1. Un sapere integrale che chiede di essere integrato da
una prassi etico-politica
Franco Fortini è morto
da poco più di un anno, ma la sua opera continua a pungolarci dolorosamente.
Nel canto II del Purgatorio, mentre
Dante, Virgilio e altre anime appena giunte sulla spiaggia ascoltano rapiti la
melodia di Casella, arriva Catone l’Uticense, custode dell’Antipurgatorio, è
disperde il gruppo, incitandolo a iniziare il percorso di purificazione, senza
sprecare il proprio tempo. Fortini ha di quel personaggio molte
caratteristiche: la spigolosità che lo ha reso a molti inviso, la “vecchiaia”
dell’aspetto, la certezza della meta da raggiungere e la sottomissione di tutto
a quella meta. La sua opera, ogni volta che la si affronta, e da qualunque
punto di vista, ci impone di iniziare a “scalare il monte”. Di lui stesso parlano
ai nostri occhi queste parole:
«Chi
dunque quella lotta [per il comunismo]
accetta si fa, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo
amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la
propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma
anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e
compagni di se stesso; perché non darà requie né a se medesimo né a loro, per
strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e
del sempre-uguale».
Questo intervento si
propone, molto umilmente, di indicare, alcune
linee di lettura dell’opera di Franco Fortini (Firenze 1917 - Milano 1994), uno
dei maggiori intellettuali e poeti del secondo Novecento.
Malgrado egli stesso
abbia combattutto la specializzazione e la separatezza dei ruoli delle società
moderne, per comodità di esposizione divideremo la sua attività in due parti
principali.
Il percorso
intellettuale e poetico di Franco
Fortini evidenzia sin dall’inizio una caratteristica peculiare: la volontà di
muoversi sempre in zone di confine, estreme, in contrapposizione alle ideologie
e alle poetiche dominanti.
2. L’intellettuale: dalla Resistenza al comunismo utopico,
fino alle rovine degli anni odierni
La parabola
intellettuale di Fortini, di famiglia borghese e origine ebraica (il cognome
paterno era Lattes), ha due momenti decisivi: l’incontro con Giacomo Noventa
(con il quale collaborò su «La Riforma letteraria») e l’esperienza della guerra
e della Resistenza.
Giacomo Noventa fu
modello alternativo a quello ermetico di intellettuale impegnato. Sebbene egli
fosse cattolico e conservatore in politica, Fortini tramite lui apprese la
necessità di un confronto continuo con la storia e iniziò ad approfondire il
tema della responsabilità della cultura, che diventerà critica della poesia
italiana contemporanea e della sua proclamata “autonomia”. Ancora Noventa fu
esempio di intellettuale completo (con interessi filosofici oltre che politici)
e , con la sua poesia dialettale, maestro di un linguaggio leggibile e trasparente,
non dimentico delle sue funzioni didattiche e comunicative.
Dalla resistenza (con
l’esperienza della Repubblica della Val d’Ossola) Fortini fu plasmato nel
percepire il mondo come organismo che si modifica per shock, e nell’innervare
una visione utopica nell’azione concreta qui
ed ora. In questo periodo Fortini realizzò il suo compiuto apprendistato
del comunismo, leggendo testi teorici e scritti narrativi: «i libri intervenivano
con la violenza di scelte radicali».
Nel 1939 volle
ricevere il battesimo valdese. Nel 1948 circa aderì al comunismo. Ma le origini
ebraiche continuarono ad avere la funzione di un lievito:
«Ora capisco che quel guardare indietro in una
attitudine di amore e lacrime verso il
passato e i trapassati e di tensione e
riso tremante per l’avvenire, quel non essere qui, era forse segno di
reale appartenenza ad una tradizione dell’ebraismo, per quanto l’intelletto la rifiutasse»
Una perfetta definizione anche della sua poesia, «attesa
messianica e memoria dei vinti», che innestatasi sul ceppo del marxismo si
specificherà come poesia dell’“avvento” della società senza classi e
“tradizione” (nel senso etimologico, da tràdere,
tramandare), come conservazione e trasmissione di esperienze esemplari.
Fortini chiarisce la
sua impostazione ideologica in senso marxista, prendendo le distanze
dall’illuminismo vittoriniano che aveva caratterizzato l’esperienza del
«Politecnico». La cultura esistenziale si arricchisce con la scoperta di
Lukács, dal quale apprese lo strettissimo legame che corre tra eredità
(tradizione) e prospettiva, e la necessità «di misurarci con le massime
dimensioni della storia umana e con le massime possibilità dell’uomo». È, ancora, la scoperta del comunismo
maoista, che significa la possibilità di correggere quanto di adialettico fosse
nel marxismo occidentale. Il “realismo” politico di un Lukàcas e di un Mao sono
bilanciati dal utopismo socialista, venato di misticismo di Simone Weil, che
Fortini tradusse.
Ha collaborato, nel
corso della sua vita, alle riviste “critiche” più importanti del dopoguerra:
dal «Politecnico» diretto da Vittorini a «Rendiconti», da «Officina» (con
Pasolini) ai «Quaderni Rossi», diretti da Raniero Panzieri. Fu uno degli
ispiratori dell’esperienza dei «Quaderni piacentini».
Dopo il resoconto di
un viaggio in Cina (Asia Maggiore,
Einaudi, 1956), dove vide realizzata «una novità di rapporti fra gli uomini» e
la profonda unità di vita pubblica e privata, Fortini pubblicò Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un
discorso socialista (De Donato). Vediamo già in questo libro alcune caratteristiche
di fondo dell’intellettuale:
a) rifiuto del
compromesso socialdemocratico e del gradualismo politico, e consapevolezza
tragica dell’azione rivoluzionaria;
b) approccio ai
problemi partendo da questioni apparentemente collaterali;
c) rivendicazione di un
ruolo dell’intellettuale accanto alle masse, ma autonomo nei confronti del partito,
recuperando un modello “resistenziale”, e rifiuto della specializzazione;
d) giustapposizione di
realismo nell’analisi del presente e di slancio utopico nell’attesa/speranza di un nuovo ordine delle cose umane con il
coerente rifiuto del socialismo “reale”;
e) critica della
“poesia pura” (linea simbolistico-ermetica) che «ha servito, come tutte le
purezze, la causa della conservazione e della tirannia»;
f) attenzione all’organizzazione
della cultura e al suo legame con le strutture politico-economiche, con
conseguente intervento nella produzione artistica di massa;
g) contraddizione tra
l’esigenza di una prosa comunicativa di grandi potenzialità divulgative e la
pratica di una lingua ardua e colta;
h) l’opera d’arte come
richiesta delineazione di un’«umanità possibile» che chiede al lettore
«l’incarnazione reale»;
i) il nesso
imprescindibile di etica e politica: «Che interesse può avere un mondo migliore
per l’avvenire se, nell’atto di muoverci verso di esso, non siamo noi stessi
migliori?»
Fortini dunque si pone
subito al di là dell’equivoco neorealista: impegno non vuol dire utilizzare soggetti
legati alla vita reale o alla guerra o alle condizioni del proletariato ma battersi
perché il proletariato possa accedere alle grandi opere dell’arte di tutti i
tempi: «Bisogna modificare la realtà sociale sì che sia possibile una più
ampia, profonda, democratica, educazione estetica».
Verifica dei poteri (Einaudi, 1965) fu un libro epocale. Fortini
era uscito nel 1958 dal PSI, senza più entrare in nessun partito, guardato
sempre con sospetto. Aveva denunciato gli orrori dello stalinismo, senza per
questo rinunciare al comunismo. Il libro fu uno dei testi di riferimento per il
movimento studentesco del 1968. Esso, parlando di letteratura e organizzazione
della cultura, parla, come sempre d’altro. I “poteri” che vengono “verificati”
sono quelli degli intellettuali nell’industria culturale di massa. Contro la
critica di “gusto” e quella “scientifica” (si andava diffondendo lo
strutturalismo), Fortini rivendica l’unità nel critico del filosofo e del
politico: «esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora
poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione». Il
critico è, dunque, il contrario dello specialista. Fortini articola nel libro
un rifiuto del progresso “moderno” e “fondato sul benessere”. Da qui anche la
critica aspra nei confronti della Neo-avanguardia, che rappresenta sul terreno critico
e creativo l’accettazione di una rivolta solo “linguistica” e di una ghettizzazione del sapere e di una sua
frammentazione. Altro il lascito delle Avanguardie storiche da recuperare:
«L’“aprirsi”
di un’opera, non appena ad una pluralità di interpretazioni, ma all’altro-da-sé, questa incompiutezza nonostante la conclusione formale - che è
di tutti i capolavori - perché il discorso continui in filosofia, in scienza,
in prassi, questa è la preziosa eredità, contraddittoria, che dal romanticismo
scende alle Avanguardie e a noi».
C’è una pagina
straordinaria di Verifica dei poteri
in cui Fortini annuncia la tensione terzomondista che avrà il Sessantotto,
nell’ultimo tentativo di unificare area geografiche, politiche e culturali
lontani sotto un denominatore comune:
«L’operaio
cinese, il negro minatore del Sudafrica e l’insorto contadino venezualano non sono il nostro passato. Sono il nostro
presente. Anzi, nella misura in cui sono le più chiare figure del transito
e del mutamento, esso sono il nosro futuro, occupano un luogo al quale ancora
dobbiamo venire».
Subito dopo viene
affermata un’idea di storia anti-lineare, fortemente teleologica (non in senso hegeliano ma utopico):
«La
nozione di storia come durata e intermittenza [...] prepara la fine della
storia a noi nota [...]. La fine della storia come fine della lotta di classe e
come unità del genere umano praticherà la sola conservazione possibile del
passato: quella che lo distrugge in quanto passato e lo fa presente. Questa è
la reale resurrezione e sopravvivenza dei morti e l’unica finale giustizia».
Fortini arriva a
formulare con il massimo di chiarezza la necessaria aristocraticità della
poesia, inacessibile dunque alle masse, ma, nello stesso tempo, il rifiuto di
degradare la letteratura a semplice testimonianza, cronaca, fatto: utilizzando
Adorno, vede nell’arte (nella sua forma, prima di tutto) la promessa di un
rapporto qualitativamente diverso tra gli uomini (il comunismo) che renderà
possibile a tutti di essere «eredi» di quei saperi e di quelle arti ora
inaccessibili a causa dei rapporti economici di classe e della conseguente
organizzazione sociale.
Nel 1966 esce un testo
particolare, L’ospite ingrato (poi
completato da una seconda parte e ristampato dalla Marietti): l’opera raccoglie
brevi testi in prosa di periodi diversi e su argomenti vari, epigrammi (alcuni
divenuti celebri, come Carlo Bo: «no»), poesie, quasi tutte d’occasione
(tra cui quella, bellissima, dedicata all’anarchico Serantini ucciso dalla
polizia). Il titolo esplicita la condizione di “senza-dimora” di Fortini,
coscienza critica soprattutto della sua parte politica, pungolo dei compagni di
strada.
Nel 1977, anno
cruciale e drammatico della storia italiana, in cui i grandi ideali del
Sessantotto erano tramontati e schegge fuoriuscite dal movimento praticavano la
lotta armata allo Stato delle stragi impunite, gli anni dell’unità nazionale e
del compromesso storico, esce Questioni
di frontiera. Scritti di politica e letteratura (Einaudi). La frontiera è
l’unico luogo possibile per chi non si vuole rassegnare agli specialismi e,
dunque, alla logica del capitale, che, letteralmente, fa l’uomo a pezzi. Il
libro inizia con una straordinaria riflessione sulla morte:
«Mi
chiedo che cosa significhi oggi, per me, “morire”: certo, stringere con gli
occhi e le mani i corpi degli effetti più immediati dove necessariamente si
sopravviverà come corpi, rimorsi o spettri, e al di là di quelli trasmettere
non certo l’opera o la memoria (chi ci crede più) ma semmai l’eredità ricevuta,
di alcune mete e speranza, a sconosciuti che esistono ma che sono inattingibili
posteri viventi».
Rispetto a Verifica dei poteri lo slancio utopico è
raggelato, fino ad una vera e propria autocritica e una critica alla Nuova
Sinistra. Fortini riafferma la necessità di un rigore intellettuale ed etico.
Affrontando ancora il
problema degli intellettuali scrive che essi andavano distrutti come categoria
separata: «riaffermando l’esistenza e l’insostituibilità della funzione
intellettuale nell’atto stesso in cui si nega il ruolo dei portatori
specializzati di quella funzione».
Particolarmente nuove
sono le riflessioni sul problema dei linguaggi settoriali e del rapporto con i
media. Metà del libro è occupata da testi più esplicitamente dedicati a momenti
della storia della cultura, da Zola all’amato Lu Xun, da Brecht a Pasolini.
Nel 1985, con l’Italia
nel pieno del terribile decennio craxiano, reganiano, edonista, esce Insistenze (Garzanti), raccolta di
articoli apparsi per lo più su quotidiani (da «il manifesto» al «Corriere della
Sera»).
L’opera riflette la
perdita di interlocutori poderosi come il Pci degli anni Quaranta-Settanta, una
sorta di smarrimento, e si concretizza in uno sparare contro bersagli diversi senza però additare ricostruzioni. Colpisce
la polemica contro la cultura irrazionalistica che si andava affermando in
quegli anni (il tentativo di coniugare Marx con Nietzsche, il neognosticismo,
per esempio). Ad un mondo che privilegia la “memoria involontaria”, Fortini
contrappone la forza del “ricordo”, come selezione consapevole del passato,
ordinamento razionale di una sequenza. È
bene ricordarlo anche per noi che quegli anni sono stati di assoluta
smemoratezza, hanno tagliato radici. Negli anni Novanta ci hanno presentato il
conto.
L’occultamento della
dimensione tragica della storia porta necessariamente alla nevrosi. Tale fu per
Fortini il terrorismo, che paragonò al nichilismo russo dell’Ottocento
descritto anche da Dostoevskij. Insistenze
è dedicato proprio a coloro che erano allora nelle carceri, a scontare non solo
un loro errore, ma quello di un’intera nazione. Nello scritto “Quindici anni da
ripensare” Fortini ci dà un’analisi lucida di quanto accaduto: la catastrofe
della sinistra storica e di quella nuova, con la resa alle dottrine antistoricisitche
e antiumanistiche, scientische e tecnocratiche. Fortini ricorda che la lotta
armata è stata voluta e preparata da uno gruppi che tramavano un colpo di stato
(da pochi anni sappiamo quanto ciò fosse vero).
Extrema ratio (Garzanti, 1990) esplicita già dal
sottotitolo la consapevolezza di una crollo: «note per un buon uso delle
rovine». Siamo a un anno dal 1989, che ha segnato non solo il crollo dei regimi
comunisti nell’Est europeo ma anche l’inizio del martellamento ideologico per
cui «il comunismo è morto». Ancor più che nel libro precedente Fortini sembra
un sopravvissuto, un “dannato” la cui pena è quella di veder scomparire tutto
ciò in cui ha creduto e realizzato tutto ciò che ha avversato. Ma non c’è resa:
«Non
mi rassegno davvero a credere che questa
argomentazione proposta o disputa o
violenza compiuta contro la realtà vittoriosa, che testimonio sotto forma di
appunti, sia estrema o ultima o finale. Il titolo dice opposizione, resistenza,
volontà di non accettare [...]. Sono persuaso che l’uomo rechi una “colpa”
d’origine, una condizione (biologica, psichica, come si vuole) che lo distingue
dalle altre specie e lo rende irrimediabile perché può essere definito l’essere
vivente che non può separare incompiutezza e disarmonia dal desiderio di compimento
e di armonia».
Il libro è
frammentario, ellittico. anche se la cospicua parte centrale (“Un luogo sacro”)
è dedicata alla questione palestinese, che già l’autore aveva affrontato -
suscitando enormi polemiche ne I cani del
Sinai (divenuto film-lettura ad opera di Straub) -. Fortini vede
Gerusalemme come “paese allegorico” di altri scontri. Il conflitto viene
interpretato nella sua valenza anche economica di sfruttamento e, chiedendo una
presa di posizione a favore dell’Intifada e contro il popolo di cui pure
partecipa per sangue, Fortini rivendica la necessità del dovere (etico-politico come sempre) contro la fedeltà (al sangue, alle radici, alla patria). Egli esalta
(hegelianamente) il moto e la contraddizione in un mondo dove:
«non
si vuole “nessun cambiamento, nessun acquisto, nessun sorgere e perire”, o
tutt’al più, spostare lo sfruttamento più vistoso in altre parti del pianeta.
Il presente si pone come definitivo, i mutamenti e i conflitti saranno (così si
crede e si vuol credere) sempre più chiusi entro termini noti».
Per chi ricorda le discussioni che seguirono
all’uscita del libro La fine della storia
di Fukuyama, queste parole possono essere illuminanti di un atteggiamento
opposto, che chiede, invece, in nome di un sentimento “tragico” della storia,
la consapevolezza di un procedere per rotture.
Un ripensamento del
terrorismo contro la sua rimozione, la critica della “tollerenza” delle civiltà
moderne, la critica del “postmoderno” come espressione sovrastrutturale del
capitalismo maturo, la necessità di una rivoluzione che, nel momento in cui
distrugge una norma, ne riafferma un’altra. Questi alcuni dei temi della terza
parte del libro, nella quale troviamo una straordinaria pagina che ci dice che
cos’è il comunismo per Fortini alla fine del secolo:
«Il
combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità [quindi scelta e rischio, in nome di valori
non dimostrabili] che il maggior numero
di esseri umani - e, in prospettiva, la loro totalità - pervenga a vivere in
una contraddizione diversa da quella dominante. Unico progresso, ma reale,
è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia
possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta
delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la
forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta,
rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti [...].
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa attraverso errori e violenze [...].
Dovrà evitare di credere in un perfezionamento illimitato: ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali [...].
Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa».
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa attraverso errori e violenze [...].
Dovrà evitare di credere in un perfezionamento illimitato: ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali [...].
Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa».
Nelle ultime pagine
del libro c’è un’intuizione veramente straordinaria di ciò che sarebbe accaduto
in Italia negli anni a venire, con la delega delle coscienze a specialisti che
si presentano come unici in grado di risolvere i problemi delle società
complesse. Due governatori di Banca d’Italia, un miliardario e una riforma
imperniata sulla figura di un Presidente “forte” danno più che ragione al profeta
Fortini.
Che cosa mi ferisce
ancora delle sue pagine? La durezza. Accettare Fortini non vuol dire
riconoscere le sue analisi, ma continuare ad esercitare la stessa capacità analitica impietosamente sulla realtà
odierna, con la stessa fermezza nell’essere fedeli ad una missione, a qualunque
costo.
3. Il poeta: dal rifiuto dell’ermetismo al manierismo
critico
Nella psicologia (e
nella poesia) di Fortini c’è un elemento che Romano Luperini ha definito
«adesione a una norma costante d’autorepressione e d’interdizione di ogni
movimento incomposto o vitalistico», e che permette di capire lo sforzo
costante di espungere dalla poesia quanto vi fosse di decorativo o di puramente
espressivo, «a favore di un potenziamento del momento costruttivo e razionale».
La prima raccolta di
Fortini, Foglio di via (Einaudi,
1946) mostra la ricerca di nuove forme espressive insieme a contenuti dettati
dalla drammatica esperienza bellica. Va sottolineata la distanza di questo
libro dalla produzione ermetica contemporanea. Ancora, però, non era avvenuta
quella chiarificazione ideologica che porterà Fortini a diventare comunista.
Il “lirismo epico” a
livello formale si traduce nell’uso dei metri più disparati, da quelli canonici
(endecasillabi e settenari) all’esametro barbaro e all’ottonario.
La grossa novità è la
priorità data alla “lingua” contro l’assolutezza della parola ermetica
(-simbolista), intesa come logos,
la “prosasticità diffusa”. Inoltre, in
molte poesie c’è l’aspirazione a diventare voce corale di un popolo ferito.
Canto degli ultimi partigiani
Sulla
spalletta del ponte
Le
teste degli impiccati
Nell’acqua
della fonte
La
bava degli impiccati.
Sul
lastrico del mercato
Le
unghie dei fucilati
Sull’erba
secca del prato
I
denti dei fucilati.
Mordere
l’aria mordere i sassi
La
nostra carne non è più d’uomini
Mordere
l’aria mordere i sassi
Il
nostro cuore non è più d’uomini.
Ma
noi s’è letta negli occhi dei morti
E
sulla terra faremo libertà
Ma
l’hanno stretta i pugni dei morti
La
giustizia che si farà.
Tredici anni separano Foglio di via dalla seconda raccolta poetica Poesia ed errore (Feltrinelli, 1959). Fortini ha attraversato i
“dieci inverni” (1946-1956).
In queste poesie è
evidente un maggior grado di politicizzazione, che si traduce da una parte in
un più marcato ideologizzare, dall’altra in un serrato confronto con la storia
di quegli anni.
Alla certezza di un imminente rivolgimento radicale che
modificasse i rapporti del dopoguerra segue una fase di frustrazione, e il
poeta che aveva potuto parlare a nome di un popolo intero ora non ha più una
comunità sicura in cui riconoscersi. In queste poesie c’è una drastica perdita
della coralità che era una delle caratteristiche principali di Foglio di via.
Il percorso di Fortini
può considerarsi come una lotta di liberazione
dalla città della sua giovinezza. Firenze, “la città nemica”, che sarà sempre
caratterizzata come luogo di regressione e chiusura, allegoria di staticità e
di sonno.
Gli anni Cinquanta
sono un periodo di grossi cambiamenti nella poesia fortiniana con il
superamento definitivo di ogni influsso ermetico, ottenuto con l’uso di un
ampio registro stilistico (nella direzione indicata dall’esperienza
officinesca), e di un parlato poetico in cui talvolta irrompe il linguaggio
visionario delle origini, un’ulteriore riduzione dello spessore metaforico del
linguaggio, il privilegiamento della similitudine sull’analogia.
I destini generali
È vero che sono stanco:
questo
scendere scale e salire
deride,
finché uccide, gli stanchi.
Avere
negli occhi pomeriggi interi
soli
agri, irrazionali realtà!
Se
nemmeno l’augurio mi dà gioia
allora
sparire diventa necessario.
Se
la gioia non mi vince
rovinando
sulle querce
lavando
le scogliere
invadendo
la fronte
il
rancore dell’inganno
e
danno e pianto divorato e spento
anche
distrutte queste labbra
e
sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi
veleno
saranno e vergogna
nelle
vene degli altri
e
mai lasceranno le menti!
Secolo
di calce e fluoro, bava
di
aniline e corpi come lava
di
visceri: ecco i cordiali aperitivi
con
gli assassini e la valutazione
obiettiva
del niente... Se non trionfo
dureranno
eterni,
saranno
in uno che è me stesso, me
sempre
sopravvissuto.
Immortale
io nei destini generali
che
gli interessi infiniti misurano
del
passato e dell’avvenire, io pretendo
che
il registro non si chiuda
che
si cerchi ragione, che si vinca
anche
per me che ora voce mozza vo,
che
volo via confuso
in
un polverio già sparito
di
guerre sovrapposte, di giornali,
baci,
ira, strida...
I primi anni Sessanta
segnano la presa di coscienza da parte della sinistra italiana della
«definitiva irregimentazione delle istituzioni politiche, sindacali, culturali
del movimento operaio entro ‘il piano del capitale’, e di conseguenza, la
dissoluzione dei margini possibili per una pratica anticapitalistica
all’interno di quelle istituzioni». Nella storia intellettuale di Fortini risultano decisive da una parte la
scoperta di Benjamin, che era l’esempio di un modo nuovo di legare l’esperienza
religiosa e il materialismo, dall’altra la traduzione delle poesie di Brecht,
che con la sua estetica antilirica, presentava l’opzione per una poesia
fortemente didattica e, con il suo comunismo pratico, mostrava la via più
sicura per superare le rigidezze del marxismo occidentale.
La terza raccolta
organica di Fortini, Una volta per sempre
(Mondadori, 1963) mostra ancora l’essenza dialettica della sua poesia. Da una
parte assistiamo al compimento di quella tensione verticale, escatologica, che
era presente già in Foglio di via,
dall’altra la maggiore consapevolezza dei limiti della poesia si traduce nella ricerca di una lingua
fortemente prosastica, secondo il modello brechtiano.
La terza raccolta di Fortini segna una decisa riduzione del riferimento
all’attualità e, nello stesso tempo, è evidente lo smaltimento dei toni
elegiaci, che costituivano il momento del rifiuto della storia.
Fortini, dopo la sua
prima esperienza poetica, ha intrapreso un percorso che, data per scontata la
compromissione della lingua con le classi dominanti e quindi la sua
inautenticità, e rifiutata l’opzione noventiana del dialetto, tendesse alla
radicale riduzione di tutti gli elementi espressivi da una parte e dall’altra
contro la “mimesi veristica” affermasse la necessità della “astrazione”. Per
questo, i versi di Fortini esprimono un tentativo permanente di esorcizzare la
forma, riducendola a maniera,
essiccandola in retorica, mortificando ogni sua vitalità, ripudiando qualunque
tentazione avanguardistica o sperimentale.
Traducendo Brecht
Un
grande temporale
per
tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui
tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo
versi di cemento e di vetro
dov’erano
grida e piaghe murate e membra
anche
di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora
i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo
morire
la
parola di un poeta o mutarsi
in
altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono
oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano
nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo
di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi
mi dico, odia
chi
con dolcezza guida al niente
gli
uomini e le donne che con te si accompagnano
e
credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi
anche il tuo nome. Il temporale
è
sparito con enfasi. La natura
per
imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non
muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Nel 1970 esce la
traduzione del Faust di Goethe, dopo
un lavoro di cinque anni. Abbiamo visto
di volta in volta come le poesie di Fortini filtrassero le sue esperienze
intellettuali (da alcune “situazioni” eluardiane alla “totalità” di Lukàcs,
dalla sintesi di materialismo e misticismo di Benjamin alla “sapienza cinese”
di Brecht). Il poeta tedesco si presentava come l’esempio più compiuto di un
“classicismo” gnomico che diventerà la cifra stilistica dominante dell’ultimo
Fortini.
Dieci anni dopo Una volta per sempre esce Questo muro (Mondadori, 1973), che
raccoglie le poesie dal 1962 al 1972. Il libro si presenta ancora una volta
privo di un centro tematico. Il verso si distende e torna spesso a coincidere con la frase. Le frasi
sono strutturate in maniera elementare (soggetto, verbo, complemento).
Questo
muro si presenta spaccato in due: da una parte le poesie fino a ’69,
dall’altra quelle fino al ’72. Che cosa accade in questo breve lasso di anni?
Fallisce l’incontro con la storia. E il titolo della raccolta, tra gli altri significati, potrebbe
anche rappresentare la coscienza di questa spaccatura (anche se l’immagine del
muro nasce prima di tutto dall’esperienza quotidiana dell’autore: è quello di
fronte alla sua casa milanese, guardato per trent’anni, “simbolo del limite”).
La perdita di
centralità della tensione escatologica diventa colloquio attento col presente,
nell’ascolto della pluralità delle sue voci.
Gli ospiti
I
presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari.
La
sola cosa che importa è
il
movimento reale che abolisce
lo
stato di cose presente.
Tutto
è divenuto gravemente oscuro.
Nulla
che prima non sia perduto ci serve.
La
verità cade fuori dalla coscienza.
Non
sapremo se avremo avuto ragione.
Ma
guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso
la tua stanza.
Come
distribuiscono le loro masserizie,
come
spartiscono il loro bene, come
fra
poco mangeranno la nostra verità!
Di
noi spiriti curiosi in ascolto
prima
del sonno parleranno.
Dove , alla citazione
di Marx, si accompagna la consapevolezza “tragica” che si lotta per qualcosa di
cui non si potrà mai vedere il compimento. Eppure, in uno spiraglio di tremante
speranza, si possono già immaginare “coloro che verranno”, la loro vita
semplice e comunitaria, la loro memoria dei trapassati.
La spinta autoritaria
seguita al movimento studentesco e operaio (e le trame occulte: strategia della
tensione, stragi di stato) portano, nei primi anni Settanta, alla disgregazione
del movimento e alla formazione dei guppi terroristici di estrema sinistra.
Fortini stesso ha sempre ripetuto con forza che «gruppi e fatti poi associati
al terrorismo sanguinario erano anzitutto preparazione ad una resistenza armata
nel caso di un colpo di destra». La protesta studendesca culminata nel 1977
venne vissuta da Fortini come un fenomeno di carattere folkloristico, come un
malessere tutto integrato nella società del benessere e privo di quella spinta
utopica che aveva accompagnato il ’68. La fine del decennio coincide con la
sconfitta delle forze operaie e intellettuali “rivoluzionarie”. Fortini ha
vissuto con amara consapevolezza questi mutamenti e ha avvertito subito «la
catastrofe ideologica tanto della sinistra ‘storica’».
Queste sono le macerie
su cui nasce Paesaggio con serpente,
che raccoglie poesie dal 1973 al 1983. Sostituendo la ‘è’ con una ‘s’, il paesaggio
si trasforma in passaggio, termine
chiave della riflessione fortiniana di quegli anni. I1 libro si apre con un
invito alla contemplazione della natura per chiudersi con una riaffermazione
della linearità della storia umana e dunque di un suo finalismo (il “paesaggio”
diventa lungo il corso di tutto il libro un “passaggio”). Inoltre il termine
“passaggio” evoca immediatamente la “tradizione”, che Fortini ha definito «uno
specifico senso dei passaggi». Parte delle poesie di Paesaggio con serpente sembrano avere il compito di conservare e
dunque trasmettere esperienze (la lotta di liberazione di Che Guevara,
l’impegno etico prima che politico di Lukács, la concretezza intrecciata all’utopia
di Panzieri).
«Più
che la sovversiva promessa di felicità, la poesia, se si porta ai propri
confini, riafferma l’esigenza che gli uomini raggiungano controllo,
comprensione e direzione della propria esistenza»
Da questa concezione
della poesia (che è anche una dichiarazione di poetica) dobbiamo partire per capire
il significato dell’ultima produzione fortiniana.
Il libro si apre con
la sezione “Il vero che è passato”, la più “classicheggiante” dal punto di
vista formale. I lampi della magnolia
è un invito alla contemplazione delle bellezze primaverili, che sembrano
realizzare l’unione dei contrari. Il titolo della seconda sezione,
“Circostanze” indica il contenuto più esplicitamente politico e cronachistico
delle poesie. “Versi per la fine dell’anno” (il titolo esprime quel senso di
fine imminente che percorre tutte le poesie e la seconda parte della sezione si
chiuderà con una richiesta/accettazione della morte) è la terza sezione della
prima parte del libro. La seconda parte di Paesaggio
con serpente si apre con gli “Otto recitativi”, riflessioni sul senso della
morte nella civiltà contemporanea. Alla distruzione della natura corrisponde
l’incapacità degli uomini di convivere con la morte (e i corpi si guastano
esattamente come cose) e la sua desacralizzazione. I1 titolo della seconda
sezione della seconda parte, “Exultet” allude alla liturgia pasquale ma (dopo
la lettura delle quattro brevi poesie) la traduzione più appropriata
sembrerebbe essere “che si esulti senza freno”, invito dionisiaco alla
liberazione delle pulsioni vitali. «Sono immagini di sensualità e fisicità, ma
anche e soprattutto, di violenza, resa attraverso oggetti del mondo della
tecnologia, sia alludendo a feroci divinità» (Rosato). “Exultet” nasce dalla
ricerca di stabilità nell’accettazione del tempo naturale con l’abolizione di
un finalismo della storia, e alla fine si rivela essere una grande allegoria
del destino dell’homo technicus, che
cerca di realizzare la libertà del soggetto attraverso il dominio dell’oggetto.
In Di seconda intenzione Fortini
elimina quell’“io” poetico che ha dominato il libro finora, ricorrendo alle
figure emblematiche di Tasso o Cartesio, e traducendo Gongora o Shakesperare.
“Il nido” si fa carico di testimoniare la storia come “strage”, e segna il culmine
di quella “regressione” annunciata ripetutamente dal libro, al quale seguirà
l’affermazione della norma etica come unica via per sconfiggere il male.
L’ultima sezione del libro, “Una obbedienza”, parte dalla ricomposizione del
soggetto. In Molto chiare... la
staticità del paesaggio che ha dominato la raccolta diventa finalmente
“passaggio”:
Molto
chiare si vedono le cose.
Puoi
contare ogni foglia dei platani.
Lungo
il parco di settembre
l’autobus
già ne porta via qualcuna.
Ad
uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il
lavoro imperfetto e l’ansia,
le
mattine, le attese e le piogge.
Lo
sguardo è là ma non vede una storia
di
sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato
che a notte annera carte
coi
segni d’una lingua non più sua
e
replica il suo errore.
È niente? È qualche
cosa?
Una
risposta a queste domande è dovuta.
La
forza di luglio era grande.
Quando
è passata, è passata l’estate
Però
l’estate non è tutto.
Gli ultimi versi
riattivano il percorso lineare del tempo contro l’immutabile ciclo naturale. Cantando rumpitur anguis.
Composita solvantur (Einaudi, 1994) è l’ultima raccolta poetica
di Fortini, concepita come “postuma”, scritta da un uomo che con assoluta
consapevolezza stava vivendo la sua morte nel momento in cui tutt’intorno
restavano le macerie di ideali per cui si era battuto. Molte vite nobili
ricoperte di fango per essere dimenticate. Sola
spes. E tutto questo guardando la televisione, leggendo i giornali che, con
l’arma di una parola martellante, cercano di convincerci che noi eravamo dalla
parte del torto, che i martiri non valgono. Il regnum hominis era in realtà l’inferno, questo ripetevano.
In una lingua che
viene dal passato un vecchio, con voce cupa per anni, lutti, dolori, ci dice
che tutto deve dissolversi. Allora dobbiamo attraversarlo questo tempo di
perdita e disgregazione? Sì, ma con la fede che tutto si ricomporrà in nuovo
ordine, che le promesse di Müntzer e Lenin non erano ancora per questi tempi,
ma che la meta della storia rimane sempre il comunismo, questa parola che oggi non possiamo pronunziare senza
commozione.
Ancora una allusione
metrica: “Sette canzonette per il Golfo”. Ma come si adatta la canzonetta arcadica
con i suo cantabili ottonari, fatta per lievi descrizioni bucoliche, all’evento
epocale - la Guerra del Golfo - che ha segnato la fine della guerra fredda, e
l’inizio di qualcosa che ancor oggi non si lascia definire? Ad una strage che
ha fatto almeno mezzo milione di morti, e la cui vergogna nera peserà su di noi
quando i figli chiederanno ragione del silenzio e dell’assenso? Non si adatta.
La canzonetta può solo giocare con rime e parole, non si addice al sangue, al
vento del deserto che ricopre, complice di ruspe senza anima, vite senza nome.
L’impotenza è stata la condizione nuova che in molti abbiamo esperito in quei
giorni angoscianti: «Non posso giovare, non posso parlare, / non posso partire
per cielo o per mare.
«Si
dissolvano le cose composte» (titolo della raccolta e dell’ultima sezione,
tratto dall’epigrafe per il filosofo Francis Bacon). L’ultimo grido del
vecchio: è la scoperta dell’inutilità di una vita. «Puoi sparire», dice il
mondo nello splendore del rigoglio delle erbe. Eppure... C’è sempre un “eppure”
nell’opera di Fortini. Il cerchio sembra chiudersi: il primo verso dell’ultima
poesia è il primo verso della prima poesia della prima raccolta: «E questo il
sonno». Ed era un’ermetica prefigurazione della morte: «Presto saremo beati». E
questa la fine? La beatitudine della morte, ultima parola, sempre? «Nessun
vendicatore sorgerà, / l’ossa non parleranno e / non fiorirà il deserto».
Terribile per chi ha visto, attraverso Fortini, la “Gerusalemme celeste”, la
resurrezione dei morti in un mondo liberato e fraterno, il deserto fiorito come
in una profezia biblica. Ma la creazione...: geme, ecco la parola. Geme nelle
doglie del parto. Il dolore assoluto, quello che più avvicina alla morte
(«pensavo dì morire»: è questo che dicono le giovani madri) è latore di vita.
Tutta la creazione cerca il parto, sin dalle profondità della terra percorsa da
fiumi ciechi. E allora chi chiede la dissoluzione finale, la scomposizione
della persona propria e della storia si fermi: «Di bene un attimo ci fu. / Una
volta per sempre ci mosse». Dietro di noi non c’è più nessuno, noi siamo gli
ultimi difensori di un idea per cui tanti hanno speso le loro vite. Tanti
uomini nobili. Se noi crolliamo, Mosca-Geusalemme (la Russia è quella che
affrontò il martirio contro le armate naziste) sarà espugnata, e il sogno sarà
infranto per sempre. In Russia sui monumenti ai martiri della patria ancor oggi
depongono fiori. Non fiori oggi qualcuno ci chiede ma la difesa estrema delle
sue (nostre) verità.
Chi leggerà il libro
potrà vedervi il senso dell’addio nello sguardo che attento si posa sulle cose,
come se questo sguardo fosse l’ultimo e chiedesse “più luce” per vedere (e salvare)
tutto.
«E questo è il sonno...» Come lo
amavano, il niente,
quelle giovani carni! Era il ‘domani’,
era dell’‘avvenire il disperato
gesto...
Al mio custode immaginario, ancora
osavo
pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare
di risvegliarmi nella santa viva selva.
Nessun
vendicatore sorgerà,
l’ossa
non parleranno e
non
fiorirà il deserto.
Dritte le zampette in posa di pietà,
manto color focaccia i ghiri gentili
dei boschi
lo implorano ancora levando alla luna
le griffe preumane. Sanno
che ogni notte s’abbatte la civetta
affaccendata e zitta.
Tutta la creazione...
Carcerate nei regni dei graniti,
tradite
a gemere fra argille e marne sperano
in uno sgorgo le vene delle acque.
Tutta la creazione...
Ma voi che altro più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.
Non per l’onore degli antichi dèi
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto è ormai un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno
prossimo.
Volokolàmskaja
Chaussée, novembre 1941.
«Non
possiamo più, - ci disse, - ritirarci.
Abbiamo
Mosca alle spalle». Si chiamava
Klochov.
Rivolgo col bastone le foglie dei
viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una
bottiglia.
Proteggete le nostre verità.
Accanto all’opera
poetica non dobbiamo dimenticare la straordinaria attività di traduttore e
critico svolta da Fortini nel corso degli anni. Per le traduzioni ricorderemo,
in particolare, le poesie di Eluard nell’immediato dopoguerra (da poco
ristampate dall’Einaudi), alcune opere fondamentali di Simone Weil (La prima radice, La condizione operaia),
una parte dell’amatissima opera proustiana, e, soprattutto, il rapporto
costante con Bertolt Brecht. Antologia di traduzioni fortiniane è Il ladro di ciliege (Einaudi).
Per quanto riguarda
l’attività critica Fortini, che ha insegnato all’Università di Siena, anche se
solo in tarda età, ha scritto saggi fondamentali su Manzoni e Leopardi, ha
curato una bellissima lettura radiofonica della Gerusalemme Liberata di Tasso. Tra i moderni ha privilegiato, con
intuizioni folgoranti, Sereni e Montale. La maggior parte dei testi critici
sono raccolti in Saggi italiani e Nuovi saggi italiani (Garzanti). Il
rapporto arduo con Pasolini ha trovato sistemazione nel volume Attraverso Pasolini (Einaudi, 1993).
Voglio chiudere questa
introduzione all’opera fortiniana con le parole di uno degli intellettuali
formatisi sul suo esempio. Per me, che dall’incontro con quest’opera sono stato totalmente trasformato, tali parole
risuonano spesso come un monito:
«Sono
convinto che il lascito di Fortini non
sia quello di una parola da interpretare, ma quello di una parola da applicare.
È un lascito che non chiede
ammirazione o pietà, ma una scelta di campo: o torneremo a credere, come Fortni
non ha mai smesso di credere, alla possibilità di un mutamento del presente in
nome del futuro oppure l’opera, tutta
l’opera di Fortini, dalle poesie ai saggi critici, dagli scritti polemici alle
voci d’enciclopedia, è destinata a diventare un libro “ermetico”, un libro di
devozioni o di profezie» (Giovanni Raboni).
Bibliografia
Abbiamo indicato nel corso del saggio
le opere maggiori di Fortini.
Per le poesie si vedano:
Una
volta per sempre (Poesie
1938-1973), Einaudi, 1978.
Paesaggio
con serpente (Poesie
1973-1983), Einaudi, 1984.
Versi
scelti
(1939-1989), Einaudi, 1990.
Composita
solvantur,
Einaudi, 1994.
Per un approccio complessivo si può
vedere Non solo oggi. Cinquantanove voci
(Editori Riuniti, 1991), un antologia di tutta l’opera fortiniana ordinata per
voci alfabetiche.
Un eccellente bibliografia si trova in
Franco Fortini - Paolo Jachia, Fortini.
Leggere e scrivere (Marco Nardi Editore, 1993), una lunga intervista sui
libri fondamentali di una vita.
Tra gli interventi critici complessivi
ricordiamo almeno Remo Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, 1988.
I critici che meglio hanno analizzato
l’opera di Fortini sono Romano Luperini, Alfonso Berardinelli e Pier Vincenzo
Mengaldo, i cui contributi sono tutti fondamentali.
(Pubblicato
su «Hebenon», scritto nel febbraio-marzo 1996)
Nessun commento:
Posta un commento