Quasi tutte le
domeniche porto mia figlia Caterina a fare una passeggiata in Villa nel primo
pomeriggio. Da quando ero piccolo, è rimasto fondamentalmente identico come
luogo, ma negli ultimi anni è cambiato radicalmente come spazio di relazione.
Cammino attraverso
lingue le più disparate, tra profumi dozzinali, capelli ossigenati, trucchi
pesanti, improbabili accoppiamenti di capi d’abbigliamento. Una variopinta
umanità si dà appuntamento sulle panchine… Donne di mezza età, reduci da
faticosi scontri con i pannoloni dei nostri anziani, incompatibili con la
riaffermazione moderna della famiglia “nucleare” e con i ritmi di lavoro,
cercano svago, relax, fortuna. E «uomini innocenti dagli istinti un po’
bestiali cercano l’amore dentro i parchi…»: arzilli nonnetti in cerca di
una seconda giovinezza dei sensi, emuli in sedicesimo del nostro amato Leader,
«tecnicamente immortale», come disse il suo medico, e affetto da una sex addiction sempre più incontenibile,
se inventa barzellette in cui perfino le mele hanno il sapore del frutto
proibito…
Una parte di me,
quella perbenista, condanna le une e gli altri, con un po’ di sdegno per le
lupe cacciatrici fameliche di case e pensioni, e un po’ di compassione per dei
rimbambiti che equivocano i motivi della loro appetibilità. Poi ricordo quello
che dico ai miei alunni, spiegando loro cos’è la globalizzazione, evento
epocale della fine del XX secolo: immense masse umane che si spostano lungo il
globo, e il paragone che faccio spesso con le “grandi migrazioni” iniziate nel
IV secolo dopo Cristo (e che, dimentichi della faticosa costruzione europea, ci
ostiniamo a chiamare “invasioni barbariche). E allora, mi dico, è inevitabile
che accada anche questo. E penso che Lampedusa è solo un’avvisaglia per
qualcosa a cui non siamo ancora pronti culturalmente.
Edgar Morin, il
maggior filosofo vivente, ripete spesso che compito dell’antropoetica del XXI
secolo è preparare la cittadinanza terrestre (anticipata dal cosmopolitismo
illuminista e dall’utopia kantiana della pace perpetua), resa possibile
dall’economia globalizzata e dalla tecnologia. Questo, tra l’altro, è uno dei
motivi per cui non ho esposto alcuna bandiera tricolore. Celebrare l’unità
d’Italia mi è parsa battaglia di retroguardia. Anzi, credo che le incompiutezze
italiane nella costruzione dello Stato nazionale possano ribaltarsi in una
maggiore libertà nell’esperire la nuova identità terrestre cui siamo
imperativamente chiamati.
La prossima volta che
andrò in Villa cercherò di guardare con occhi diversi, curiosi e non carichi di
italico pregiudizio. Mi ripeterò, a mo’ di mantra,
con Terenzio: «Homo sum, nihil humani a me alienum», e cercherò, soprattutto,
di spiegare a Caterina cosa significa. Ché lei si senta davvero cittadina del
mondo, con solide radici nelle pietre antiche di Benevento.
(Apparso su «Bmagazine» nell'aprile 2011)
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