venerdì 13 maggio 2011

ancora sulla poesia (in forma di rosa). Un'intervista


C’è chi, come Neruda, la ritiene un “atto di pace”, chi la definisce “ostile più della prosa e della matematica” e poi c’è Alfred de Vigny che la identifica addirittura come “una malattia del cervello”; Baudelaire la riteneva necessaria per l’uomo più del cibo e qualcuno la descriveva come “l’algebra superiore delle metafore”.
Uno, nessuno e centomila: a seconda dello sguardo rivolto verso di lei (o del tutto a lei lontano), la Poesia viene considerata nelle accezioni più varie e, spesso, inaspettate. Forse è proprio questo che la rende incantata, metamorfica ed impenetrabile. Alberga bene tra le mura di Benevento, a cui sembra legata da un file rouge che tiene strette arte e magia da sempre: le streghe e le loro segrete ricette di unguenti scritti su fogli antichi, Niccolò Franco e la sua irriverenza,  l’abate Filippo De Martino con i suoi versi che parlano di incantesimi…Nicola Sguera, professore di storia e filosofia e grande appassionato della poesia, così ne parla: “La poesia è sempre canto e incanto, ha sempre un rapporto con la “fascinazione”, così come ha rapporti con l’alchimia. Più in generale io credo che nella poesia sopravviva una visione alternativa del mondo (rispetto a quella dominante tecnica, economicista, utilitarista) che potrebbe schiudere modalità di esperienza e di vita completamente diverse da quelle attuali, distruttive delle relazioni tra uomini e tra uomo e natura. La poesia non è solo un linguaggio “altro” ma è anche una potente visione “altra” del reale”.

Conclusasi da poco la sua rassegna “Poesia in forma di rosa”, [Nicola Sguera] ci racconta il perché dell’iniziativa e la reazione del pubblico beneventano.

«Benevento non ha una tradizione poetica o un poeta che ne connoti la storia in maniera indelebile (come accade ad altre città di “provincia”, penso a Saba per Trieste, per fare un esempio). Ma dare un luogo e un tempo alla poesia è segno di civiltà, quand’anche ad ascoltare la lingua non utilitaria né compromessa con la chiacchiera della poesia fossero due o tre persone riunite nel suo nome. Ho trovato, durante la rassegna, un pubblico estremamente consapevole, capace di un raccoglimento e di un’attenzione straordinari. Ci sono stati momenti della manifestazione in cui davvero il clima era di rispetto quasi sacrale per le parole, spesso nude, che si ascoltavano. Il problema è cercare di ampliare questa cerchia di appassionati, raggiungere soprattutto un pubblico giovane».

Durante un incontro con uno degli autori, si è parlato dei diversi “ruoli” che la poesia può svolgere. Avendo chiesto, quindi, al mio interlocutore se della “rosa poetica” preferisce il profumo e il colore dei petali che danno benessere agli animi e accarezzano l’edonismo o le spine dello stelo che smuovono le coscienze e denudano la realtà, risponde:

«È segno di decadenza di una civiltà che la sua poesia scinda questi due aspetti: la poesia deve essere sempre in sommo grado bellezza, capace non di dare “sensazioni” gradevoli ma di scuotere, e verità, sguardo appuntito sul reale, pur essendo gravido di utopia e speranza. Il mio intento è stato quello di tenere insieme queste due componenti, diffidando sia di una poesia che vuole attingere alla bellezza “pura” e disincarnata (la linea che parte da Mallarmé per intenderci) sia di una poesia che sacrifica all’“impegno” la sua sfida formale, spesso venendo arruolata nello scontro ideologico (gran parte della poesia novecentesca ha corso questo rischio)».

Interessante è anche il modo in cui parla del rapporto dei giovani con la poesia:

«I ragazzi leggono moltissima poesia, sin dall’infanzia. Finita la scuola, la poesia diventa un’estranea. Perché? Probabilmente perché si insegna male, soprattutto da quando la pratica strutturalistica (la famigerata analisi del testo) ha invaso le scuole, quando anche i suoi padri fondatori come Todorov ne hanno riconosciuto i limiti se non le aberrazioni. Quindi, in primis, bisognerebbe trattare la poesia come cosa viva, che riguarda la nostra vita e non come cosa morta, da vivisezionare a mo’ di cadavere. E poi bisognerebbe educare i ragazzi alla lettura della poesia del proprio tempo. Ma per farlo, forse, gli stessi docenti avrebbero bisogno di conoscere questa poesia, quella scritta, cioè, a partire dagli anni Cinquanta in Italia e nel mondo. Quanti docenti di lettere leggono abitualmente Zanzotto, Giudici, Raboni, Magrelli, Walcott o Harrison?».

Sui poeti emergenti di Benevento ci suggerisce un nome:

«Francesca Moccia, una poetessa già notata da grandi nomi come Cucchi e Santagostini, personaggio che sembra riproporre la figura del poeta visionario. Scrive versi potenti, sembra davvero (a proposito di streghe!) un’ispirata. Invito tutti a leggerne i versi».

La poesia salva la vita: Sguera è molto affezionato a questa frase di Donatella Bisutti, poetessa che spera di riuscire ad avere come ospite nel caso avrà seguito “Poesia in forma di rosa”:

«Per me la poesia è stata salvezza nel senso più profondo: salus (che tiene in sé anche l’idea della salute spirituale). Ma voglio bilanciarla con un verso straordinario di uno straordinario poeta di cui in questi giorni esce l’opera completa in Italia, Yves Bonnefoy: «La parola non salva, talvolta sogna». Fosse anche questa la funzione della poesia, preservare, in una civiltà utilitaristica, retta dal solo “principio di realtà”, la funzione benefica del sogno (dell’utopia!), essa sarebbe necessaria».

Insomma, ritorniamo all’eterna definizione della poesia come “rosa necessaria”.

Una poesia...

«Tra le moltissime che accompagnano i miei giorni te ne suggerisco una pochissimo nota di Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, padre del ben più famoso Andrej, limmenso regista di Solaris e Stalker, che tiene insieme l’amore per la parola (preservata dalla corruzione) e l’amore custodente (non panico in senso dannunziano, degenere) per la natura. La strofa finale è meravigliosa»: 

Imparavo dall’erba

Imparavo dall’erba, aprendo il quaderno,
e l’erba come un flauto prendeva a suonare.
La consonanza coglievo del colore e del suono
e quando la libellula il suo inno intonò,
passando tra i verdi accordi, simile a una cometa,
compresi che ogni stilla di rugiada è una lacrima.
Compresi che in ogni faccetta del suo grande occhio,
in ogni iride dello smagliante stridio dell’ali
dimora l’ardente parola del profeta
e, miracolo, svelai il segreto di Adamo.

Ho amato il mio tormentoso lavoro, la costruzione
di parole consolidate dalla loro stessa luce, l’enigma
di sentimenti confusi e la semplice soluzione
della ragione, nella parola verità mi appariva
la verità in persona, la mia lingua era viva
come l’analisi spettrale, le parole
si prostravano intorno ai miei piedi.

Dirò di più: tu che ascolti hai ragione,
io sentivo un quarto di suono, vedevo in penombra,
ma non umiliai né uomini né erbe,
non offesi con l’indifferenza la terra avita;
mentre sulla terra lavoravo, accogliendo
il dono dell’acqua gelida e del pane fragrante,
su di me il cielo infinito indugiava,
sulle mie maniche cadevano stelle.

(L'intervista, a cura di Emi Martignetti, è apparsa su «BMagazine» nel maggio 2011.
La foto è di Alessandro Caporaso)


lunedì 14 febbraio 2011

ove annunzio i danni di D'Annunzio


Un giorno (ero al Giannone) andai a fare sostituzione nel Ginnasio… Avevo deciso di far ascoltare un po’ di musica… Conobbi un allievo: assomigliava a John Lennon, capigliatura anni Sessanta. Intelligente. Alla fine gli profetizzai che sarebbe divenuto rappresentante d’Istituto. È accaduto quest’anno. Ne sono stato felice. Gli ho prestato tutto il mio archivio musicale, ho interloquito con lui sui massimi sistemi: libertà, giustizia sociale, comunismo… Un giorno, in rete, scopro che sta maturando una passione insana per Gabriele D’Annunzio. Rivado con la memoria a sei anni fa. Allora ero al Rummo. Avevo un allievo brillante, vorace lettore, impegnato attivamente in un piccolo partito di estrema sinistra, di ispirazione marxista-leninista. Passai tutto l’anno del suo esame di Stato a battagliare per convincerlo che Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot non erano eroi, ma artefici di efferati crimini o di giganteschi errori equiparabili a crimini. La peculiarità del mio giovane alunno, anch’egli rappresentante “incendiario” di Istituto, era la passione per Gabriele D’Annunzio. Ora milita ne La Destra di Storace, dopo aver velocemente percorso un piano inclinato che, dal PD a SEL, lo ha condotto all’estremo opposto da cui era partito. Nel corso dell’anno trascorso insieme io gli ripetevo che, al di là di ciò che professava, la sua ideologia profonda, dannunziana, superomistica, era “ontologicamente” di destra. Ho avuto ragione. La sovrastruttura si è adeguata alla struttura. Ora può professare il suo dannunzianesimo senza patire contraddizioni.
Una decina di anni fa intervistai Stefano Zecchi, venuto a Benevento. Era stato allievo di Ernst Bloch, uno dei maggiori pensatori comunisti del XX secolo. Mi stupì dicendomi che bisognava rileggere D’Annunzio. Di lì a poco sarebbe diventato intellettuale organico al berlusconismo, con le sue comparsate televisive.
Amo la poesia. È uno dei motivi per cui la vita val la pena di essere vissuta. La amo da quando iniziai ad essere me stesso, più o meno alla stessa età del giovane di cui ho parlato all’inizio. Grazie a Dio, non ho mai avuto tentazioni dannunziane.
Io detesto D’Annunzio, lo considero l’incarnazione di una parte dei vizi italiani. Per parafrasare De Sanctis su Guicciardini, l’uomo del D’Annunzio è un borghese che si ammanta di preziose vesti aristocratiche e, conquistato il pulpito con una retorica tanto aulica quanto povera di veri contenuti universali, si scaglia contro le masse, legittimando ogni sfruttamento nei loro confronti. Privo di qualunque talento filosofico, il Vate (ma su Facebook preferisco chiamarlo Poeta-Water), incapace di capire la radicalità del messaggio di Friedrich Nietzsche, lo appiattì sul un becero antidemocraticismo (che manifestò soprattutto nei suoi romanzi come Le vergini delle rocce o Il fuoco). Con la sua retorica incendiaria, fu tra i responsabili dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale (che invano Giolitti cercò di scongiurare, appoggiato dal mondo cattolico e dai socialisti italiani). Tutti i mali italiani successivi vengono da lì. Dopo aver progettato una marcia su Roma, occupò Fiume, sperimentando rituali e contenuti ideologici che saranno travasati nel fascismo, di cui è vero precursore, con la sua miscela di nazionalismo e eroismo militaresco.
Modello di vita dedita al piacere e al “bel gesto” eroico, anche dal punto di vista etico mi appare detestabile. Ben altri i modelli che cerco di offrire ai miei alunni di vite “eroiche”: Gobetti, tra i suoi coetanei, i fratelli Rosselli, Ernesto Buonaiuti.
Il poeta, infine. D’Annunzio scrive bene, rubando qui e lì. Penna felice, penna superficiale, che resta, appunto alla superficie della realtà. Tranne in qualche raro frammento in prosa e, forse, nell’ultimissima poesia, non riesce neanche a capire quanto nulla si celi dietro l’esaltazione panica del mondo… Un vitalismo fine a se stesso, espansione di un ego ipertrofico, senza amore, senza carità. Si può essere “vitalisti” cogliendo la profondità del reale: Walt Withman in America lo aveva insegnato ad un’intera generazione di giovani, coniugando l’amore per la vita e per la natura ad una profonda visione democratica della politica (“O capitano, mio capitano” la scrisse per la morte di Lincoln).
In conclusione: se fossi Ministro dell’Istruzione cancellerei D’Annunzio dai programmi scolastici, esercitando una sana forma di censura nei confronti di un modello deteriore dal punto di vista (nell’ordine) spirituale, etico, politico ed estetico.
E all’alunno di cui ho parlato all’inizio dico: non si possono servire due padroni. Se credi nella libertà di tutti, nella giustizia sociale, in un mondo migliore, abbandona il tuo dannunzianesimo e ad altri maestri, ben più rigorosi e coerenti, ben più nobili, dedica il tuo prezioso tempo di adolescente in cammino.

(Pubblicato nel 2011)

venerdì 11 febbraio 2011

Giornata del Ricordo (2011)


Il 10 febbraio, in base ad una legge del governo Berlusconi del 2004, è stato definito “giorno del ricordo dell’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia e delle Foibe”. Sono stati promotori di questa legge ministri e parlamentari notoriamente fascisti del governo Berlusconi (ricordiamo tra i tanti il ministro ex repubblichino Tremaglia e gli squadristi degli anni ’70: La Russa, Alemanno, Gasparri e Storace). Assistiamo, ormai da qualche anno, ad una vasta operazione propagandistica e di menzogne che parla delle foibe come una strage indiscriminata di civili italiani avvenuta nel ’45 nel territorio della Venezia Giulia ad opera dei comunisti jugoslavi. Al di là delle sudice menzogne di giornali e TV del regime berlusconiano, la cosiddetta “strage” delle foibe altro non è stata che la giusta punizione di elementi che avevano, a vario modo, operato al servizio di SS e fascisti. I “martiri” delle foibe, che oggi il governo vuole farci onorare, erano per la quasi totalità collaborazionisti dei nazifascisti, macchiatisi dei peggiori crimini e atrocità durante la guerra e durante il ventennio, e per questo giustiziati da formazioni partigiane o dalle masse popolari stesse». 
Queste sono le parole farneticanti reperite senza grossa difficoltà su un sito (Napoli Indymedia.org) di una sinistra non estrema ma estremista e infantile, incapace di leggere, se non altro, i risultati della storiografia più seria su una questione complicatissima come quella dei confini orientali dell’Italia, storia di lungo periodo, all’interno della quale si colloca la questione che viene simboleggiata dalle foibe, sinistro simbolo di una “pulizia etnica” attuata dalle milizie titine in maniera feroce, producendo, secondo le stime più recenti, ma passibili di revisione, tra le dieci e le dodicimila vittime.
L’ottima voce Wikipedia (strumento che a differenza di molti colleghi trovi prezioso e quasi sempre di buon livello) segnala una sorta di “negazionismo” di sinistra rispetto alla questione, di cui le parole che ho letto sono adeguata testimonianza.
La negazione o la sottovalutazione delle foibe sono un dato storiograficamente innegabile. Per motivi diversissimi le maggiori forze politiche italiane del dopoguerra (la DC, a partire dagli anni Cinquanta, il PCI da subito) hanno nel migliore dei casi glissato sull’atroce destino delle migliaia di italiani uccisi barbaramente o costretti all’esodo dalle proprie terre.
Nel 1993, su iniziativa dei Ministri degli Esteri di Italia e Slovenia, fu istituita una Commissione mista di ricerca, i cui lavori sono stati resi pubblici nel 2001. Ad essa hanno partecipato storici e intellettuali che hanno dedicato tutta la loro ricerca alla spinosa questione dei confini orientali: Fulvio Tomizza, Raoul Pupo, Marina Cattaruzza. L’obiettivo era quello di «costruire una memoria storica condivisa dopo un secolo di tragiche contrapposizioni».
La relazione innesta la questione delle foibe nella storia di lungo periodo della zona di confine orientale, sottolineando l’emergere graduale nell’Ottocento degli opposti nazionalismi (dopo la pacifica convivenza sotto Venezia e sotto l’Austria). Vengono, poi, minuziosamente elencate le colpe del fascismo, accusato di aver cercato di «snazionalizzare» le minoranze slovene e croate presenti nella Venezia Giulia «con una politica repressiva assai brutale», il cui intento finale era quello «di arrivare alla bonifica etnica» della regione. Ma altrettanto severo è il giudizio sulle violenze compiute, dopo l’8 settembre 1943 e la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia, dai partigiani comunisti di Tito ai danni degli italiani: si parla di «molte migliaia di arresti», si quantificano «in centinaia» le persone che trovarono la morte nelle foibe (soltanto per quanto riguarda la Slovenia, Croazia esclusa), si ricordano «le deportazioni di un gran numero di militari e civili nelle carceri e nei campi di prigionia creati in Jugoslavia». E si ammette, per la prima volta da parte slovena, che quella dei partigiani titini fu una «violenza di Stato». Viene, inoltre, ricostruito l’esodo degli italiani dall’Istria nel dopoguerra, «oppressi da un regime di natura totalitaria che impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale». Ho utilizzato la sintesi di Francesco Alberti del documento apparsa nel 2001 sul «Corriere della Sera».
Ma perché questa giornata non è entrate nel sentire collettivo, come invece accaduto per l’altra commemorazione, la giornata della memoria, istituita nel 2000? Perché oggi il maggior quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», non dedica alcuno spazio alla vicenda? E, ancora, perché, allora, la questione delle foibe e il giorno del ricordo accendono gli animi? Perché oggi pomeriggio si svolgerà una fiaccolata qui a Benevento e in molte parti d’Italia per ricordare quella vicenda? Perché le foibe sono state e sono “utilizzate” politicamente. Sia chiaro: l’uso politico della memoria è una prassi molto diffusa nella storia italiana. Basti pensare – per rimanere ad una questione molto attuale alla tendenziosa ricostruzione del Risorgimento utilizzata, a partire dall’Unità d’Italia per “costruire” un popolo italiano. E, dunque, non possiamo ignorare che la questione delle foibe è stata per lunghissimo tempo l’arma polemica della destra italiana, destra ancora neofascista e poi postfascista, contro una presunta egemonia culturale della sinistra. Basti leggere il dossier di Silvia Ferretto Clementi per Alleanza Nazionale. Anche in questo caso, però, come nelle farneticazioni lette poc’anzi, siamo di fronte ad una negazione profonda di un aspetto che, invece, la commissione mista ha rimarcato: le violenze e i soprusi compiuti dal fascismo nel ventennio che precede le foibe… Se non si ricordano quelle violenze c’è il rischio di dividere i morti in morti di serie A e morti di seri B… Questo non significa “giustificare” le violenze slave. Lo dico a scanso di equivoci. Significa fare uno sforzo di comprensione di un fenomeno complesso. Sine ira et studio. 
Mi si permetta un parallelo tratto dalla mia esperienza di docente. Ebbene, nel corso del mio triennio di storia, dedico sempre un’attenzione privilegiato alla questione ebraica. Spiego ai miei ragazzi, dunque, che l’antisemitismo è già presente, in nuce, in alcuni passi evangelici, e che poi si diffonde come un virus nell’Occidente cristianizzato. I pogrom non sono un fenomeno moderno ma già medievale. Seguendo l’evoluzione dell’antisemitismo faccio presente come i primi ghetti nascano in Italia, tra Venezia e Roma… Perché? Per mostra che la Shoah non è un fungo velenoso che spunta dalla mente malata di Adolf Hitler, ma il prodotto di una storia millenaria… Non sminuisce l’orrore del nazismo e dell’Olocausto, ma aiuta a comprenderlo.
Nel 2008 uno grandissimo scrittore triestino, Boris Pahor, ora quasi centenario (sottolineo: scrittore italiano della minoranza slovena di Trieste), divenuto, oramai vecchio, celebre per una grande capolavoro, Necropoli (che ne descriveva l’esperienza di reclusione in un campo di concentramento) e candidato al Nobel, ebbene nel 2008 scatenò una durissima polemica nei confronti di Giorgio Napolitano che, (cito) «ricorda solo le barbarie commesse dagli sloveni alla fine della Seconda guerra mondiale, ma non cita le precedenti atrocità dell’Italia fascista contro di noi». Sul «Corriere della Sera» del 27 aprile 2008 il grande scrittore bosniaco Predrag Matvejević rincarava la dose, scrivendo: «Le foibe sono un crimine grave […] Ma per la dignità del dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’“infoibamento”. E citava un discorso di Mussolini del 1920 a Pola: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». E, dunque, diceva Matvejević, sarebbe opportuno che si celebrasse non il “giorno del ricordo” ma il “giorno dei ricordi”. Ma già un altro grande scrittore mitteleuropeo, uno dei maggiori italiani viventi, Claudio Magris, sempre su «Corriere della Sera», nel 2005 aveva stigmatizzato il “chiasso” intorno alle foibe, che a quanto pare anche nella nostra piccola città si vuol creare intorno alla vicenda, impedendo quel religioso e pietoso raccoglimento in onore dei morti che sarebbe doveroso. Magris sottolineava la viltà di tanta sinistra italiana rispetto alla vicenda, che fece «dimenticare il dramma dell’esodo istriano, fiumano e dalmata e gli eccidi delle foibe», ma anche «la cecità e il regressivo abuso dell’estrema destra, che coltivava il ricordo di quelle tragedie e di quei crimini non tanto per ricordare le vittime e condannare i precisi colpevoli e complici, bensì per rinfocolare inumani e generici rancori razzisti antislavi». E aggiungeva: «Il bestiale odio antiitaliano che si è espresso nelle foibe non è certo giustificato dal bestiale odio antislavo che si era scatenato a lungo su persone colpevoli solo di essere slave». E chiudeva con durezza. «Se fino a pochi anni fa parlare delle foibe non serviva alla lotta politica, oggi quei morti servono, e se ne parla, ma come strumento… Che oggi la destra al potere, erede di quella colpevole della nostra catastrofe nella Seconda guerra mondiale e della mutilazione dell’Istria, usi le foibe per difendere il proprio potere è una bestemmia». Una bestemmia, scrive Magris, e aggiunge: «becera empietà».
La mia preoccupazione di docente è che i giovani, privi spesso di metodo, abbandonati ai flussi indistinti della Rete, prezioso farmaco ma anche potente veleno, non riescano a cogliere le dinamiche che spesso si nascondono dietro la ricostruzione della storia. Per questo li metto oggi in guardia. E dico loro: NON ESISTE UNA STORIA OGGETTIVA. Nietzsche ci ha insegnato che non esistono fatti ma solo interpretazioni, e che tali interpretazioni cambiano nel tempo. E questo è legittimo. Sta accadendo, per esempio, in questi anni rispetto alla percezione che abbiamo del nostro Risorgimento, soprattutto nel Sud Italia. Dopo anni di “mitizzazione” e di rimozione, si scopre che ci fu anche una violenza inaudita nel processo di unificazione, non si rimuovono più i fatti Pontelandolfo e Casalduni, ad esempio, si scopre che il brigantaggio fu anche protesta sociale. La stessa cosa accadde nel 1989 rispetto alla rivoluzione francese… O grazie agli studi di Renzo De Felice accadde, negli anni Novanta, rispetto al fascismo. I testi storici, soprattutto quelli scolastici, vanno continuamente rivisti e aggiornati. Esiste, voglio dire, un “revisionismo” buono, giusto, anzi direi doveroso. Ma è altrettanto doveroso rigettare, in nome di una moralità senza compromessi e del rigore storico stesso, qualunque forma di “negazionismo” (di destra e di sinistra), qualunque semplificazione dei processi storici che vuole vedere solo un corno del dilemma, obliando il resto, e soprattutto va rigettato con forza l’uso politico della memoria, anche quando assume, come sta accadendo a Benevento in questi giorni, forme nostalgiche e patetiche.
«La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento». Così ha scritto René Char, poeta tra i maggiori del Novecento, leader della Resistenza francese. Cosa significa? Che noi ereditiamo il passato attraverso un faticoso lavoro. Le “tradizioni” si sono tutte infrante. La memoria e le eredità sono un compito, non un dono. Oggi ricordiamo, ereditiamo… Ma l’eredità deve essere spesa, deve essere utilizzata. In prospettiva. Non esiste scelta del passato che non sia ipso facto scelta di un futuro possibile. E quale futuro vogliamo costruire, commemorando pietosamente gli eccidi del confine orientale? UN FUTURO SENZA NAZIONALISMI. Perché da quel male è nato l’orrore, parte corposa dell’orrore del “secolo breve”. Educo i miei allievi a pensare gli Stati nazionali, le “Patrie”, piccole o grandi, come configurazioni storiche non organismi naturali ed eterni. Il maggior filosofo contemporaneo, il francese Edgar Morin, da anni invita a lavorare per l’emergenza di una società-mondo, per la nascita di un uomo planetario, attualizzando un’antica utopia kantiana ed illuministica. Il compito storico affidato alla nostra generazione, e in particolare agli educatori, e con questo auspicio chiudo il mio intervento, è «portare a compimento l’Umanità come comunità planetaria». I morti, tutti i morti a causa dei nazionalismi novecenteschi, sono viva testimonianza di questa urgenza storica.
* Pronunziato in occasione della Giornata del Ricordo (10 febbraio 2011) nella Sala Vergineo del Museo del Sannio, a cura della Consulta Studentesca di Benevento.