giovedì 11 febbraio 2016

la villa comunale e il mondo



Quasi tutte le domeniche porto mia figlia Caterina a fare una passeggiata in Villa nel primo pomeriggio. Da quando ero piccolo, è rimasto fondamentalmente identico come luogo, ma negli ultimi anni è cambiato radicalmente come spazio di relazione.
Cammino attraverso lingue le più disparate, tra profumi dozzinali, capelli ossigenati, trucchi pesanti, improbabili accoppiamenti di capi d’abbigliamento. Una variopinta umanità si dà appuntamento sulle panchine… Donne di mezza età, reduci da faticosi scontri con i pannoloni dei nostri anziani, incompatibili con la riaffermazione moderna della famiglia “nucleare” e con i ritmi di lavoro, cercano svago, relax, fortuna. E «uomini innocenti dagli istinti un po’ bestiali cercano l’amore dentro i parchi…»: arzilli nonnetti in cerca di una seconda giovinezza dei sensi, emuli in sedicesimo del nostro amato Leader, «tecnicamente immortale», come disse il suo medico, e affetto da una sex addiction sempre più incontenibile, se inventa barzellette in cui perfino le mele hanno il sapore del frutto proibito…
Una parte di me, quella perbenista, condanna le une e gli altri, con un po’ di sdegno per le lupe cacciatrici fameliche di case e pensioni, e un po’ di compassione per dei rimbambiti che equivocano i motivi della loro appetibilità. Poi ricordo quello che dico ai miei alunni, spiegando loro cos’è la globalizzazione, evento epocale della fine del XX secolo: immense masse umane che si spostano lungo il globo, e il paragone che faccio spesso con le “grandi migrazioni” iniziate nel IV secolo dopo Cristo (e che, dimentichi della faticosa costruzione europea, ci ostiniamo a chiamare “invasioni barbariche). E allora, mi dico, è inevitabile che accada anche questo. E penso che Lampedusa è solo un’avvisaglia per qualcosa a cui non siamo ancora pronti culturalmente.
Edgar Morin, il maggior filosofo vivente, ripete spesso che compito dell’antropoetica del XXI secolo è preparare la cittadinanza terrestre (anticipata dal cosmopolitismo illuminista e dall’utopia kantiana della pace perpetua), resa possibile dall’economia globalizzata e dalla tecnologia. Questo, tra l’altro, è uno dei motivi per cui non ho esposto alcuna bandiera tricolore. Celebrare l’unità d’Italia mi è parsa battaglia di retroguardia. Anzi, credo che le incompiutezze italiane nella costruzione dello Stato nazionale possano ribaltarsi in una maggiore libertà nell’esperire la nuova identità terrestre cui siamo imperativamente chiamati.
La prossima volta che andrò in Villa cercherò di guardare con occhi diversi, curiosi e non carichi di italico pregiudizio. Mi ripeterò, a mo’ di mantra, con Terenzio: «Homo sum, nihil humani a me alienum», e cercherò, soprattutto, di spiegare a Caterina cosa significa. Ché lei si senta davvero cittadina del mondo, con solide radici nelle pietre antiche di Benevento.

(Apparso su «Bmagazine» nell'aprile 2011)

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