venerdì 13 maggio 2011

ancora sulla poesia (in forma di rosa). Un'intervista


C’è chi, come Neruda, la ritiene un “atto di pace”, chi la definisce “ostile più della prosa e della matematica” e poi c’è Alfred de Vigny che la identifica addirittura come “una malattia del cervello”; Baudelaire la riteneva necessaria per l’uomo più del cibo e qualcuno la descriveva come “l’algebra superiore delle metafore”.
Uno, nessuno e centomila: a seconda dello sguardo rivolto verso di lei (o del tutto a lei lontano), la Poesia viene considerata nelle accezioni più varie e, spesso, inaspettate. Forse è proprio questo che la rende incantata, metamorfica ed impenetrabile. Alberga bene tra le mura di Benevento, a cui sembra legata da un file rouge che tiene strette arte e magia da sempre: le streghe e le loro segrete ricette di unguenti scritti su fogli antichi, Niccolò Franco e la sua irriverenza,  l’abate Filippo De Martino con i suoi versi che parlano di incantesimi…Nicola Sguera, professore di storia e filosofia e grande appassionato della poesia, così ne parla: “La poesia è sempre canto e incanto, ha sempre un rapporto con la “fascinazione”, così come ha rapporti con l’alchimia. Più in generale io credo che nella poesia sopravviva una visione alternativa del mondo (rispetto a quella dominante tecnica, economicista, utilitarista) che potrebbe schiudere modalità di esperienza e di vita completamente diverse da quelle attuali, distruttive delle relazioni tra uomini e tra uomo e natura. La poesia non è solo un linguaggio “altro” ma è anche una potente visione “altra” del reale”.

Conclusasi da poco la sua rassegna “Poesia in forma di rosa”, [Nicola Sguera] ci racconta il perché dell’iniziativa e la reazione del pubblico beneventano.

«Benevento non ha una tradizione poetica o un poeta che ne connoti la storia in maniera indelebile (come accade ad altre città di “provincia”, penso a Saba per Trieste, per fare un esempio). Ma dare un luogo e un tempo alla poesia è segno di civiltà, quand’anche ad ascoltare la lingua non utilitaria né compromessa con la chiacchiera della poesia fossero due o tre persone riunite nel suo nome. Ho trovato, durante la rassegna, un pubblico estremamente consapevole, capace di un raccoglimento e di un’attenzione straordinari. Ci sono stati momenti della manifestazione in cui davvero il clima era di rispetto quasi sacrale per le parole, spesso nude, che si ascoltavano. Il problema è cercare di ampliare questa cerchia di appassionati, raggiungere soprattutto un pubblico giovane».

Durante un incontro con uno degli autori, si è parlato dei diversi “ruoli” che la poesia può svolgere. Avendo chiesto, quindi, al mio interlocutore se della “rosa poetica” preferisce il profumo e il colore dei petali che danno benessere agli animi e accarezzano l’edonismo o le spine dello stelo che smuovono le coscienze e denudano la realtà, risponde:

«È segno di decadenza di una civiltà che la sua poesia scinda questi due aspetti: la poesia deve essere sempre in sommo grado bellezza, capace non di dare “sensazioni” gradevoli ma di scuotere, e verità, sguardo appuntito sul reale, pur essendo gravido di utopia e speranza. Il mio intento è stato quello di tenere insieme queste due componenti, diffidando sia di una poesia che vuole attingere alla bellezza “pura” e disincarnata (la linea che parte da Mallarmé per intenderci) sia di una poesia che sacrifica all’“impegno” la sua sfida formale, spesso venendo arruolata nello scontro ideologico (gran parte della poesia novecentesca ha corso questo rischio)».

Interessante è anche il modo in cui parla del rapporto dei giovani con la poesia:

«I ragazzi leggono moltissima poesia, sin dall’infanzia. Finita la scuola, la poesia diventa un’estranea. Perché? Probabilmente perché si insegna male, soprattutto da quando la pratica strutturalistica (la famigerata analisi del testo) ha invaso le scuole, quando anche i suoi padri fondatori come Todorov ne hanno riconosciuto i limiti se non le aberrazioni. Quindi, in primis, bisognerebbe trattare la poesia come cosa viva, che riguarda la nostra vita e non come cosa morta, da vivisezionare a mo’ di cadavere. E poi bisognerebbe educare i ragazzi alla lettura della poesia del proprio tempo. Ma per farlo, forse, gli stessi docenti avrebbero bisogno di conoscere questa poesia, quella scritta, cioè, a partire dagli anni Cinquanta in Italia e nel mondo. Quanti docenti di lettere leggono abitualmente Zanzotto, Giudici, Raboni, Magrelli, Walcott o Harrison?».

Sui poeti emergenti di Benevento ci suggerisce un nome:

«Francesca Moccia, una poetessa già notata da grandi nomi come Cucchi e Santagostini, personaggio che sembra riproporre la figura del poeta visionario. Scrive versi potenti, sembra davvero (a proposito di streghe!) un’ispirata. Invito tutti a leggerne i versi».

La poesia salva la vita: Sguera è molto affezionato a questa frase di Donatella Bisutti, poetessa che spera di riuscire ad avere come ospite nel caso avrà seguito “Poesia in forma di rosa”:

«Per me la poesia è stata salvezza nel senso più profondo: salus (che tiene in sé anche l’idea della salute spirituale). Ma voglio bilanciarla con un verso straordinario di uno straordinario poeta di cui in questi giorni esce l’opera completa in Italia, Yves Bonnefoy: «La parola non salva, talvolta sogna». Fosse anche questa la funzione della poesia, preservare, in una civiltà utilitaristica, retta dal solo “principio di realtà”, la funzione benefica del sogno (dell’utopia!), essa sarebbe necessaria».

Insomma, ritorniamo all’eterna definizione della poesia come “rosa necessaria”.

Una poesia...

«Tra le moltissime che accompagnano i miei giorni te ne suggerisco una pochissimo nota di Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, padre del ben più famoso Andrej, limmenso regista di Solaris e Stalker, che tiene insieme l’amore per la parola (preservata dalla corruzione) e l’amore custodente (non panico in senso dannunziano, degenere) per la natura. La strofa finale è meravigliosa»: 

Imparavo dall’erba

Imparavo dall’erba, aprendo il quaderno,
e l’erba come un flauto prendeva a suonare.
La consonanza coglievo del colore e del suono
e quando la libellula il suo inno intonò,
passando tra i verdi accordi, simile a una cometa,
compresi che ogni stilla di rugiada è una lacrima.
Compresi che in ogni faccetta del suo grande occhio,
in ogni iride dello smagliante stridio dell’ali
dimora l’ardente parola del profeta
e, miracolo, svelai il segreto di Adamo.

Ho amato il mio tormentoso lavoro, la costruzione
di parole consolidate dalla loro stessa luce, l’enigma
di sentimenti confusi e la semplice soluzione
della ragione, nella parola verità mi appariva
la verità in persona, la mia lingua era viva
come l’analisi spettrale, le parole
si prostravano intorno ai miei piedi.

Dirò di più: tu che ascolti hai ragione,
io sentivo un quarto di suono, vedevo in penombra,
ma non umiliai né uomini né erbe,
non offesi con l’indifferenza la terra avita;
mentre sulla terra lavoravo, accogliendo
il dono dell’acqua gelida e del pane fragrante,
su di me il cielo infinito indugiava,
sulle mie maniche cadevano stelle.

(L'intervista, a cura di Emi Martignetti, è apparsa su «BMagazine» nel maggio 2011.
La foto è di Alessandro Caporaso)