lunedì 15 febbraio 2016

«La speranza acuta dentro la notte». Introduzione all’opera di Franco Fortini



1. Un sapere integrale che chiede di essere integrato da una prassi etico-politica

Franco Fortini è morto da poco più di un anno, ma la sua opera continua a pungolarci dolorosamente. Nel canto II del Purgatorio, mentre Dante, Virgilio e altre anime appena giunte sulla spiaggia ascoltano rapiti la melodia di Casella, arriva Catone l’Uticense, custode dell’Antipurgatorio, è disperde il gruppo, incitandolo a iniziare il percorso di purificazione, senza sprecare il proprio tempo. Fortini ha di quel personaggio molte caratteristiche: la spigolosità che lo ha reso a molti inviso, la “vecchiaia” dell’aspetto, la certezza della meta da raggiungere e la sottomissione di tutto a quella meta. La sua opera, ogni volta che la si affronta, e da qualunque punto di vista, ci impone di iniziare a “scalare il monte”. Di lui stesso parlano ai nostri occhi queste parole:

«Chi dunque quella lotta [per il comunismo] accetta si fa, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni di se stesso; perché non darà requie né a se medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempre-uguale».

Questo intervento si propone, molto umilmente, di indicare,  alcune linee di lettura dell’opera di Franco Fortini (Firenze 1917 - Milano 1994), uno dei maggiori intellettuali e poeti del secondo Novecento.
Malgrado egli stesso abbia combattutto la specializzazione e la separatezza dei ruoli delle società moderne, per comodità di esposizione divideremo la sua attività in due parti principali.
Il percorso intellettuale  e poetico di Franco Fortini evidenzia sin dall’inizio una caratteristica peculiare: la volontà di muoversi sempre in zone di confine, estreme, in contrapposizione alle ideologie e alle poetiche dominanti.

2. L’intellettuale: dalla Resistenza al comunismo utopico, fino alle rovine degli anni odierni

La parabola intellettuale di Fortini, di famiglia borghese e origine ebraica (il cognome paterno era Lattes), ha due momenti decisivi: l’incontro con Giacomo Noventa (con il quale collaborò su «La Riforma letteraria») e l’esperienza della guerra e della Resistenza.
Giacomo Noventa fu modello alternativo a quello ermetico di intellettuale impegnato. Sebbene egli fosse cattolico e conservatore in politica, Fortini tramite lui apprese la necessità di un confronto continuo con la storia e iniziò ad approfondire il tema della responsabilità della cultura, che diventerà critica della poesia italiana contemporanea e della sua proclamata “autonomia”. Ancora Noventa fu esempio di intellettuale completo (con interessi filosofici oltre che politici) e , con la sua poesia dialettale, maestro di un linguaggio leggibile e trasparente, non dimentico delle sue funzioni didattiche e comunicative.
Dalla resistenza (con l’esperienza della Repubblica della Val d’Ossola) Fortini fu plasmato nel percepire il mondo come organismo che si modifica per shock, e nell’innervare una visione utopica nell’azione concreta qui ed ora. In questo periodo Fortini realizzò il suo compiuto apprendistato del comunismo, leggendo testi teorici e scritti narrativi: «i libri intervenivano con la violenza di scelte radicali».
Nel 1939 volle ricevere il battesimo valdese. Nel 1948 circa aderì al comunismo. Ma le origini ebraiche continuarono ad avere la funzione di un lievito:

 «Ora capisco che quel guardare indietro in una attitudine di  amore e lacrime verso il passato e i trapassati e di tensione e  riso tremante per l’avvenire, quel non essere qui, era forse segno di reale appartenenza ad una tradizione dell’ebraismo, per  quanto l’intelletto la rifiutasse»

Una perfetta  definizione anche della sua poesia, «attesa messianica e memoria dei vinti», che innestatasi sul ceppo del marxismo si specificherà come poesia dell’“avvento” della società senza classi e “tradizione” (nel senso etimologico, da tràdere, tramandare), come conservazione e trasmissione di esperienze esemplari.
Fortini chiarisce la sua impostazione ideologica in senso marxista, prendendo le distanze dall’illuminismo vittoriniano che aveva caratterizzato l’esperienza del «Politecnico». La cultura esistenziale si arricchisce con la scoperta di Lukács, dal quale apprese lo strettissimo legame che corre tra eredità (tradizione) e prospettiva, e la necessità «di misurarci con le massime dimensioni della storia umana e con le massime possibilità dell’uomo». È, ancora, la scoperta del comunismo maoista, che significa la possibilità di correggere quanto di adialettico fosse nel marxismo occidentale. Il “realismo” politico di un Lukàcas e di un Mao sono bilanciati dal utopismo socialista, venato di misticismo di Simone Weil, che Fortini tradusse.
Ha collaborato, nel corso della sua vita, alle riviste “critiche” più importanti del dopoguerra: dal «Politecnico» diretto da Vittorini a «Rendiconti», da «Officina» (con Pasolini) ai «Quaderni Rossi», diretti da Raniero Panzieri. Fu uno degli ispiratori dell’esperienza dei «Quaderni piacentini».
Dopo il resoconto di un viaggio in Cina (Asia Maggiore, Einaudi, 1956), dove vide realizzata «una novità di rapporti fra gli uomini» e la profonda unità di vita pubblica e privata, Fortini pubblicò Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista (De Donato). Vediamo già in questo libro alcune caratteristiche di fondo dell’intellettuale:
a) rifiuto del compromesso socialdemocratico e del gradualismo politico, e consapevolezza tragica dell’azione rivoluzionaria;
b) approccio ai problemi partendo da questioni apparentemente collaterali;
c) rivendicazione di un ruolo dell’intellettuale accanto alle masse, ma autonomo nei confronti del partito, recuperando un modello “resistenziale”, e rifiuto della specializzazione;
d) giustapposizione di realismo nell’analisi del presente e di slancio utopico nell’attesa/speranza  di un nuovo ordine delle cose umane con il coerente rifiuto del socialismo “reale”;
e) critica della “poesia pura” (linea simbolistico-ermetica) che «ha servito, come tutte le purezze, la causa della conservazione e della tirannia»;
f) attenzione all’organizzazione della cultura e al suo legame con le strutture politico-economiche, con conseguente intervento nella produzione artistica di massa;
g) contraddizione tra l’esigenza di una prosa comunicativa di grandi potenzialità divulgative e la pratica di una lingua ardua e colta;
h) l’opera d’arte come richiesta delineazione di un’«umanità possibile» che chiede al lettore «l’incarnazione reale»;
i) il nesso imprescindibile di etica e politica: «Che interesse può avere un mondo migliore per l’avvenire se, nell’atto di muoverci verso di esso, non siamo noi stessi migliori?»
Fortini dunque si pone subito al di là dell’equivoco neorealista: impegno non vuol dire utilizzare soggetti legati alla vita reale o alla guerra o alle condizioni del proletariato ma battersi perché il proletariato possa accedere alle grandi opere dell’arte di tutti i tempi: «Bisogna modificare la realtà sociale sì che sia possibile una più ampia, profonda, democratica, educazione estetica».
Verifica dei poteri (Einaudi, 1965) fu un libro epocale. Fortini era uscito nel 1958 dal PSI, senza più entrare in nessun partito, guardato sempre con sospetto. Aveva denunciato gli orrori dello stalinismo, senza per questo rinunciare al comunismo. Il libro fu uno dei testi di riferimento per il movimento studentesco del 1968. Esso, parlando di letteratura e organizzazione della cultura, parla, come sempre d’altro. I “poteri” che vengono “verificati” sono quelli degli intellettuali nell’industria culturale di massa. Contro la critica di “gusto” e quella “scientifica” (si andava diffondendo lo strutturalismo), Fortini rivendica l’unità nel critico del filosofo e del politico: «esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione». Il critico è, dunque, il contrario dello specialista. Fortini articola nel libro un rifiuto del progresso “moderno” e “fondato sul benessere”. Da qui anche la critica aspra nei confronti della Neo-avanguardia, che rappresenta sul terreno critico e creativo l’accettazione di una rivolta solo “linguistica” e  di una ghettizzazione del sapere e di una sua frammentazione. Altro il lascito delle Avanguardie storiche da recuperare:

«L’“aprirsi” di un’opera, non appena ad una pluralità di interpretazioni, ma all’altro-da-sé, questa incompiutezza nonostante la conclusione formale - che è di tutti i capolavori - perché il discorso continui in filosofia, in scienza, in prassi, questa è la preziosa eredità, contraddittoria, che dal romanticismo scende alle Avanguardie e a noi».

C’è una pagina straordinaria di Verifica dei poteri in cui Fortini annuncia la tensione terzomondista che avrà il Sessantotto, nell’ultimo tentativo di unificare area geografiche, politiche e culturali lontani sotto un denominatore comune:

«L’operaio cinese, il negro minatore del Sudafrica e l’insorto contadino venezualano non sono il nostro passato. Sono il nostro presente. Anzi, nella misura in cui sono le più chiare figure del transito e del mutamento, esso sono il nosro futuro, occupano un luogo al quale ancora dobbiamo venire».

Subito dopo viene affermata un’idea di storia anti-lineare, fortemente teleologica (non in senso hegeliano ma utopico):

«La nozione di storia come durata e intermittenza [...] prepara la fine della storia a noi nota [...]. La fine della storia come fine della lotta di classe e come unità del genere umano praticherà la sola conservazione possibile del passato: quella che lo distrugge in quanto passato e lo fa presente. Questa è la reale resurrezione e sopravvivenza dei morti e l’unica finale giustizia».

Fortini arriva a formulare con il massimo di chiarezza la necessaria aristocraticità della poesia, inacessibile dunque alle masse, ma, nello stesso tempo, il rifiuto di degradare la letteratura a semplice testimonianza, cronaca, fatto: utilizzando Adorno, vede nell’arte (nella sua forma, prima di tutto) la promessa di un rapporto qualitativamente diverso tra gli uomini (il comunismo) che renderà possibile a tutti di essere «eredi» di quei saperi e di quelle arti ora inaccessibili a causa dei rapporti economici di classe e della conseguente organizzazione sociale.
Nel 1966 esce un testo particolare, L’ospite ingrato (poi completato da una seconda parte e ristampato dalla Marietti): l’opera raccoglie brevi testi in prosa di periodi diversi e su argomenti vari, epigrammi (alcuni divenuti celebri, come Carlo Bo: «no»), poesie, quasi tutte d’occasione (tra cui quella, bellissima, dedicata all’anarchico Serantini ucciso dalla polizia). Il titolo esplicita la condizione di “senza-dimora” di Fortini, coscienza critica soprattutto della sua parte politica, pungolo dei compagni di strada.
Nel 1977, anno cruciale e drammatico della storia italiana, in cui i grandi ideali del Sessantotto erano tramontati e schegge fuoriuscite dal movimento praticavano la lotta armata allo Stato delle stragi impunite, gli anni dell’unità nazionale e del compromesso storico, esce Questioni di frontiera. Scritti di politica e letteratura (Einaudi). La frontiera è l’unico luogo possibile per chi non si vuole rassegnare agli specialismi e, dunque, alla logica del capitale, che, letteralmente, fa l’uomo a pezzi. Il libro inizia con una straordinaria riflessione sulla morte:

«Mi chiedo che cosa significhi oggi, per me, “morire”: certo, stringere con gli occhi e le mani i corpi degli effetti più immediati dove necessariamente si sopravviverà come corpi, rimorsi o spettri, e al di là di quelli trasmettere non certo l’opera o la memoria (chi ci crede più) ma semmai l’eredità ricevuta, di alcune mete e speranza, a sconosciuti che esistono ma che sono inattingibili posteri viventi».

Rispetto a Verifica dei poteri lo slancio utopico è raggelato, fino ad una vera e propria autocritica e una critica alla Nuova Sinistra. Fortini riafferma la necessità di un rigore intellettuale ed etico.
Affrontando ancora il problema degli intellettuali scrive che essi andavano distrutti come categoria separata: «riaffermando l’esistenza e l’insostituibilità della funzione intellettuale nell’atto stesso in cui si nega il ruolo dei portatori specializzati di quella funzione».
Particolarmente nuove sono le riflessioni sul problema dei linguaggi settoriali e del rapporto con i media. Metà del libro è occupata da testi più esplicitamente dedicati a momenti della storia della cultura, da Zola all’amato Lu Xun, da Brecht a Pasolini.
Nel 1985, con l’Italia nel pieno del terribile decennio craxiano, reganiano, edonista, esce Insistenze (Garzanti), raccolta di articoli apparsi per lo più su quotidiani (da «il manifesto» al «Corriere della Sera»).
L’opera riflette la perdita di interlocutori poderosi come il Pci degli anni Quaranta-Settanta, una sorta di smarrimento, e si concretizza in uno sparare contro bersagli  diversi senza però additare ricostruzioni. Colpisce la polemica contro la cultura irrazionalistica che si andava affermando in quegli anni (il tentativo di coniugare Marx con Nietzsche, il neognosticismo, per esempio). Ad un mondo che privilegia la “memoria involontaria”, Fortini contrappone la forza del “ricordo”, come selezione consapevole del passato, ordinamento razionale di una sequenza. È bene ricordarlo anche per noi che quegli anni sono stati di assoluta smemoratezza, hanno tagliato radici. Negli anni Novanta ci hanno presentato il conto.
L’occultamento della dimensione tragica della storia porta necessariamente alla nevrosi. Tale fu per Fortini il terrorismo, che paragonò al nichilismo russo dell’Ottocento descritto anche da Dostoevskij. Insistenze è dedicato proprio a coloro che erano allora nelle carceri, a scontare non solo un loro errore, ma quello di un’intera nazione. Nello scritto “Quindici anni da ripensare” Fortini ci dà un’analisi lucida di quanto accaduto: la catastrofe della sinistra storica e di quella nuova, con la resa alle dottrine antistoricisitche e antiumanistiche, scientische e tecnocratiche. Fortini ricorda che la lotta armata è stata voluta e preparata da uno gruppi che tramavano un colpo di stato (da pochi anni sappiamo quanto ciò fosse vero).
Extrema ratio (Garzanti, 1990) esplicita già dal sottotitolo la consapevolezza di una crollo: «note per un buon uso delle rovine». Siamo a un anno dal 1989, che ha segnato non solo il crollo dei regimi comunisti nell’Est europeo ma anche l’inizio del martellamento ideologico per cui «il comunismo è morto». Ancor più che nel libro precedente Fortini sembra un sopravvissuto, un “dannato” la cui pena è quella di veder scomparire tutto ciò in cui ha creduto e realizzato tutto ciò che ha avversato. Ma non c’è resa:

«Non mi rassegno davvero a credere che  questa argomentazione  proposta o disputa o violenza compiuta contro la realtà vittoriosa, che testimonio sotto forma di appunti, sia estrema o ultima o finale. Il titolo dice opposizione, resistenza, volontà di non accettare [...]. Sono persuaso che l’uomo rechi una “colpa” d’origine, una condizione (biologica, psichica, come si vuole) che lo distingue dalle altre specie e lo rende irrimediabile perché può essere definito l’essere vivente che non può separare incompiutezza e disarmonia dal desiderio di compimento e di armonia».

Il libro è frammentario, ellittico. anche se la cospicua parte centrale (“Un luogo sacro”) è dedicata alla questione palestinese, che già l’autore aveva affrontato - suscitando enormi polemiche ne I cani del Sinai (divenuto film-lettura ad opera di Straub) -. Fortini vede Gerusalemme come “paese allegorico” di altri scontri. Il conflitto viene interpretato nella sua valenza anche economica di sfruttamento e, chiedendo una presa di posizione a favore dell’Intifada e contro il popolo di cui pure partecipa per sangue, Fortini rivendica la necessità del dovere (etico-politico come sempre) contro la fedeltà (al sangue, alle radici, alla patria). Egli esalta (hegelianamente) il moto e la contraddizione in un mondo dove:

«non si vuole “nessun cambiamento, nessun acquisto, nessun sorgere e perire”, o tutt’al più, spostare lo sfruttamento più vistoso in altre parti del pianeta. Il presente si pone come definitivo, i mutamenti e i conflitti saranno (così si crede e si vuol credere) sempre più chiusi entro termini noti».

 Per chi ricorda le discussioni che seguirono all’uscita del libro La fine della storia di Fukuyama, queste parole possono essere illuminanti di un atteggiamento opposto, che chiede, invece, in nome di un sentimento “tragico” della storia, la consapevolezza di un procedere per rotture.
Un ripensamento del terrorismo contro la sua rimozione, la critica della “tollerenza” delle civiltà moderne, la critica del “postmoderno” come espressione sovrastrutturale del capitalismo maturo, la necessità di una rivoluzione che, nel momento in cui distrugge una norma, ne riafferma un’altra. Questi alcuni dei temi della terza parte del libro, nella quale troviamo una straordinaria pagina che ci dice che cos’è il comunismo per Fortini alla fine del secolo:

«Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità [quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili] che il maggior numero di esseri umani - e, in prospettiva, la loro totalità - pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti [...].
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa attraverso errori e violenze [...].
Dovrà evitare di credere in un perfezionamento illimitato: ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali [...].
Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa».

Nelle ultime pagine del libro c’è un’intuizione veramente straordinaria di ciò che sarebbe accaduto in Italia negli anni a venire, con la delega delle coscienze a specialisti che si presentano come unici in grado di risolvere i problemi delle società complesse. Due governatori di Banca d’Italia, un miliardario e una riforma imperniata sulla figura di un Presidente “forte” danno più che ragione al profeta Fortini.
Che cosa mi ferisce ancora delle sue pagine? La durezza. Accettare Fortini non vuol dire riconoscere le sue analisi, ma continuare ad esercitare la stessa capacità  analitica impietosamente sulla realtà odierna, con la stessa fermezza nell’essere fedeli ad una missione, a qualunque costo.

3. Il poeta: dal rifiuto dell’ermetismo al manierismo critico

Nella psicologia (e nella poesia) di Fortini c’è un elemento che Romano Luperini ha definito «adesione a una norma costante d’autorepressione e d’interdizione di ogni movimento incomposto o vitalistico», e che permette di capire lo sforzo costante di espungere dalla poesia quanto vi fosse di decorativo o di puramente espressivo, «a favore di un potenziamento del momento costruttivo e razionale».
La prima raccolta di Fortini, Foglio di via (Einaudi, 1946) mostra la ricerca di nuove forme espressive insieme a contenuti dettati dalla drammatica esperienza bellica. Va sottolineata la distanza di questo libro dalla produzione ermetica contemporanea. Ancora, però, non era avvenuta quella chiarificazione ideologica che porterà Fortini a diventare comunista.
Il “lirismo epico” a livello formale si traduce nell’uso dei metri più disparati, da quelli canonici (endecasillabi e settenari) all’esametro barbaro e all’ottonario.
La grossa novità è la priorità data alla “lingua” contro l’assolutezza della parola ermetica (-simbolista), intesa come logos, la  “prosasticità diffusa”. Inoltre, in molte poesie c’è l’aspirazione a diventare voce corale di un popolo ferito.

Canto degli ultimi partigiani

Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell’acqua della fonte
La bava degli impiccati.

Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull’erba secca del prato
I denti dei fucilati.

Mordere l’aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d’uomini
Mordere l’aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d’uomini.

Ma noi s’è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l’hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.

Tredici  anni separano Foglio di via dalla seconda raccolta poetica Poesia ed errore (Feltrinelli, 1959). Fortini ha attraversato i “dieci inverni” (1946-1956).
In queste poesie è evidente un maggior grado di politicizzazione, che si traduce da una parte in un più marcato ideologizzare, dall’altra in un serrato confronto con la storia di quegli anni.
Alla certezza di  un imminente rivolgimento radicale che modificasse i rapporti del dopoguerra segue una fase di frustrazione, e il poeta che aveva potuto parlare a nome di un popolo intero ora non ha più una comunità sicura in cui riconoscersi. In queste poesie c’è una drastica perdita della coralità che era una delle caratteristiche principali di Foglio di via.
Il percorso di Fortini può considerarsi come  una lotta di liberazione dalla città della sua giovinezza. Firenze, “la città nemica”, che sarà sempre caratterizzata come luogo di regressione e chiusura, allegoria di staticità e di sonno.
Gli anni Cinquanta sono un periodo di grossi cambiamenti nella poesia fortiniana con il superamento definitivo di ogni influsso ermetico, ottenuto con l’uso di un ampio registro stilistico (nella direzione indicata dall’esperienza officinesca), e di un parlato poetico in cui talvolta irrompe il linguaggio visionario delle origini, un’ulteriore riduzione dello spessore metaforico del linguaggio, il privilegiamento della similitudine sull’analogia.

I destini generali

È vero che sono stanco:
questo scendere scale e salire
deride, finché uccide, gli stanchi.
Avere negli occhi pomeriggi interi
soli agri, irrazionali realtà!
Se nemmeno l’augurio mi dà gioia
allora sparire diventa necessario.

Se la gioia non mi vince
rovinando sulle querce
lavando le scogliere
invadendo la fronte

il rancore dell’inganno
e danno e pianto divorato e spento
anche distrutte queste labbra
e sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi
veleno saranno e vergogna
nelle vene degli altri
e mai lasceranno le menti!

Secolo di calce e fluoro, bava
di aniline e corpi come lava
di visceri: ecco i cordiali aperitivi
con gli assassini e la valutazione
obiettiva del niente... Se non trionfo
dureranno eterni,
saranno in uno che è me stesso, me
sempre sopravvissuto.

Immortale io nei destini generali
che gli interessi infiniti misurano
del passato e dell’avvenire, io pretendo
che il registro non si chiuda
che si cerchi ragione, che si vinca
anche per me che ora voce mozza vo,
che volo via confuso
in un polverio già sparito
di guerre sovrapposte, di giornali,
baci, ira, strida...

I primi anni Sessanta segnano la presa di coscienza da parte della sinistra italiana della «definitiva irregimentazione delle istituzioni politiche, sindacali, culturali del movimento operaio entro ‘il piano del capitale’, e di conseguenza, la dissoluzione dei margini possibili per una pratica anticapitalistica all’interno di quelle istituzioni». Nella storia intellettuale  di Fortini risultano decisive da una parte la scoperta di Benjamin, che era l’esempio di un modo nuovo di legare l’esperienza religiosa e il materialismo, dall’altra la traduzione delle poesie di Brecht, che con la sua estetica antilirica, presentava l’opzione per una poesia fortemente didattica e, con il suo comunismo pratico, mostrava la via più sicura per superare le rigidezze del marxismo occidentale.
La terza raccolta organica di Fortini, Una volta per sempre (Mondadori, 1963) mostra ancora l’essenza dialettica della sua poesia. Da una parte assistiamo al compimento di quella tensione verticale, escatologica, che era presente già in Foglio di via, dall’altra la maggiore consapevolezza dei limiti della poesia si  traduce nella ricerca di una lingua fortemente prosastica, secondo il modello brechtiano.
La terza raccolta  di Fortini segna  una decisa riduzione del riferimento all’attualità e, nello stesso tempo, è evidente lo smaltimento dei toni elegiaci, che costituivano il momento del rifiuto della storia.
Fortini, dopo la sua prima esperienza poetica, ha intrapreso un percorso che, data per scontata la compromissione della lingua con le classi dominanti e quindi la sua inautenticità, e rifiutata l’opzione noventiana del dialetto, tendesse alla radicale riduzione di tutti gli elementi espressivi da una parte e dall’altra contro la “mimesi veristica” affermasse la necessità della “astrazione”. Per questo, i versi di Fortini esprimono un tentativo permanente di esorcizzare la forma, riducendola a maniera, essiccandola in retorica, mortificando ogni sua vitalità, ripudiando qualunque tentazione avanguardistica o sperimentale.

Traducendo Brecht

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola di un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Nel 1970 esce la traduzione del Faust di Goethe, dopo un lavoro di cinque anni. Abbiamo  visto di volta in volta come le poesie di Fortini filtrassero le sue esperienze intellettuali (da alcune “situazioni” eluardiane alla “totalità” di Lukàcs, dalla sintesi di materialismo e misticismo di Benjamin alla “sapienza cinese” di Brecht). Il poeta tedesco si presentava come l’esempio più compiuto di un “classicismo” gnomico che diventerà la cifra stilistica dominante dell’ultimo Fortini.
Dieci anni dopo Una volta per sempre esce Questo muro (Mondadori, 1973), che raccoglie le poesie dal 1962 al 1972. Il libro si presenta ancora una volta privo di un centro tematico. Il verso si distende e torna  spesso a coincidere con la frase. Le frasi sono strutturate in maniera elementare (soggetto, verbo, complemento).
 Questo muro si presenta spaccato in due: da una parte le poesie fino a ’69, dall’altra quelle fino al ’72. Che cosa accade in questo breve lasso di anni? Fallisce l’incontro con la storia. E il titolo della  raccolta, tra gli altri significati, potrebbe anche rappresentare la coscienza di questa spaccatura (anche se l’immagine del muro nasce prima di tutto dall’esperienza quotidiana dell’autore: è quello di fronte alla sua casa milanese, guardato per trent’anni, “simbolo del limite”).
La perdita di centralità della tensione escatologica diventa colloquio attento col presente, nell’ascolto della pluralità delle sue voci.

Gli ospiti

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.

Tutto è divenuto gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori dalla coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.

Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

Dove , alla citazione di Marx, si accompagna la consapevolezza “tragica” che si lotta per qualcosa di cui non si potrà mai vedere il compimento. Eppure, in uno spiraglio di tremante speranza, si possono già immaginare “coloro che verranno”, la loro vita semplice e comunitaria, la loro memoria dei trapassati.
La spinta autoritaria seguita al movimento studentesco e operaio (e le trame occulte: strategia della tensione, stragi di stato) portano, nei primi anni Settanta, alla disgregazione del movimento e alla formazione dei guppi terroristici di estrema sinistra. Fortini stesso ha sempre ripetuto con forza che «gruppi e fatti poi associati al terrorismo sanguinario erano anzitutto preparazione ad una resistenza armata nel caso di un colpo di destra». La protesta studendesca culminata nel 1977 venne vissuta da Fortini come un fenomeno di carattere folkloristico, come un malessere tutto integrato nella società del benessere e privo di quella spinta utopica che aveva accompagnato il ’68. La fine del decennio coincide con la sconfitta delle forze operaie e intellettuali “rivoluzionarie”. Fortini ha vissuto con amara consapevolezza questi mutamenti e ha avvertito subito «la catastrofe ideologica tanto della sinistra ‘storica’».
Queste sono le macerie su cui nasce Paesaggio con serpente, che raccoglie poesie dal 1973 al 1983. Sostituendo la ‘è con una ‘s’, il paesaggio si trasforma in passaggio, termine chiave della riflessione fortiniana di quegli anni. I1 libro si apre con un invito alla contemplazione della natura per chiudersi con una riaffermazione della linearità della storia umana e dunque di un suo finalismo (il “paesaggio” diventa lungo il corso di tutto il libro un “passaggio”). Inoltre il termine “passaggio” evoca immediatamente la “tradizione”, che Fortini ha definito «uno specifico senso dei passaggi». Parte delle poesie di Paesaggio con serpente sembrano avere il compito di conservare e dunque trasmettere esperienze (la lotta di liberazione di Che Guevara, l’impegno etico prima che politico di Lukács, la concretezza intrecciata all’utopia di Panzieri).

«Più che la sovversiva promessa di felicità, la poesia, se si porta ai propri confini, riafferma l’esigenza che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza»

Da questa concezione della poesia (che è anche una dichiarazione di poetica) dobbiamo partire per capire il significato dell’ultima produzione fortiniana.
Il libro si apre con la sezione “Il vero che è passato”, la più “classicheggiante” dal punto di vista formale. I lampi della magnolia è un invito alla contemplazione delle bellezze primaverili, che sembrano realizzare l’unione dei contrari. Il titolo della seconda sezione, “Circostanze” indica il contenuto più esplicitamente politico e cronachistico delle poesie. “Versi per la fine dell’anno” (il titolo esprime quel senso di fine imminente che percorre tutte le poesie e la seconda parte della sezione si chiuderà con una richiesta/accettazione della morte) è la terza sezione della prima parte del libro. La seconda parte di Paesaggio con serpente si apre con gli “Otto recitativi”, riflessioni sul senso della morte nella civiltà contemporanea. Alla distruzione della natura corrisponde l’incapacità degli uomini di convivere con la morte (e i corpi si guastano esattamente come cose) e la sua desacralizzazione. I1 titolo della seconda sezione della seconda parte, “Exultet” allude alla liturgia pasquale ma (dopo la lettura delle quattro brevi poesie) la traduzione più appropriata sembrerebbe essere “che si esulti senza freno”, invito dionisiaco alla liberazione delle pulsioni vitali. «Sono immagini di sensualità e fisicità, ma anche e soprattutto, di violenza, resa attraverso oggetti del mondo della tecnologia, sia alludendo a feroci divinità» (Rosato). “Exultet” nasce dalla ricerca di stabilità nell’accettazione del tempo naturale con l’abolizione di un finalismo della storia, e alla fine si rivela essere una grande allegoria del destino dell’homo technicus, che cerca di realizzare la libertà del soggetto attraverso il dominio dell’oggetto. In Di seconda intenzione Fortini elimina quell’“io” poetico che ha dominato il libro finora, ricorrendo alle figure emblematiche di Tasso o Cartesio, e traducendo Gongora o Shakesperare. “Il nido” si fa carico di testimoniare la storia come “strage”, e segna il culmine di quella “regressione” annunciata ripetutamente dal libro, al quale seguirà l’affermazione della norma etica come unica via per sconfiggere il male. L’ultima sezione del libro, “Una obbedienza”, parte dalla ricomposizione del soggetto. In Molto chiare... la staticità del paesaggio che ha dominato la raccolta diventa finalmente “passaggio”: 

Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge. 

Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni d’una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa? 
Una risposta a queste domande è dovuta. 
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate 
Però l’estate non è tutto.

Gli ultimi versi riattivano il percorso lineare del tempo contro l’immutabile ciclo naturale. Cantando rumpitur anguis
Composita solvantur (Einaudi, 1994) è l’ultima raccolta poetica di Fortini, concepita come “postuma”, scritta da un uomo che con assoluta consapevolezza stava vivendo la sua morte nel momento in cui tutt’intorno restavano le macerie di ideali per cui si era battuto. Molte vite nobili ricoperte di fango per essere dimenticate. Sola spes. E tutto questo guardando la televisione, leggendo i giornali che, con l’arma di una parola martellante, cercano di convincerci che noi eravamo dalla parte del torto, che i martiri non valgono. Il regnum hominis era in realtà l’inferno, questo ripetevano.
In una lingua che viene dal passato un vecchio, con voce cupa per anni, lutti, dolori, ci dice che tutto deve dissolversi. Allora dobbiamo attraversarlo questo tempo di perdita e disgregazione? Sì, ma con la fede che tutto si ricomporrà in nuovo ordine, che le promesse di Müntzer e Lenin non erano ancora per questi tempi, ma che la meta della storia rimane sempre il comunismo, questa parola che oggi non possiamo pronunziare senza commozione.
Ancora una allusione metrica: “Sette canzonette per il Golfo”. Ma come si adatta la canzonetta arcadica con i suo cantabili ottonari, fatta per lievi descrizioni bucoliche, all’evento epocale - la Guerra del Golfo - che ha segnato la fine della guerra fredda, e l’inizio di qualcosa che ancor oggi non si lascia definire? Ad una strage che ha fatto almeno mezzo milione di morti, e la cui vergogna nera peserà su di noi quando i figli chiederanno ragione del silenzio e dell’assenso? Non si adatta. La canzonetta può solo giocare con rime e parole, non si addice al sangue, al vento del deserto che ricopre, complice di ruspe senza anima, vite senza nome. L’impotenza è stata la condizione nuova che in molti abbiamo esperito in quei giorni angoscianti: «Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire per cielo o per mare.
«Si dissolvano le cose composte» (titolo della raccolta e dell’ultima sezione, tratto dall’epigrafe per il filosofo Francis Bacon). L’ultimo grido del vecchio: è la scoperta dell’inutilità di una vita. «Puoi sparire», dice il mondo nello splendore del rigoglio delle erbe. Eppure... C’è sempre un “eppure” nell’opera di Fortini. Il cerchio sembra chiudersi: il primo verso dell’ultima poesia è il primo verso della prima poesia della prima raccolta: «E questo il sonno». Ed era un’ermetica prefigurazione della morte: «Presto saremo beati». E questa la fine? La beatitudine della morte, ultima parola, sempre? «Nessun vendicatore sorgerà, / l’ossa non parleranno e / non fiorirà il deserto». Terribile per chi ha visto, attraverso Fortini, la “Gerusalemme celeste”, la resurrezione dei morti in un mondo liberato e fraterno, il deserto fiorito come in una profezia biblica. Ma la creazione...: geme, ecco la parola. Geme nelle doglie del parto. Il dolore assoluto, quello che più avvicina alla morte («pensavo dì morire»: è questo che dicono le giovani madri) è latore di vita. Tutta la creazione cerca il parto, sin dalle profondità della terra percorsa da fiumi ciechi. E allora chi chiede la dissoluzione finale, la scomposizione della persona propria e della storia si fermi: «Di bene un attimo ci fu. / Una volta per sempre ci mosse». Dietro di noi non c’è più nessuno, noi siamo gli ultimi difensori di un idea per cui tanti hanno speso le loro vite. Tanti uomini nobili. Se noi crolliamo, Mosca-Geusalemme (la Russia è quella che affrontò il martirio contro le armate naziste) sarà espugnata, e il sogno sarà infranto per sempre. In Russia sui monumenti ai martiri della patria ancor oggi depongono fiori. Non fiori oggi qualcuno ci chiede ma la difesa estrema delle sue (nostre) verità.
Chi leggerà il libro potrà vedervi il senso dell’addio nello sguardo che attento si posa sulle cose, come se questo sguardo fosse l’ultimo e chiedesse “più luce” per vedere (e salvare) tutto.

«E questo è il sonno...» Come lo amavano, il niente,
quelle giovani carni! Era il ‘domani’,
era dell’‘avvenire il disperato gesto...
Al mio custode immaginario, ancora osavo
pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare
di risvegliarmi nella santa viva selva.

Nessun vendicatore sorgerà,
l’ossa non parleranno e
non fiorirà il deserto.

Dritte le zampette in posa di pietà,
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi
lo implorano ancora levando alla luna
le griffe preumane. Sanno
che ogni notte s’abbatte la civetta
affaccendata e zitta.
                           Tutta la creazione...
Carcerate nei regni dei graniti, tradite
a gemere fra argille e marne sperano
in uno sgorgo le vene delle acque.
Tutta la creazione...

Ma voi che altro più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.
Non per l’onore degli antichi dèi
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto è ormai un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno prossimo.

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, - ci disse, - ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klochov.

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità.

Accanto all’opera poetica non dobbiamo dimenticare la straordinaria attività di traduttore e critico svolta da Fortini nel corso degli anni. Per le traduzioni ricorderemo, in particolare, le poesie di Eluard nell’immediato dopoguerra (da poco ristampate dall’Einaudi), alcune opere fondamentali di Simone Weil (La prima radice, La condizione operaia), una parte dell’amatissima opera proustiana, e, soprattutto, il rapporto costante con Bertolt Brecht. Antologia di traduzioni fortiniane è Il ladro di ciliege (Einaudi).
Per quanto riguarda l’attività critica Fortini, che ha insegnato all’Università di Siena, anche se solo in tarda età, ha scritto saggi fondamentali su Manzoni e Leopardi, ha curato una bellissima lettura radiofonica della Gerusalemme Liberata di Tasso. Tra i moderni ha privilegiato, con intuizioni folgoranti, Sereni e Montale. La maggior parte dei testi critici sono raccolti in Saggi italiani e Nuovi saggi italiani (Garzanti). Il rapporto arduo con Pasolini ha trovato sistemazione nel volume Attraverso Pasolini (Einaudi, 1993).
Voglio chiudere questa introduzione all’opera fortiniana con le parole di uno degli intellettuali formatisi sul suo esempio. Per me, che dall’incontro con quest’opera sono stato totalmente trasformato, tali parole risuonano spesso come un monito:

«Sono convinto  che il lascito di Fortini non sia quello di una parola da interpretare, ma quello di una parola da applicare. È un lascito che non chiede ammirazione o pietà, ma una scelta di campo: o torneremo a credere, come Fortni non ha mai smesso di credere, alla possibilità di un mutamento del presente in nome del futuro oppure l’opera, tutta l’opera di Fortini, dalle poesie ai saggi critici, dagli scritti polemici alle voci d’enciclopedia, è destinata a diventare un libro “ermetico”, un libro di devozioni o di profezie» (Giovanni Raboni).

Bibliografia

Abbiamo indicato nel corso del saggio le opere maggiori di Fortini.
Per le poesie si vedano:
Una volta per sempre (Poesie 1938-1973), Einaudi, 1978.
Paesaggio con serpente (Poesie 1973-1983), Einaudi, 1984.
Versi scelti (1939-1989), Einaudi, 1990.
Composita solvantur, Einaudi, 1994.

Per un approccio complessivo si può vedere Non solo oggi. Cinquantanove voci (Editori Riuniti, 1991), un antologia di tutta l’opera fortiniana ordinata per voci alfabetiche.
Un eccellente bibliografia si trova in Franco Fortini - Paolo Jachia, Fortini. Leggere e scrivere (Marco Nardi Editore, 1993), una lunga intervista sui libri fondamentali di una vita.
Tra gli interventi critici complessivi ricordiamo almeno Remo Pagnanelli,  Fortini, Transeuropa, 1988.
I critici che meglio hanno analizzato l’opera di Fortini sono Romano Luperini, Alfonso Berardinelli e Pier Vincenzo Mengaldo, i cui contributi sono tutti fondamentali.


(Pubblicato su «Hebenon», scritto nel febbraio-marzo 1996)





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