domenica 22 aprile 2012

«spinto oltre...»



Malgrado l’impegno preso in una Benevento surreale e innevata, che cioè nessun giorno trascorresse senza che appuntassi qualcosa su queste pagine virtuali, su questo “diario in pubblico”, sono trascorsi tanti giorni “sine linea”… Ma, in realtà, ho scritto tanto, troppo, anche se altrove, e fatto tante cose proficue. 
Come promemoria per futuro: settimanalmente Emilio Fabozzi, sotto minaccia di frusta, pretende un pezzo per il blog che ospita su «BMagazine», e sono intervenuto su varie questioni in cui sono direttamente coinvolto. A ciò si aggiunge la rinnovata passione per il disegno (disciplina nella quale non ho alcun talento, sia chiaro, ma che mi dona immensa felicità) dopo circa trent’anni in cui avevo deposto matite, pennini e pennelli… Per cui sto producendo un “volto” a settimana che, generosamente, Billy Nuzzolillo pubblica su «Sanniopress». Stiamo continuando la bella esperienza della Libera Scuola di Filosofia del Sannio, con Amerigo Ciervo e Giancristiano Desiderio. Con Antonio Furno, Alfredo Pinto e Aaron Visaggio abbiamo lanciato BN.ComiX – Per il fumetto nel Sannio. Ho partecipato all’ottimo “Paradoxa” organizzato da Guido Bianchini e Yuri Di Gioia. A ciò si aggiungono due impegni quotidiani: aiutare mia moglie per completare il suo percorso universitario e rivedere i miei scritti saggistici in vista di… qualcosa! Ci avviamo anche alla fine dell’anno scolastico, con maggio che è il mese più complicato sia per gli alunni che per noi docenti. In attesa di notizie sul mio futuro scolastico? Dove insegnerò l’anno prossimo? Resterò allo Scientifico, dove sono stato benissimo, quasi riposandomi in questi due anni? Tornerò a quella che per motivi familiari e biografici considero “la mia scuola”, cioè il Giannone, il Liceo Classico? E questo quanto inciderà sulla mia quotidianità? 
La revisione dei miei scritti mi ha costretto a rileggere delle pagine certo non dimenticate ma come sopite nella mia coscienza. Ad esempio, quelle folgoranti di Hammarskjöld. In una passo scrive: «Preoccuparsi del proprio benessere… E venire ricompensati da un barlume di soddisfazione, seguito da un lungo vuoto, imbarazzante e risucchiante». La mia vita, essendo io gemelli (duale in maniera strutturale, senza possibilità alcuna di sintesi), ed essendo figlio di due genitori che erano opposti ma non complementari, ha sempre oscillato fra una mistica del “sacrificio” (che ritorna in tutti i personaggi che amo, diversissimi tra loro: da Leonida a Bonhoeffer agli ultimi film di Tarkovskij) e l’estasi della felicità. Le due cose non sono compatibili in assoluto. L’unica possibilità per me, all’interno della coordinate immodificabili tracciate dalla mia infanzia, all’interno dell’ambiente datomi della mia famiglia e della civiltà in cui sono cresciuto (con un peso determinante di modelli “cristiani”, a partire da mia nonna), di “dare senso” alla mia esistenza è sottomettermi ad una “legge”, talvolta dura, vivendo con sofferenza la tensione tra desiderio e obbedienza. So che ogni qual volta mi abbandono al lato dionisiaco della mia personalità esso manifesta tratti oscuri e (auto)dissolutivi. È come se il solido divenisse liquido, informe. Per citare ancora Hammarskjöld: «Non puoi giocare con la bestia che è in te senza divenire tutto bestia». In questo "paradigma" esistenziale, la felicità può solo accadere per grazia, giammai essere ricercata: è dono gratuito, appunto.
Negli ultimi sei anni della mia vita, l’obbedienza ha preso il volto di mia figlia. Ho vissuto organizzando ogni aspetto della mia vita in sua funzione. Contestualmente non c’è stata una maturazione “coniugale” (mi piacerebbe che qualcuno cogliesse la venatura chariana di quest’aggettivo, sempre associata alla “tensione” eraclitea). È come se io e Rosaria avessimo strutturato un rapporto di “soli ad sola” con nostra figlia. Negli ultimi anni della mia vita, dunque, io sono stato essenzialmente un “padre”, tra infinite contraddizioni, pieno di incertezze e domande, ma facendo ciò che un padre deve fare: decidere, scegliere, senza rete, senza nessun padre alle spalle. In questi anni, soprattutto per scelta di Rosaria, e ancor più che negli anni precedenti, il nostro nido si è chiuso quasi ermeticamente, come sanno bene molti dei miei amici. Quel tempo, lo percepisco, è finito. Continuerò ad essere padre, ci mancherebbe. Continuerò, tra infiniti problemi, ad essere un “marito”. Ma qual è il “mandato” della stagione che si apre? Qual è l’obbedienza cui sottomettermi perché la mia vita non diventi liquida, non si dissipi in rivoli di piccoli piaceri senza senso, di piccole soddisfazioni quotidiane che, la sera, nel momento del redde rationem, dell’esame che mi faccio ad occhi aperti nel letto, lasciano solo sapore di cenere e bruciore di stomaco o il riso dello stolto? Non posso che cercare attimi di raccoglimento in cui ascoltare una voce che mi guidi o aprirmi alle voci degli uomini attraverso cui Dio spesso ci parla, se abbiamo affinato cuore e orecchi.

lunedì 2 aprile 2012

de corpore


Cerco invano nei diari e nei quaderni degli anni passati dati certi sul mio peso corporeo. Devo affidarmi a ricordi incerti. Sono sicuro di essermi sempre percepito “grasso”. Il confronto avveniva con i miei tre cugini, Nicola, Vincenzo, detto Vizzi, e Raffaele: tutti magrissimi e slanciati. Io ho sempre avuto una corporatura massiccia. Con molta sofferenza alle feste dissimulavo l’interesse per i panini e i dolci, per evitare i crudeli sarcasmi tipici dell’incoscienza infantile. Mi percepivo qual ero: brutto, sgraziato. Con una testa enorme, la pancia, le orecchie a sventola, i capelli ispidi. Caratteristiche che mi sono valse svariati soprannomi: Tripponzio (poi Trippillo, infine Tricchi) dalle mie sorelle, Dumbo e Ippogrifo da parte dei compagni. È stata dura. C’è una fase della vita in cui noi siamo il nostro corpo, ci aggrappiamo ad esso come unica possibile “forma” della nostra identità, in cui lo sguardo dell’altro ci dà certezza di ciò che siamo o non siamo. E, dunque, sono stato silenziosamente invidioso dei miei cugini e di tutti i maschi piacenti, belli, slanciati… Non riconduco, però, a questo la mia “diversità”, le mie scelte così stridenti rispetto all’ambiente in cui ero cresciuto, lo stile di vita così solitario, restio alle pratiche adolescenziali o tardoadolescenziali… Quando i miei cugini iniziarono a frequentare la “movida” beneventana (che allora si riduceva a Piazza Risorgimento, divisa in tribù), io continuai a rimanere da una parte attaccato a ciò che eravamo stati, ai nostri giochi campestri, dall’altra a slanciarmi verso letture e passioni atipiche. E, quindi, in qualche modo, il riconoscimento di me (fino ad allora intimamente connesso al corpo, all’aspetto esteriore), intraprese altri sentieri, ben diversi. Anche il legame stabile con quella che sarebbe divenuta mia moglie, apparentemente, chiuse la questione. Ero stato “riconosciuto” da un tu. In realtà, stavo, come spesso nella vita, eludendo il problema. Realisticamente, e torno all’inizio, negli anni Ottanta pesavo intorno ai novanta chili. Giocavo con una certa frequenza a calcetto e tennis, ma, dopo aver abbandonato (intorno al 1985) la pallavolo, non facevo attività fisica continuativa. Il primo shock serio legato al peso lo ebbi nel 1989, quando scoprii di aver quasi toccato i cento chili. Nel 1994 mi sottoposi a dieta ferrea in vista del matrimonio. Scesi di nuovo a novanta chili. Due mesi dopo il matrimonio avevo di nuovo superato i cento. Tutto inutile. Da allora sono riusciti a rimanere stabile su quel peso, fino al periodo terrificante della nascita di Caterina, quando, sbattuto tra Benevento, Roma e Firenze per risolvere i suoi problemi, credo di essere arrivato ai centodieci. È come ricordare un incubo, dove tutto si confonde. E i primi anni di vita di Caterina hanno coinciso con la fine di ogni attività sportiva e una fame nervosa, compulsiva, che lasciava presagire derive catastrofiche. Effettivamente, tre anni fa, con il corpo che lanciava allarmi di ogni tipo, ho scoperto di avere il diabete alimentare. Paura. Dieta rigorosa, attività fisica. Piccolo miracolo: sono sceso a 94 chili. Mi sono fermato per un anno. Ho tenuto la posizione. Quest’estate ho ripreso la dieta: ho perso altri otto chili e, soprattutto, iniziato una quasi quotidiana attività fisica che mi ha donato una forma fisica che, probabilmente, non ho mai sperimentato neanche ai tempi della Grippo e della pallavolo. Soprattutto, ho imparato a convivere con i dolori e gli acciacchi dell’età, senza sperare guarigione da medicine e terapie ma solo da una vita il più possibile sana, da un’alimentazione corretta e dall’attività fisica quotidiana. 
Era tanto che volevo scrivere del mio rapporto col corpo. Mi ha sempre colpito una frase di Nietzsche che dice: «C’è più verità nel corpo che in tutte le filosofie e le religioni della Terra». È bello sentire la forza delle gambe quando gioco a pallone con ragazzi che hanno meno della metà dei miei anni. Però ci sono dei grandi rischi, dai quali debbo imparare a guardarmi, e che probabilmente sono quelli tipici di molta presunta “salute” ginnica del nostro tempo. Il rischio di non percepire anche questo come un dono ma come il frutto della nostra volontà. Devo imparare, dunque, anche nel godimento gioioso del mio corpo l’“abbandono”. Io sono una creatura. E ogni dolore corporeo, ogni male, lo devo accettare come spia di questa creaturalità. Non sono il signore del mio corpo. E, dunque, grazie per la forza ma anche per la malattia o piccoli dolori. 
Intimamente connesso al discorso sul corpo è quello sulla sessualità. Non so se riuscirò mai a parlarne in questo “diario pubblico”: mi rendo conto che anch’esso è centrale nella totalità del mio essere, ma anche discorso impossibile da affrontare se non ellitticamente, per allusioni, evocazioni, per spostamenti simbolici. Eppure, se essermi riconciliato col mio corpo, per tanto tempo percepito come prigione d’uno spirito che voleva volare libero, è stata tappa decisiva, potrebbe non esserlo integrare anche quell’ombra che m’accompagna da sempre? Sanata la frattura fonda tra corpo e spirito, potrò non intraprendere un nuovo percorso di maturazione per sanare altre zone incompiute del mio essere?