giovedì 18 febbraio 2016

il fumetto come esperienza estetica per comprendere il mondo



Credo che non sarei mai giunto alla filosofia se non avessi letto, da giovane, alcuni albi di Devil o dell’Uomo Ragno, che mi posero i primi quesiti morali. Anche in questo caso, mi ritrovo a vivere, come sognai tanti anni fa, la dimensione del “frontaliere”, di colui che vive sul confine, abitando luoghi e spazi normalmente non comunicanti. Personalmente, dunque, quanto sta accadendo (accompagnato da una clamorosa fioritura di fumetterie in città, capaci di soddisfare tutti i gusti degli appassionati) lo considero l’approdo di un’intera parabola esistenziale. Nella stanza dove trascorrevo il mio tempo, durante l’infanzia, mia madre aveva usato gli scaffali per i suoi libri. Quando i fumetti della Corno che acquistavo nella edicola di Via Porta Rufina iniziarono a diventare tanti, quei libri furono, senza alcun disagio, da me spostati altrove, per lasciare posto all’Uomo Ragno, Thor, i Fantastici Quattro, Devil, Capitan America. Passavo le ore a rileggere quelle storie, soffermandomi sui disegni meravigliosi di Jack Kirby e John Buscema. Quello straordinario universo partorito per lo più dalla mente fervida di Stan Lee (sarà ricordato come un grande creatore del XX secolo) plasmò il mio immaginario. I super-eroi divennero i miei cavalieri, i modelli cui ispirarmi. Per restare all’immagine della mia stanza, diciamo che oggi, Miller e Moore trovano spazio accanto a Illich ed Heidegger. Li considero tutti nutrimento per la mia anima.
Il fumetto novecentesco, in particolare quello supereroistico, ha mostrato una capacità unica di mitopoiesi, molto più della letteratura e del cinema, a mio avviso, che avrebbe attinto a piene mani da quel patrimonio di “miti” contemporanei. Questo è accaduto, come accade ai miti, con una serie di costruzioni successive su un nucleo originario. Voglio dire che, lette oggi, molte delle storie che mi facevano fremere, appaiono infantili, ma il nucleo di senso su cui si reggevano è stato passibile di complicazione. Voglio fare l’esempio più clamoroso, a mio avviso, quello di Capitan America. Ebbene, questo personaggio che nasce, a partire dal costume, come celebrazione dell’America, quasi emblema di un imperialismo “saggio” («parcere subiectis et debellare superbos»), diviene nel tempo il simbolo non di ciò che l’America è ma di ciò che dovrebbe essere, del suo insaziabile anelito alla libertà (che anche un pensatore rivoluzionario come Toni Negri riconosce a fondamento della cultura americana). Non a caso nel conflitto fra eroi che nasce con la Civil War Cap si metterà a capo del gruppo di eroi che rifiuta di diventare governativa…
Quest’arte straordinaria ha prodotto tanti “oggetti” meravigliosi: quand’anche mi limitassi a scrivere solo i nomi degli artisti che ho amato occuperei molte pagine. Per citarne alcuni di varie scuole (per esempio quella italiana e quella argentina, quella francese): Hugo Pratt, Magnus, Dino Battaglia, Andre Pazienza, Alberto Breccia, Hector Oesterheld, Gimenez, Moebius (recentemente scomparso).
Come ha ben scritto Scott McCloud, autore di tre magnifici manuali a fumetti su come è costruito e su come si costruisce il fumetto, la storia di quest’arte è ancora tutta da esplorare ed è destinata a riservare molte soprese. Arte che sta dimostrando di poter adeguarsi in maniera brillante all’evoluzione tecnica, che sta trasformando tutti noi in fruitori (e produttori) sia di “pagine” digitali che cartacee…
Tra gli anni Ottanta e Novanta è avvenuta una vera rivoluzione nel linguaggio del fumetto. Diciamo che c’è stato il passaggio definitivo alla fase “adulta” (malgrado siano tanti i capolavori prodotti a partire dall’atto “ufficiale” di nascita, cioè la pubblicazione di Yellow Kid, secondo i più, avvenuta nel 1894). V per Vendetta di Moore e David Lloyd (1982-1985), il Batman di Miller (1986), di cui Antonio Furno ha parlato magistralmente e quasi in trance, Watchmen di Moore e Gibbons (1986-1987) hanno esplorato nuove possibilità espressive del medium, sia a livello visuale che testuale, con punte di altissima poesia, quesiti esistenziali, interrogativi politici.
Potrei continuare a scrivere per ore, intrecciando ricordi e considerazioni estetiche. Mi fermo qui, ben sapendo che c’è tutto un enorme campo del fumetto, quello che appassiona anche a Benevento la maggior parte dei giovani, con cui ho quasi nulla dimistichezza. Sto parlando dei manga giapponesi. Il mio auspicio è che la costituenda associazione, gli incontri che proporremo, le eventuali rassegne che riusciremo ad organizzare, diventino occasione di mutuo apprendimento. Quasi inevitabilmente io resterò visceralmente legato all’immaginario in cui mi sono plasmato da giovane, seppure arricchitosi via via di personaggi e tratti nuovi (come dimenticare la saga di Ken Parker di Berardi e Milazzo, ad esempio, o i primi numeri di Dylan Dog di Sclavi, o la grande stagione delle riviste d’autore come «L’Eternauta», «Orient Express», «Comic Art», «Corto Maltese»?). E, dunque, sono destinato, quasi inevitabilmente, anche per distorsione professionale e professorale, a “storicizzare” il fumetto e, un pochino, a fare il laudator temporis acti (Ah, il Conan di Buscema! Ah, il Nick Fury di Steranko!), ma mi impegno sin da ora ad aprirmi al nuovo in tutte le sue forme, sia quelle ipercolte che Antonio Furno ci racconta sia quelle “popolari” e dinamiche dei manga giapponesi.
Il fumetto, come scrive McCloud, ha potenzialità ancora poco comprese. Nella sua capacità unica di coniugare segno grafico e parola scritta, può diventare “il” medium per eccellenza del futuro. Non ci stiamo baloccando, dunque, incapaci di emanciparci dall’infanzia dorata, ma stiamo facendo autentiche esperienze estetiche che ci aiutano a capire noi stessi e il mondo.

(Apparso su «BMagazine» nell'aprile 2012)


Nessun commento: