Mi ha colpito che per
la preparazione del concorso [quello del
2000] si siano utilizzati testi scritti quindici, venti anni fa. Dieci anni
fa, quando ero alla facoltà di Lettere della Sapienza, circolavano per gli
esami di letteratura contemporanea i testi di Paul de Man, capofila del decostruzionismo
americano. Oggi, nel nuovo millennio, devo ritrovarmi il ciarpame prodotto
da menti sterili? Come direbbe il professor Keating, facendo strappare l’orrida
introduzione all’antologia letteraria dei suoi alunni in Dead poet’s society (L’attimo
fuggente di Peter Weir), «strutturalisti
e semiologi, andate con Dio». In ogni caso ho lavorato (ho dovuto lavorare!)
per acquisire tali strumenti, sapendo però che sono strumenti, utili come
altri, ma che se diventano fine
(questo è ciò che accade) degenerano. L’analisi o diventa uno sterile esercizio
di abilità o un divertente gioco. In ogni caso viene eluso l’incontro reale (nel senso steineriano),
che presuppone un “mettersi in gioco” radicale: «Sono il poeta, il compositore,
il pittore, sono il pensatore religioso e metafisico, quando danno ai loro
riscontri la persuasività della forma, a insegnarci che siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione.
Ci parlano del peso irriducibile dell’alterità e della clausura inerenti alla
materia e alla fenomenalità del mondo fisico» (G. Steiner, Vere presenze, p. 137). I poeti (e gli scrittori in genere, quelli
veri, non, dico, un Umberto Eco), vogliono essere presi sul serio, perché hanno
investito la vita nella propria opera. È
casuale che alcuni grandissimi scrittori siano impazziti? Non è vero che hanno
messo in moto forze psichiche che normalmente restano assopite? Allora, via
anche dalle scuole l’idea della letteratura come lusus, senza spirito totalitario. La poesia è un luogo rivelativo della verità, ma della verità non
come dato di cui potersi impadronire (a questo si avvicina invece l’idea di
un’analisi “rigorosa”, scientifica), bensì della verità come evento, che
presuppone un rapporto vivo nel gruppo-classe tra il maestro e gli allievi. E
prima di tutto, mi sia consentito, la verità della poesia (la promessa della
verità) è nella rottura del ritmo ordinario, “prosaico”. Ho conosciuto
pochissimi professori che sapessero leggere poesia. Io credo (e questo, per
fortuna, l’ho visto sottolineato nel documento sui Saperi di base) che la poesia debba essere prima di tutto eseguita come una partitura musicale. In
questo prima il docente deve essere bravo e poi deve saper spingere il suo
gruppo a seguirlo. Solo in questo modo il “significante” (!!!) diventa
significativo. Gli antichi ben conoscevano l’importanza di quello che Dante
chiama nel De vulgari «legame musaico».
La dissoluzione novecentesca del verso non ci autorizza a trascurare
quest’aspetto (così come la dodecafonia non è la fine della musica o
l’astrattismo della pittura). Dischiude un altro mondo. Ma a questo dobbiamo
educare: ad essere buoni lettori in un mondo in cui non esiste più un “canone”
(malgrado l’eroico tentativo di Harold
Bloom).
Tutto
questo presuppone un amore vitale per la letteratura (continuo a chiamarla così
per comodità) che spesso manca in chi dovrebbe trasmettere. La mia unica
ambizione è creare liberi lettori,
persone che fanno della lettura uno strumento di orientamento nelle proprie
vite, non eruditi o bibliofili. Anche una certa anarchia nella lettura, dunque,
come quella prospettata da Daniel Pennac
in Come un romanzo, può essere
strumento inizialmente utile. Sicuramente una didattica democratica deve
educare alla pluralità delle possibili interpretazioni senza cadere nella
deriva ermeneutica (Derrida e i decostruzionisti).
Marco Guzzi è un
poeta tra i maggiori di questi anni (anche se immagino, come tutti i poeti
italiani al di sotto dei settant’anni, conosciuto da pochissimi). Nel mio
percorso l’incontro con lui è stato senz’altro decisivo: ha avviato una
riflessione tuttora in atto. In particolare mi ha educato ad una nuova capacità
di ascolto di un pensiero poetante che abbia come fine la vita “antropocosmica”,
in una prospettiva davvero “olistica” (d’altronde «Olis» si chiamava la rivista
da lui diretta per un anno). Credo che in esperienze intellettuali e spirituali
come le sue stia nascendo qualcosa di nuovo in una cultura per lo più
putrescente. Concludo questa voce con le sue parole: «Il nostro pensare,
dunque, il nostro conoscere è creativo, e la gioia, come mistero spesso velato della nostra vita, suo
interiorissimo segreto, si manifesta in noi proprio come creatività libera,
come poeticità, se lasciamo
risuonare questa parola come non risuona da millenni, o forse, più
precisamente, come mai ha potuto risuonare finora.
L’uomo è l’essere che crea.
L’essenza dell’uomo è poetica.
L’uomo è l’essere che canta
la fioritura sempre nuova del creato.
L’uomo
è il cantore che cantando crea, procrea, e che conoscendo produce ciò che
conosce, come il musicista conosce la propria musica solo creandola, e la può
creare solo se la conosce, secondo una modalità però intuitivo-auditiva della conoscenza, che è essenzialmente ascolto poetico. Conoscere è creare, ma
questa conoscenza produttiva (Char) è in realtà un filtrare luce-vita-verità
nel più perfetto e puro ascolto, e cioè in un atteggiamento di ricezione. Non
c’è una libertà d’arbitrio nella conoscenza creatrice; ma una libertà d’amore,
che si realizza in un rapporto stringente, ma non costringente, con la sorgente
dei doni. La creatività di cui parlo non è arbitraria, è la modernità che a
volte si è illusa che l’uomo potesse creare dal nulla o a proprio piacimento.
L’uomo al contrario può creare soltanto in una grande fedeltà di ascolto,
proprio come l’atto poetico ci insegna» (2000).
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