, dunque, questo è il tempo di una nuova narrazione, simbolicamente aperta dal racconto accorato e partecipe, intriso di vita e passione di Roberto Saviano, in cui tanti italiani si sono riconosciuti. Se questo è lo stato dell’arte, il rinato movimento studentesco (il cui simbolo per me sono i Book Bloc, ragazzi-libro), che protesta per la Cultura e per il Sapere, contro una concezione che dietro la parola “meritocrazia” nasconde la volontà di tagliare risorse, va appoggiato e accompagnato. Tutto il mondo della scuola pubblica, a prescindere dai nostri personali orientamenti politici (e questo non appaia in contraddizione con l’analisi “di parte” che ho condotto), dovrebbe reclamare una riforma vera, che ha da essere prima di tutto un’autoriforma. Ne va della dignità di tutti. E deve reclamare che tale riforma non sia oggetto di contesa politica, di scontro ideologico. Ci deve essere un accordo, durante la prossima campagna elettorale, per avviare una fase realmente “costituente” della nuova scuola, un nuovo inizio condiviso. Non è possibile che ad ogni governo corrisponda una riforma (Berlinguer, Moratti, Fioroni, Gelmini) che passa sulle teste di chi la scuola la fa (docenti, studenti, personale Ata, dirigenti) e che il governo successiva disfa per ricominciare daccapo, sfibrando un corpo già malato. Io non amo la scuola per quello che è. Ma reputo che qualunque riforma che passi sulla dimensione biopsichica di chi la agisce sia destinata a fallire.
Cari colleghi, il mio invito è duplice: aiutiamo i ragazzi, nostri alunni, nostri figli, a capire ed agire con responsabilità (e quindi evitiamo che il problema diventi solo di “ordine pubblico”), e creiamo anche noi dei momenti di discussione e proposta per appropriarci di un processo riformatore che non può che partire da noi.



Nicola Sguera
(docente di storia e filosofia del Liceo Scientifico “G. Rummo”)

giovedì 25 novembre 2010

perché i poeti?


1. Perché i poeti?

È la domanda che si poneva il 29 dicembre del 1946 Martin Heidegger davanti ad una cerchia ristretta di persone riunitesi nel ventesimo anniversario della morte di Rainer Maria Rilke, poeta straordinario, oggi rimosso dalla cultura italiana, autore delle Elegie duinesi e dei Sonetti ad Orfeo. A sua volta il solo apparentemente oscuro pensatore della Foresta nera citava l’elegia Pane e vino di Friedrich Hölderlin: «E perché i poeti nel tempo della povertà?» O, potremmo tradurre, del “bisogno”. Il grande poeta folle e il pensatore ci pongono davanti la catastrofe del tempo che ancora viviamo, tempo della povertà:


«La notte del mondo distende le sue tenebre […]. La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga, in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose […]. A causa di questa mancanza viene meno al mondo ogni fondamento che fondi […]. L’epoca a cui manca il fondamento pende nell’abisso. Posto che, in genere, a quest’epoca sia ancora riservata una svolta, questa potrà aver luogo solo se il mondo si capovolge da capo a fondo, cioè se si capovolge a partire dall’abisso. Nell’epoca della notte del mondo l’abisso deve esser riconosciuto e subíto fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso».

2. I poeti in cammino verso l’abisso

Ebbene per Heidegger il compito di arrivare all’abisso per consentirne, eventualmente, un suo capovolgimento è il compito dei poeti nel tempo della povertà. I poeti sono coloro che possono rintracciare la direzione della Svolta. Iniziando un lavoro di contaminazione che chiunque di voi potrà ovviamente contestarmi dal punto di vista ermeneutico o filologico, prendo ad emblema sommo di tali poeti del tempo della povertà, per così dire, un interlocutore che Heidegger disperatamente cercò, intuendone la profondità abissale, e che a lui, per motivi biografici che entrano nella nostra riflessione, si sottrasse. Sto parlando di Paul Celan, poeta ebreo-rumeno ma di madrelingua tedesco, il cui padre morì di tifo e la madre venne fucilata dai nazisti nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina. Celan era naturalmente diffidente nei confronti di un pensatore che aveva aderito negli anni Trenta al nazismo, crimen imperdonabile, se è vero che solo la morte per acqua nella Senna potrà pacificarlo con tutti i morti del suo popolo.

Eppure Celan sembra “rispondere” all’appello contenuto nelle riflessioni di Heidegger seguite ad Essere e Tempo. Sembra essere il poeta che, elevando ad esperienza universale dell’attraversamento “orfico” della morte cui siamo chiamati la Shoah, ha raggiunto quell’abisso che caratterizza il tempo della povertà, degli Dei fuggiti: «Sia lode a te, Nessuno / per amor tuo vogliamo / fiorire. / Incontro / a te», salmodiava a questo Dio/Nulla. In Argumentum e silentio è descritto il nostro tempo, il tempo della povertà. L’abisso che il poeta raggiunge per primo, ma anche – questo è il punto spesso frainteso da esegeti del poeta rumeno – la “direzione della svolta”. Celan è un “frontaliere” o, se volete, colui che raggiunge il fondo dell’abisso, della notte, del silenzio, per avviare, come il Dante nel budello infernale, una risalita nella direzione opposta però.


3. L’insurrezione contro la morte

Noi siamo nell’estrema desolazione, quella cantata nel 1922 da T.S. Eliot in The Waste Land, altro picco della poesia cui alludo. «Riuscirò a porre ordine infine nelle mie terre?», si chiede sconsolato il re-pescatore che chiude il poemetto. Riusciremo a porre ordine nella nostra terra? Solo se avremo il coraggio di mettere in discussione l’intera impalcatura su cui si regge la nostra civiltà, solo se riusciremo ad attraversare la morte e ad uscirne (orficamente?) rinnovati. D’altronde la “vita nuova” è aspirazione perenne dei poeti… La poesia diventa, dunque, luongo insurrezione e resurrezionale: l’insurrezione è quella contro la morte. «E la morte non avrà più dominio» canta il bardo gallese Dylan Thomas in una poesia memorabile… Ma il poeta che più ha reclamato questo scontro agonico/agonale con la Morte è un poeta francese, dimenticato o mai passato nella cultura italiana, René Char, pur tradotto negli anni Sessanta da giganti come Sereni e Caproni, che a differenza di Celan commerciò con Heidegger, lui il mitico Capitano Alexandre del “Maquis” francese, della Resistenza, perché intuì la carica rivoluzionaria del suo pensiero.



Vi pongo di fronte alla radicalità della sua poesia insorgente: 

«I poemi sono pezzi d’esistenza incorrotti che lanciamo sul viso ripugnante della morte, ma tanto in alto che, rimbalzando su di essa, possano cadere nel mondo designatario dell’unità».

«Poesia, singolare ascensione degli uomini, che il sole dei morti non può offuscare in un infinito perfetto e derisorio».

«Fare poesia è prendere possesso d’un aldilà nuziale che si trova ben dentro questa vita, ad essa strettamente congiunto, e tuttavia nella estrema vicinanza delle urne mortali».

«La vitalità del poeta non è una vitalità dell’aldilà ma un punto brillantato attuale di presenze trascendenti e di peregrinanti tempeste». 

«Avendo la poesia lo scopo di renderci sovrani spersonalizzandoci, noi attingiamo, grazie al poema, la pienezza di quanto era appena abbozzato o deformato dalle millanterie dell’individuo». 

«Il poeta, traducendo l’intenzione in atto ispirato, convertendo un ciclo di travagli in carico di resurrezione, costringe l’oasi del freddo a trapassare per ogni poro i vetri dello scoramento e crea il prisma, idra dello sforzo, del meraviglioso, del rigore e del diluvio, con le tue labbra per saggezza e il mio sangue come predella». 

«La poesia sarà un “canto della partenza”. Poesia e azione, vasi ostinatamente comunicanti. La poesia punta la freccia che implica l’arco azione…» 

La poesia è sfida alla morte. La poesia è ricerca d’un al di là nuziale (in cui cioè l’ego si coniuga, quindi abbatte la sua dimensione egoica, egocentrata, egoista, oltre le “millanterie dell’individuo”) che però non è la trascendenza allusa dalle religioni, il “mondo vero” di cui parla Nietzsche, ma si trova ben dentro questa vita, nella perfetta “fedeltà alla terra”. La poesia è canto della partenza. Da dove? Da quel luogo oscuro, da quell’abisso che Celan aveva esplorato, dalla luogo più desolato che noi oggi, inconsapevolmente, abitiamo. Ma non un canto d’addio, di rinunzia. Perché essa, la poesia, nutrirà l’azione, l’azione di trasformazione del mondo. Azione comune, vissuta nella condivisione tra uomini e donne in carne ed ossa. Vedete, non è casuale che Char usi l’immagine dell’arco. In lui rinasce, potremmo dire secondo l’auspicio di Heidegger, quel pensiero-poetante che già gli albori della Grecia avevano conosciuto. Arco e lira… Eraclito l’oscuro, carissimo a Char, che ne riprende altre cose: la scrittura evocativa che fonde quelle che noi convenzionalmente chiamiamo poesia e prosa ma anche l’idea epifanica della verità. Noi occidentale per attraversare la morte dobbiamo liberarci dal giogo platonico-cristiano, che la scienza moderna eredita (che tradisce il messaggio gesuano) del possesso stabile. Noi non siamo padroni e nulla che sia stabilmente è. Dobbiamo accettare l’evento, l’accadere che ci viene dato e che noi possiamo solo accogliere: «Una chiave sarà la mia dimora» dice Char. E ancora: «Se abitiamo un lampo, è il cuore dell’eterno». Noi, per dirla con Marco Guzzi, mio maestro (ai cui libri, L’uomo nascente e La profezia dei poeti devo molte suggestioni di questa serata), apparteniamo soltanto a un lampo che scaturisce ogni volta a monte di noi stessi, nel nostro Principio». Non ci sono possessi stabili: di verità, di certezze, come Platone sognava, i filosofi cristiani predicavano, i sacerdoti della tecnoscienza ripetono ogni giorno.

4. Il dominio tecnico della terra

E dove ha condotto questa “certezza”? Torniamo ad Heidegger. Nella conferenza da cui abbiamo preso le mosse scrive:

«La Natura è posta innanzi all’uomo dal rappresentare (cioè dal porre-innanzi) dell’uomo. L’uomo pone il mondo innanzi a sé come l’“oggettivo” nel suo insieme, e pone se stesso dinanzi la mondo. L’uomo pone il mondo alla propria mercé e dispone della Natura per sé […] L’uomo dispone la Natura affinché essa soddisfi alle sue rappresentazioni oggettive. L’uomo pone a propria disposizione, producendole, nuove cose che gli occorrono. L’uomo traspone le cose moleste. L’uomo si oppone alle cose quando ostacolano i suoi propositi. L’uomo espone le cose quando vuol promuoverne il commercio e il consumo […] L’uomo si pone di fronte al mondo come di fronte a un oggetto […]. L’uomo moderno si rivela tale da imporsi – in qualsiasi relazione a qualsiasi cosa, e, quindi, anche a se stesso – come il produttore incontrollato che ha organizzato la propria rivolta a dominio universale […] La Terra e la sua atmosfera divengono materie prime. L’uomo stesso diviene materiale umano, impiegato secondo piani prestabiliti […]. La scienza moderna e lo stato totalitario, in quanto conseguenze necessarie dell’essenza della tecnica, sono per ciò stesso fenomeni concomitanti. Lo stesso dicasi delle forme e dei mezzi escogitati per l’organizzazione dell’opinione pubblica mondiale e delle convinzioni quotidiane degli uomini».

5. Lo sguardo poetico del Nascente 

Se questa è la condizione desertificata non degli anni Venti ma dell’epoca ancora nostra ci sa per quanto, la poesia cosa ha da obiettare? Qual è la sua, e cito volutamente il Camus amico di Char, “rivolta”? In Non essendo che uomini Dylan Thomas dimostra quale sia la conquista della poesia. Il poeta conquista quello “sguardo sovrano” che, ossimoricamente, è – come nel re auspicato da Tao - sguardo bambino, capace di stupore di fronte al mondo lasciato essere ciò che è.
Nel tempo della povertà il poeta raggiunge l’abisso, attraversa la morte, avendone in dono lo sguardo (o l’ascolto) purificato, che lascia di nuovo essere alberi e animali ciò che sono, senza “oggettivarli” (cioè guardarli e trattarli come oggetti per la sua volontà di potenza). Il poeta è l’incarnazione di quella “grazia” per cui, nel mondo dominato dalla necessità e dalla forza, come insegna la Weil, entra il miracolo del dono e del perdono, dell’amore e della bellezza.

6. La “vera presenza” della poesia

Ma perché proprio la poesia ha questo ruolo assolutamente decisivo? Qual è la qua qualità specifica che rende possibile tale miracolo? Per arrivare alla nostra conclusione ci aiutano le parole dell’unico poeta vivente che citerò stasera, la cui opera, incredibilmente, è da pochi mesi disponibile in traduzione italiana. Si tratta di Yves Bonnefoy, raffinatissimo critico e amante della grande arte italiana. Ebbene, Bonnefoy ne La sfida occidentale della poesia afferma che il rischio continuo cui è esposto l’uomo - nel processo di concettualizzazione cui pure si deve la nascita della civiltà – è che le “cose” svaniscano.

«Nel momento in cui un aspetto è stato attinto da una cosa o da un essere, questi ultimi avevano una loro realtà in seno al mondo esistenziale […] Ecco cos’era la cosa da cui il concetto ha attinto un aspetto: una realtà che mai si ripeterà. Chiamerò questo modo di essere la presenza […] Il concetto […] non ha invece né inizio né fine, né spazio, e non sa nulla del caso, non ne godrà né lo patirà. Quella rosa è vicina al vecchio muro, mentre il concetto di rosa è in uno spazio mentale, costituito da relazioni ovviamente e totalmente pure quanto una formula algebrica. E da questa scissione tra concetto e presenza consegue che il discorso concettuale non potrà mai capire dall’interno quella realtà esistenziale che pure è la nostra».

La poesia, dunque, è rimembranza (termine non casualmente leopardiano ripreso da Bonnefoy) nel discorso della presenza stessa che quel discorso annulla. Ma come è possibile tale paradosso? Perché alla poesia è possibile, utilizzando gli stessi mattoni del discorso concettuale, cioè la parole, costruire un edificio radicalmente diverso? Perché nella poesia il suono, la dimensione sonora hanno una rilevanza decisiva. Normalmente l’aspetto sonoro, nell’uso quotidiano, ad esempio, si perde. Nella poesia no. Il suono garantisce la presenza (la “vera presenza”, lasciatemi citare il mio amato Steiner) della cosa.

«Basta sentire il suono, e la memoria della presenza ritorna alla mente, che si rivolge allora verso la suddetta cosa con uno sguardo nuovo[…]. Il suono della parola preserva nel linguaggio quella stessa realtà che il linguaggio dissolve […] È sufficiente che [la poesia] utilizzi le parole a partire dai suoni, e i concetti verranno messi in pericolo, la loro autorevolezza sarà indebolita […]. Contatto è ritrovato con la presenza. Ecco perché […] la presenza piena di un oggetto o di una persona, è la sfida […] della poesia in una società che se ne dimentica, che si vota a rappresentazioni».

Nella società dello spettacolo, nella società dei simulacri, la poesia della vera presenza è un atto insorgente, una rivolta permanente:

«Il poeta, conservatore degli infiniti volti di ciò che vive» (René Char).



(SINTESI DELL'INTERVENTO TENUTO IL 24 NOVEMBRE PRESSO LA FONDAZIONE GERARDINO ROMANO DI TELESE)

lunedì 13 settembre 2010

in forma di rosa



Venerdì 17
Teatro De Simone - Ore 18,00
Contemplazione della fiamma
Tributo a Giuseppina Luongo Bartolini
Proiezione di Ricordami della vita
Regia di Leonardo Cantone
“Humanitas” e ricerca dell’oltre:
intervento critico di Carlo Di Lieto
Interludi al sax di Antonio Mastrogiacomo

Sabato 18
Teatro De Simone - Ore 18,00
GIANNI D’ELIA: Trentennio
Introduce Alberico D’Auria

Domenica 19
Giardini del Teatro De Simone - Ore 20,30
Se sotto il sole
Niente fa paura
Intertesto interno dell’opera di Pier Paolo Pasolini
Voci recitanti: I Coribanti

Martedì 21
Teatro De Simone - Ore 18,30
BIANCAMARIA FRABOTTA
Quartetto per masse e voce sola
Frammenti per un’autobiografia poetica
Introduce Nicola Sguera

Mercoledì 22
Teatro De Simone - Ore 18,00

Sandro Pedicini poeta
Parole, immagini e musica con Jacopo Cerulo, Eudechio Feleppa e Ugo Simeone.

Venerdì 24
Teatro De Simone
Ore 17,00
La poesia “meridiana”
Giuseppe Iuliano e Paolo Saggese
Centro di documentazione sulla poesia del Sud

Ore 19,00
Riccardo Dalisi e la poesia dell’arte povera
Proiezione di Latta e caffè di Antonello Matarazzo
Intervento critico di Roberto Serino

Sabato 25
Libreria Luidig (Palazzo Collenea, Corso Garibaldi 95) - Ore 18
GABRIELE FRASCA:
Delle vane voci
Introduce Davide De Rei

Domenica 26
Teatro De Simone - Ore 18
la rosa necessaria:
L’arco e la lira
La poesia insorgente di René Char




Programma di Art’Empori per “Poesia in forma di rosa”

Lunedì, 20 settembre 2010 - Rione San Modesto - Benevento


Giornata in collaborazione con il Centro per disabili "E' più bello insieme".
In caso di pioggia, l'evento si svolgerà nella palestra della scuola elementare San Modesto, in via Firenze.

0re 16.00 - Piazza San Modesto
Una nuova strategia d'amore. Gli dei nascosero la poesia nel cuore: lì, nessuno l'avrebbe cercata. La trovarono i bambini, i poeti e i clown. Laboratorio a cura della Comunità RNCD Clown Dottori.

0re 20.00 - Piazza San Modesto
Pulp.it poetico - prima parte.
Lettura di poesie, proposte dai beneventani, dal "Pulp.it - Nodo di libero intervento civico e poetico".

0re 21.00 - Piazza San Modesto
"Il mondo salvato dai ragazzini". Evento multimediale realizzato da Alessandro Caporaso, Luigi Furno e Alessandro Paolo Lombardo (Art’Empori). Basato sul testo di Elsa Morante.


Giovedì, 23 settembre 2010 - Piazza Santa Sofia - Benevento 



Ore 18.00 -Teatro De Simone
Parol_incontr_azione
Dibattito pubblico sulle parole capaci di azione, sulle emozioni capaci di bene comune.

Prima parte

Presentazione del PoeCivismo e degli strumenti connessi
A cura degli esponenti di Art’Empori

- Manifesto del PoeCivismo. Movimento di autori e fruitori per un'arte capace di bene comune;

- Decalogo degli empori culturali.
Dieci propositi per una fruizione/gestione responsabile degli empori culturali (librerie, gallerie d'arte, ritrovi musicali, cinema, teatri);

- Decalogo delle iniziative culturali e ambientaliste.
Dieci norme per organizzare e frequentare responsabilmente fiere, festival, rassegne e convegni;

- Decalogo del giornalismo responsabile.
Dieci norme per scrivere e leggere responsabilmente l'informazione su giornali, TV e web;

- Poecivismo. Le pagine.
Il foglio di Art'Empori per un'arte capace di bene comune. Periodico di arti e di approfondimento;

- Poecivismo. I post.
Il blog di Art'Empori per una partecipazione all'arte come cittadinanza non delegata.

 Seconda parte

La responsabilità sociale dell'artista.
Interventi delle associazioni culturali e di volontariato

Art'Empori e Rete Arcobaleno su "Il verticismo emozionale nell'arte come linguaggio dell'omologazione nel sentire comune. L'esperienzialità in prima persona per un fruitore che diventa coautore di una cittadinanza non delegata. Un uso etico dell'arte per un mondo che si evolve più nelle emozioni quotidiane che nelle grandi rivoluzioni”, tramite Alessio Masone.

Art'Empori su "La rosa fiorisce senza un perché: la poesia, il (per)dono, lo sguardo del nascente", tramite Nicola Sguera. 

Comunità RNCD Clown Dottori su "Il clown è poesia fatta persona: uomo intero come superamento del dualismo", tramite Enzo Maddaloni. 

Città di Eufemia su "La poesia vince di mille secoli il silenzio: curare lo sguardo per riabitare il mondo", tramite Carmela Longo.

Città di Eufemia su "La scultura sociale di Joseph Beuys per una condivisione emozionale dell'arte", tramite Mario Festa.

Centro per disabili "E' più bello insieme" su La fragilità si protegge con la bellezza, non con la forza. Per una nuova strategia di inclusione sociale basata sulle emozioni etiche e non sulle leggi", tramite Angelo Moretti. 

Art'Empori su "Il linguaggio dell'arte come linguaggio dell'anima: suo valore terapeutico e trasformativo ", tramite Anna Tecce.
  
Ore 21.00 - piazza Santa Sofia
Pulp.it poetico - seconda parte.
Lettura di poesie, proposte dai beneventani, dal "Pulp.it - Nodo di libero intervento civico e poetico".




Pulp.it. Nodo di libero intervento civico e poetico.
Due scanni (pedane, podi) che, collocati nel rione San Modesto e in piazza Santa Sofia, in funzione dei due reading di poesia di Art'Empori, resterebbero stabilmente a uso di una cittadinanza che “prende parola", come traccia permanente del festival.



La sezione artemporiana del festival "Poesia in forma di rosa" è promossa dalle seguenti realtà associative:
- Art'Empori. Comunità dell'arte biodiversa;
- Rete Arcobaleno. Associazioni per un'economia solidale;
- Comunità RNCD Clown Dottori;
- Centro per disabili "E' più bello insieme";
- Città di Eufemia. Nodo di economia solidale;
- LIPU Benevento;
- Lerka Minerka. Associazione escursionistica;
- La Cinta Onlus. Associazione per il recupero della relazione uomo/animale;
- GAS Arcobaleno. Gruppo d'Acquisto Solidale
- Tandem21/Quinua. Consumo Critico e Commercio Equo e Solidale
- CAI Club Alpino Italiano. Sezione di Benevento;
- NO inceneritore a San Salvatore Telesino;
- A Guardia dell'ambiente.

mercoledì 19 maggio 2010

elogio di Mou


Il calcio reale e il calcio ideale

Conosco quasi tutte le possibili obiezioni e critiche a questa riflessione, e una parte la condivido. Il calcio è parte integrante del capitalismo contemporaneo, per certi versi ne è l’emblema, tra costruzione coatta dell’immaginario televisivo e stipendi miliardari. Immaginiamo per un attimo di parlare, però, del calcio al suo livello “ideale”, forma pura dello sport, sintesi di agonismo, gioco di squadra, talento individuale.  

Un giorno per caso… l’Inter 

Ho iniziato a tifare Inter per caso. Mio padre mi regalò un completino dell’Inter: maglia nerazzurra, calzoncini neri, calzettoni spessi di lana nerazzurri. Fu una grande emozione per me. Mio padre non amava il calcio e lo sport in genere. Non so neanche perché lo fece. In ogni caso, come spesso accade, segnò un destino. I miei primi ricordi da interista sono legati agli album Panini: Lido Vieri, Muraro, Pasinato, Oriali, Beccalossi… Ricordo molti pianti per eliminazioni dell’Inter in coppa. Essere interista ha significato patire per molti anni più che gioire, soffrire un apparentemente irrimediabile complesso di inferiorità rispetto al blasone della Juventus, alla sua forza serena, e poi alla grandezza del Milan berlusconiano. Anni grami. Interismo viene giustamente corretto, scrivendo in word, automaticamente in “isterismo”. Parole comunicanti per tanti, troppi anni, con l’unica parentesi della formidabile Inter di Trapattoni, l’Inter teutonica, con un immenso terzino sinistro (Brehme) e uno straordinario centrocampista universale, Lothar Mattheus, con il cui nome sulla schiena vorrei chiudere la mia lunga carriera di calciatore dilettante. Poi ancora buio, solo il raggio di sole della coppa Uefa vinta con la Lazio, l’indicibile amarezza del 5 maggio, dies alliensis, le lacrime di Ronaldo che erano di tutto un popolo tradito all’ultima curva. Poi accadde l’inatteso: scoprimmo con stupore, pur avendolo in fondo sempre saputo, che per molti anni il gioco era stato truccato da una cricca di delinquenti matricolati, i quali condizionavano le partite attraverso il capillare controllo dei designatori arbitrali e degli arbitri stessi. Vedemmo gli avversari di sempre nella polvere e nell’ignominia. Fu parziale risarcimento di tanto sangue amaro. Iniziò un’altra storia, che per me coincise (segno straordinario) con la nascita di mia figlia. Quella storia continua ancora: mia figlia cresce serena, l’Inter è diventata la squadra da battere del campionato italiano. Il merito di tutto ciò va alla società, ai tanti soldi del petroliere Moratti (c’è sicuramente un rapporto tra le vittorie dell’Inter di quest’anno e il costo della benzina, inutile negarlo), all’abilità di persone come Branca e Oriali, per anni considerati dei “pirla”, che hanno preso Cambiasso a parametro zero e Maicon prima che esplodesse, ad esempio, costruendo una squadra praticamente perfetta. Squadra guidata da un bravo tecnico, Roberto Mancini, che ci ha regalato tanto: due scudetti, soprattutto, ma incapace di assurgere a rango europeo. 

L’uomo di Setubal 

Con un colpo di scena tipico della sua gestione, Moratti lo scorso anno sostituì Mancini con Josè Mourinho, fascinoso allenatore portoghese, vincitore della Champions con il Porto, finalista con il Chelsea, con il quale aveva vinto due Premier League. Lo scorso anno l’uomo di Setubal allenò una squadra non costruita da lui, avendo fallito nell’innesto di due uomini nuovi (uno fortemente voluto e profumatamente pagato), Quaresma e Mancini, e sacrificando ad un nuovo modulo (4-3-3) il piazzamento nel girone di qualificazione della Champions. Vittoria tranquilla dello scudetto, amarezza per l’eliminazione con il Manchester di Cristiano Ronaldo. Quest’estate la rivoluzione: cinque nuovi giocatori acquistati anche grazie allo scambio proficuo con il Barcellona tra Ibrahimovic, demiurgo dell’Inter manciniana, ed Eto’o. Con i soldi di differenza tra i due, tanti, sono stati presi: Milito, Thiago Motta, Lucio, Snejider e, a gennaio, Pandev. Tutti innesti decisivi per l’Inter che avrebbe vinto Coppa Italia, scudetto e giocato la finale di Champions con il Bayern, dopo aver eliminato Chelsea e Barcellona, poi vincitrici di Premier e Liga spagnola. Mourinho è un alieno nel mondo del calcio. Voglio tesserne l’elogio prima della finale e della sua molto probabile partenza dall’Inter. Una volta ha dichiarato: «Chi capisce solo di calcio non capisce niente di calcio». Mi basta per definire l’anomalia di un personaggio in un mondo autoreferenziale, abitato da icone “ignoranti” e fiere della loro ignoranza. Il calcio italiano è Francesco Totti, la sua ruspante simpatia, immemore di libri, di poesia. Ebbene, Mourinho, contro questo stereotipo sia della visibilità mediatica che dell’ignoranza rivendicata quasi a mo’ di valore, ha affermato quasi con durezza un’altra immagine del calcio: duro lavoro, studio meticoloso, cultura. Si è presentato, lui già poliglotta, alla prima conferenza con uno spumeggiante italiano che farebbe invidia ad allenatori italianissimi e al loro vocabolario stitico. Ha coniato frasi entrate nell’immaginario di questi anni: da “zero tituli” a “prostituzione intellettuale”. Ha sempre provocato con intelligenza e raffinatezza i suoi avversari, senza mai essere volgare. Ha denunziato dei limiti evidenti del nostro calcio, soprattutto il suo legame con i potentati economici che lo rendono poco autonomo nei giudizi. Questo gli ha creato fama di grande comunicatore, facendo passare in secondo piano la sua abilità di allenatore, di psicologo, di preparatore atletico e di tattico. L’Inter è uscita rinata dalla cura Mourinho: è diventata squadra, prima di tutto, senza prime donne, capace di sacrificio. È stato emozionate vedere Eto’o, candidato al Pallone d’oro, Leone d’Africa, due volte vincitore della Champions, fare il terzino sinistro in alcune partite. Questo lo può ottenere solo chi viene seguito con assoluta fiducia dai suoi uomini. È paradossale, ma Mou è riuscito a trasformare venti campioni in una squadra fondata sul mutuo soccorso. E tutto questo è accaduto senza che mai si parlasse della sua vita privata. Tutto l’opposto di quanto accade nel calcio italiano. Per tutti questi motivi, al di là dell’esito di sabato – prima finale per intere generazioni di interisti come la mia – noi dobbiamo riconoscenza a quest’uomo. Non solo noi interisti, evidentemente, ma tutti coloro che in Italia amano il calcio. Coniugare lo sport con la cultura (chi citerà più Sartre in una sua polemica?), con modi fermi ma sempre civili è cosa rara in un paese sguaiato e plebeo come l’Italia, dove l’ignoranza viene spacciata per spontaneità. Mourinho, infine, nei modi in cui ha gestito il caso Balotelli, bambino viziato aspirante al ruolo di stella, ha data una grande lezione di pedagogia applicata a educatori e genitori. 
Il calcio italiano, da domenica, sarà più banale, più rozzo, più ignorante. Ci mancherà, mi mancherà.

lunedì 29 marzo 2010

rapide della tristezza (Celan)

Attraverso le rapide della tristezza,
sfiorando
il nudo specchio delle piaghe inferte:
lì si fanno fluitare i quaranta
tronchi di vita
scorticati.
Unica tu, nuoti
controcorrente, tu
li conti, li tocchi
tutti.

La tristezza è come un fiume che va verso le sue rapide e le sue cascate. Acqua. Noi siamo in queste rapide o le guardiamo dall’alto? E chi sfiora lo specchio delle piaghe? Le piaghe non possiamo vederle direttamente ma solo in uno specchio. È il fiume stesso questo specchio che permette di vedere le piaghe inferte? E sul corpo di chi? Ci sono quaranta “tronchi”, quaranta corpi scorticati nel “fiume” della mia tristezza. Io penso a quaranta corpi di uomini scorticati. E questo pensiero mi intristisce al punto che debbo contemplare le loro ferite nello specchio d’acqua e non direttamente. Ma tu, amica, anima mia, mistagoga, guida, tu, che non ti lasci trascinare dalla corrente della disperazione e della tristezza li conti e li tocchi, eserciti pietosamente la misericordia che si deve ai defunti. Non solo non distogli lo sguardo ma addirittura, oltre a guardarli nelle loro ferite, li carezzi, te ne prendi cura anche se essi sono oramai tronchi privi di vita, scorticati.

domenica 28 marzo 2010

a nord del futuro...


Nei fiumi a nord del futuro
io lancio la rete che tu
esitante aggravi
con ombre scritte
da pietre.


(Paul Celan, Atemwende, Svolta del respiro)

Lanciare la rete per cosa? Per catturare i pesci… I pesci sono simbolo di rinascita, di un’altra vita. Io, dunque, mi slancio nel futuro, più in là però di quello prossimo, a nord del futuro. È un futuro eonico non cronologico. Ma tu esiti, tu non sei con me in questo slancio, non condividi la necessità di uno sguardo che osi l’oltranza, l’utopia, la profezia. Io, dunque, sono solo. La condizione del poeta/profeta è la solitudine. Tu parli, e le tue parole sono oscure, minacciose, prive di luce, ombre prive di vita, pesanti, contro la grazia che sarebbe necessaria a slanciarci nel futuro remoto per catturare il pesce guizzante della rinascita, della vita nuova.
Ivan Illich amava molto questa poesia. Campeggia come epigrafe di una serie di interviste uscite postume (I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Verbarium - Quodlibet). Scrive il curatore nell’introduzione: «Il futuro, essendo un idolo, divora quell’unico momento in cui il cielo s’incontra con noi: il presente. L’aspettativa cerca di forzare il domani; la speranza dilata il presente e prepara un futuro, a nord del futuro». È ciò che, nel Meridiano, è chiamato U-topia? Quindi questo testo partecipa di quella “ricerca topologica” le cui cartine esistono solo in sogno, in un sogno.

sabato 27 marzo 2010

roso da sogni (Paul Celan)



Roso da sogni
non compiuti, per tracce
insonni percorso, il paese del pane
fa montare
il monte della vita.
Tu dalla sua briciola impasti
i nostri nomi un’altra volta, 
io li vado tastando – ad ogni dito
un occhio che il tuo somiglia -,
e cerco un varco
perché a forza di veglie
io possa giungere a te, in bocca
l’asta chiara: la candela
della mia fame.

(Paul Celan, da Atemwende, Svolta del respiro)

Certezza che queste poesie dicano cose molto importanti, geroglifici da decifrare, sostitutivo, unico possibile di preghiere non più pronunciabili. 
Ci sono sogni non compiuti che “rodono”, scavano dentro l’anima. E se si compissero smetterebbero di angosciare? Ci sono tracce che vanno seguite, sacrificando alla ricerca il sonno. Esse conducono al paese del pane che sorge sul monte della vita. Basta una briciola di quel pane, di quel nutrimento per impastare di nuovo – come Dio fece con il fango per Adamo – i nostri nomi. Chi è il tu di questa poesia? È forse quel Dio così risolutamente negato, il Dio che sorge dal Nulla? I nostri nomi vengono impastati un’altra volta, di nuovo. E continua la queste di un varco che consenta di giungere, vincendo ancora una volta il sonno, quel “tu” evocato, invocato, portando nella bocca un asta, una lancia non più assassina ma luminosa, una candela che testimonia la fame di pane, la fame di vita…