1.
Schizofrenia?
Una cara collega, un
po’ di tempo fa, dopo che avevo letto in pubblico un frammento tratto da L’ora di lezione. Per un’erotica
dell’insegnamento di Massimo Recalcati, mi disse che ero “schizofrenico”.
In quel passo si prendeva di mira la “scuola delle competenze” in nome di una
scuola che non “misura” ma fa “innamorare” del sapere. Perché “schizofrenico”?
Perché nel Liceo Giannone rivesto da tre anni il ruolo di responsabile del
Piano dell’Offerta Formativa e, col supporto della Dirigente e la
collaborazione di tutti i colleghi, ho avviato il faticoso transito della
nostra scuola (che ha aderito al progetto “Vales”) dalle “conoscenze” alle
“competenze”, anche per ottemperare a quanto sollecitato dai valutatori
esterni. Dunque, la collega ha ragione? E come posso giustificare questa doppiezza? Sono un “(dis)onesto
dissimulatore” che, nella notte poetica, esalta l’eros come fondamento della paideia,
e nella luce diurna della scuola capitalistica
lavora per la costruzione di “competenze” spendibili nel mercato?
2.
Per un’erotica
dell’insegnamento
La lettura del libro
di Recalcati ha accompagnato i mesi di avvio di questo nuovo anno scolastico. È
un libro prezioso: tutti i docenti dovrebbero leggerlo. Insegna, prima di
tutto, che non esistono «viti storte», che anche l’alunno più riottoso, se
adeguatamente motivato, può cambiare, che anche un bambino bocciato in seconda
elementare e poi di nuovo in un Istituto Agrario può diventare un plurilaureato
e riverito psicoanalista, come l’autore del libro. Se... accade un incontro!
Con una persona fisica, in carne ed ossa, un insegnante che non ha paura di
essere anche un educatore. Nel caso di Recalcati, una docente di italiano delle
superiori che lo “innamorò”, attraverso un complesso processo di transfert, delle lettura, dei libri, del
sapere. Il modello archetipico di questo educatore è, ovviamente, Socrate. E la
condicio sine qua non di un vero
processo educativo è che non si voglia trasmettere un sapere dato (da un pieno
a un vuoto), ma che l’educatore, socraticamente, riconosca il proprio non
sapere (meglio: che il sapere può sempre progredire, che la ricerca non avrà
mai fine) e cerchi, dunque, non di “trasmettere” ma di creare nell’allievo un
vuoto, una faglia, un desiderio... Riprendendo l’antica distinzione della
pederastia greca fra eromenos ed erastès, Recalcati invita l’educatore a
far diventare l’eromenos erastès, l’amato amante. Solo il
desiderio di sapere costruisce un vero sapere:
«Se c’è qualcosa che
resta della Scuola nell’epoca della sua evaporazione indisciplinare, è il
rapporto del soggetto col sapere che la funzione dell’insegnante deve essere in
grado di animare. La partita della Scuola continua nonostante tutto a giocarsi
essenzialmente a questo livello. Esiste la possibilità di introdurre il
soggetto in un rapporto vitale col sapere? Esiste ancora la possibilità di
lavorare attorno agli oggetti del sapere tenendo conto del rapporto che hanno con
la vita di chi li deve assimilare? Ancora più radicalmente: ciò che resta della
Scuola non è forse la possibilità, ogni volta nuova, di trasformare gli oggetti
del sapere in oggetti del desiderio, in corpi erotici? Non è in questo che
consiste, in ultima istanza, la posta in gioco di tutta la partita
dell’insegnamento? La Scuola non dovrebbe avere questo come suo proprio
compito? Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, un
oggetto erotizzato capace di funzionare come causa del desiderio, in grado di
spostare, attirare verso, mettere in movimento l’allievo. Non è questa la
funzione agalmatica che con Lacan dobbiamo riconoscere a un sapere che si
rivela erotico, cioè capace di mobilitare il desiderio di sapere? Non è forse
la competenza che rende possibile tutte le altre? Se non si anima il desiderio
di sapere, non c’è alcuna possibilità di apprendere in modo singolare il sapere
che viene trasmesso».
3.
Lettera aperta sulla
questione delle “competenze”
All’inizio del 2014,
ho indirizzato ai colleghi del Giannone una lettera aperta in cui ragionavo
sulla questione delle “competenze”, ipotizzando una “terza via” tra l’adesione
acritica e il rifiuto aprioristico. Scrivevo:
«Lo scorso mese nella
nostra scuola due esperti del progetto VALES
hanno fatto uno screening (mi
adeguo al linguaggio dei colleghi valutatori!) dell’intero Liceo. Io, come
altri colleghi, ho dovuto rispondere ad una batteria di domande, dalle quali è
emerso il “ritardo” (attenzione alle virgolette!) della nostra scuola rispetto
alle attese europee (che risalgono almeno agli anni Novanta, al Libro Bianco di Delors). Per questo ci
sarà prospettato a breve un “piano di miglioramento”.
Ho cercato, durante le
vacanze, di elaborare il senso di disagio che avevo provato, simile a quello
degli anni liceali durante “l’interrogazione di chimica” (ero un pessimo
alunno, confesso, nelle discipline scientifiche!). Grazie anche alla lettura
del fascicolo monografico di «Aut-Aut» della primavera 2013 dedicato
all’argomento, ho capito che la questione non può essere posta solo nei termini
di innovazione (buona) vs. conservazione (cattiva). Ho utilizzato, dunque, come
strumento per decifrare quanto andavo elaborando, l’idea di “paradigma”. La scuola italiana, e più in generale
europea, sta vivendo una fase di conflitto fra due modelli, due ipotesi, due
possibilità. Una privilegia la trasmissione dei contenuti disciplinari,
l’altra la costruzione di competenze in un’ottica multidisciplinare. Ovviamente
semplifico per intenderci. Il rischio è che, però, la scuola delle “competenze”
costruisca un tipo di allievo poco propenso all’elaborazione critica, educato
al problem solving come approccio
complessivo alla realtà, “obbediente” a forme di verifica molto semplici
(stimolo/risposta), che annullino l’elaborazione, la riflessione che necessita
spesso di tempi lunghi:
“La trivializzazione
della cultura è avvenuta sotto la specie della sottocultura aziendalistica. Con
il suo lessico falsamente oggettivo, essa ha avuto lo scopo di riempire i
margini del linguaggio e di colmare le beanze della nostra realtà sociale e
culturale, di saturare con un troppo di senso l’essenziale spazio del
non-senso. Densificare la realtà è un antidoto all’angoscia: lo scopo manifesto
dell’odierno programma ideologico è che la scuola debba mutare radicalmente il
suo senso, da comunità autonoma a struttura
soggetta a eteronomia. Così, da apprendistato alla critica, essa deve
diventare portatrice di un senso prodotto altrove, da acquisizione dell’arte
del disgiungere per ricomporre a un saper-ricomporre mediante pacchetti
preformati da maneggiare secondo regole imposte. La retorica delle competenze –
di cui è ammantato il più recente discorso pedagogico – nasce da qui, da questa
esigenza presupposta e inindagata – pertanto metafisica – che è funzionale allo
scopo di otturare quei vuoti di senso che, d’altronde, è lo stesso
tardo-capitalismo a produrre” (Raoul Kirchmayr, La dittatura del programma).
A mio avviso è
possibile una “terza via” che
permetta di cogliere il buono di questa innovazione, accettata dai più
acriticamente, come un dogma, rifiutandone l’implicita dimensione tecnocratica.
Io ritengo sia possibile declinare il nuovo paradigma delle competenze in
maniera critica, facendone lo strumento per plasmare quelle che Morin definiva,
nel suo celebre, aureo libriccino, “teste ben fatte”. [...]
Individuato il
“nemico” (la scuola al servizio della tecnica, dell’economia, una scuola
eteronoma, privata della sua peculiare ed autonoma elaborazione del senso, che
sostanzialmente consiste, per evocare Gardner,
nell’educare al vero, al giusto e al bello), possiamo limitarci a giustapporre
strategie entrambe “critiche” ma totalmente disomogenee? Io credo di no. Omaggio
quanti svolgono magnificamente il proprio lavoro all’interno del vecchio
paradigma (discipline “a canne d’organo”, autoreferenzialità disciplinare), ma io mi pronunzio risolutamente per
un’innovazione che ponga però con rigore
il problema di un sapere critico. Per semplificare al massimo: sì ad una scuola delle competenze ma solo a
patto che esse siano strumento di esercizio critico, di pensiero libero, di
consapevolezza civica.
Dal mio punto di vista
l’accettazione di una scuola delle competenze significa ripensare radicalmente
il nostro modo di lavorare in classe e fuori di essa, il rapporto fra di noi,
il rapporto con gli studenti. La sfida è elaborare il profilo in uscita degli
studenti del Liceo Giannone e, rispetto ad esso, ridefinire le pratiche
didattiche e gli strumenti di lavoro, abbandonando la pratica mortifera dei
“programmi” e della lezione meramente trasmissiva. La sfida, però, e vorrei
essere chiaro su questo, ben sapendo di muovermi su un terreno minato, è
avviare pratiche reali di programmazione comune, in base, appunto alle
competenze da costruire nei ragazzi, ben sapendo quanto questo sia difficile.
Care colleghe, cari
colleghi, questa è la sfida che abbiamo davanti. Quello che chiedo, umilmente, in primis a me stesso, è: lo vogliamo fare? O, ancora una volta,
le carte dovranno camuffare pratiche antiche che si perpetuano? Siamo in grado
di abbandonare la nostra autoreferenzialità o vogliamo continuare ad essere imperatores nelle nostre ore di lezione,
senza dar conto del lavoro che stiamo facendo sulla testa, unica, unitaria, dei nostri alunni? Questo non li condanna ad una
sorta di “schizofrenia”, rispetto a modelli così diversi di pratiche
didattiche?
Per quanto mi
riguarda, proprio insegnare in un Liceo Classico, dove l’inutile, la dépense, per dirla con Bataille, è il cuore stesso, la ragion
d’essere della scuola, mi rafforza nelle mie convinzioni. Dobbiamo, dunque,
custodire questa splendida “anomalia” ma accettando la sfida di un’innovazione
nelle pratiche didattiche e relazionali, rivendicare, per citare il fortunato
libro di Ordine, “l’utilità
dell’inutile”, ma ponendoci all’altezza del tempo. Rimodulare, per parafrasare
un pensatore ospite del nostro Liceo alcuni anni fa, Franco Cassano, la tradizione in forma rivoluzionaria. Allora,
forse, lo “sguardo” sul mondo, irrimediabilmente non asservibile alla ragione
economica e strumentale della filosofia greca o medievale, della poesia di ogni
tempo, dell’indagine scientifica finalizzata al taumazein e non al dominio, della matematica come conoscenza di un
ordine ideale, della lingua come incontro possibile con l’altro potranno
contribuire a plasmare uomini e donne che abitano consapevolmente e
criticamente il proprio tempo, agenti della trasformazione e non meri esecutori
o consumatori passivi di merci le più varie (e avariate)».
4.
Tentativo di sintesi
La scuola italiana è in un momento di grande
sofferenza. Assisteremo in questi mesi all’ennesimo tentativo di “grande
riforma” calata dall’alto, i cui esiti non possiamo prevedere. Sicuramente i
Licei Classici, in un tempo dominato dalla razionalità tecnico-scientifica,
vivono in maniera ancor più drammatica questa crisi, che si manifesta prima di
tutto con perdita di iscritti e domande di senso (perché il latino, il greco,
la filosofia ecc.?). A me pare che si debba avere la capacità, coniugando
sguardo lungo e realismo, di tenere insieme le due proposte di cui ho discusso
sopra: da una parte, potremmo dire, la “passione” socratica ed erotica di un
insegnamento che mira ad accendere “fuochi” e non a riempire vasi, dall’altra
la capacità (anche tecnica) di saper organizzare nuove metodologie didattiche,
nuovi spazi, nuove forme organizzative della scuola. Se letta in maniera
originale (e non funzionale a logiche mercatiste), la questione delle
competenze può portare ad innovare didattiche che appaiono irrimediabilmente
datate. E non si tratta, come alcuni potrebbero credere, di utilizzare supporti
tecnologici e di trasformare i docenti in web-master, quanto piuttosto di
capire che la trasformazione tecnologica in atto inevitabilmente modifica anche
le strutture percettive e le modalità di apprendimento dei ragazzi, dei
cosiddetti “nativi digitali” (come ben illustrato da Paolo Ferri nei suoi
fondamentali lavori). Il docente dei prossimi anni dovrà avere una missione
“socratica” utilizzando gli strumenti (soprattutto mentali) del XXI secolo. La
sua missione non dovrà essere subordinata alla “costruzione” di lavoratori
delle società post-industriali quanto piuttosto di “teste ben fatte”, capaci di
pensiero critico, e cittadini attivi. Solo attraverso la conversione radicale
delle didattiche, nella direzione della partecipazione attiva degli studenti,
si potrà ottenere questo obiettivo. E da questo punto di vista la “scuola delle
competenze” può essere uno sprone. Tutto sta a vivere questa transizione, anche
correndo il rischio della schizofrenia, non “subendola” ma cavalcandola e
indirizzandola verso l’iperuranio della paideia
integrale, utilizzando sapientemente il cavallo bianco dell’eros.
Bibliografia
«Aut-Aut». La scuola impossibile, n. 358,
maggio-giugno 2013.
P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, 2011.
M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica
dell’insegnamento, Einaudi, 2014.
(Apparso su «Le api ingegnose» del 2014)
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