La poesia sembra essere morta. La poesia in Italia è un
genere di scrittura “postumo”, è stato scritto. Se la vitalità di un’arte si valuta anche in base alla sua
circolazione, la poesia non esiste più.
Quali sono le cause di questa situazione? Prima di tutto l’evolversi del mondo della
comunicazione, con nuove esigenze di consumo “culturale” che possono essere
soddisfatte facilmente da altre forme d’arte.
Ma forse è giusto che sia così. Forse la poesia proprio nella sua “marginalità”
può tenere vivo il senso stesso della sua esistenza. «Ciò che a noi si impone come compito è non
soltanto di stabilire un confronto adeguato e accettabile tra i domini della
poesia, del pensiero e della prassi, bensì di prendere sul serio la loro
nascosta riunificazione al vertice e quindi sperimentare il mistero della loro
originaria coappartenenza, tanto da prospettare originariamente una nuova e fin
qui inaudita articolazione dell’essere» (Martin Heidegger).
Quello
che Heidegger ci invita a fare è prendere
sul serio la poesia. Ovviamente, questo porterà a ridurre drasticamente il
numero dei poeti che vale la pena d’interrogare, di ascoltare.
Credo,
dunque, che in alcune esperienze poetiche l’Occidente abbia conservato la
possibilità di un altro “sentiero” da percorrere, fondato sull’accordo tra
l’uomo e stesso, tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e Dio. Nel mondo antico era
dato per scontato un rapporto privilegiato del poeta con un’altra realtà:
«Inoltre, ed è questo un concetto che ci viene da uomini di grandissimo
prestigio e cultura, lo studio delle altre discipline è fatto di dottrina
generale, precettistica e abilità tecnica, mentre il poeta si vale di un
talento del tutto naturale, è mosso dalla potenza della sua mente ed è pervaso
come da un afflato divino (et mentis
viribus excitari et quasi divino quondam spiritu inflari). Per questo ben a
ragione il nostro celebre Ennio chiama “sacri” i poeti, perché sembrano esserci
stati affidati quasi per un dono benevolo
degli dei [...].
Le
rupi e i deserti rispondono al suono di una voce, spesso bestie feroci si arrestano
placate dal canto: e noi, educati dai migliori insegnamenti, non dovremmo
sentirci toccati dalla voce dei poeti?» (Cicerone,
Pro Archia, VIII)
Poeti
come Char o Celan insegnano il tramonto necessario dell’Occidente e il suo
rinascere, se è vero che questa civiltà malata e infelice non può essere
l’ultima parola. E questa è l’analisi che va compiendo da alcuni anni della
poesia moderna Marco Guzzi, che legge
la parabola della nostra civiltà e il suo necessario punto di svolta attraverso
una linea poetica che annuncia, nella terra del tramonto (l’Occidente) la
nascita di un nuovo uomo: «In quanto profezia apocalittica della nascita di un
uomo nuovo in questa specifica fase terminale del ciclo storico occidentale,
questa poesia è un linguaggio del tutto inedito e inaudito. Non appartiene più
alla storia della letteratura […]. E che cosa diventa? Diventa appunto profezia
apocalittica […]. Ma la parola di questi poeti non è ancora presa veramente sul
serio. Pochissimi studi sono dedicati a interpretare questi versi come reali
profezie del nostro presente, e quindi del nostro futuro. La poesia è ancora un
territorio ambiguo in cui confluiscono esperienze appartenenti addirittura a
cicli storici diversi, per cui anche l’autentica poesia apocalittica
(rivelativa) risulta ancora di pertinenza di valutazioni letterarie o
linguistiche, del tutto inadeguate non solo a interpretare, ma perfino a
concepire ciò di cui questa poesia realmente parla: «E se l’uomo Nascente in
questa notte occidentale volesse insegnarci proprio a pensare in modo nuovo? ad
ascoltarlo più profondamente? a dare voce a un pensiero creativo che scaturisca
da un ascolto che finora solo la mistica aveva raggiunto? a creare cioè una
poetica spirituale della storia? “Voci, voci. Ascolta, cuore mio, / come
soltanto i santi ascoltarono un giorno” (Rilke)» (Marco Guzzi, Passaggi di millennio, Paoline, 1998,
pp.136-137).
La
poesia è nello stesso tempo custode di una tradizione e annunzio di un’epoca
nuova: essa è intimamente rivoluzionaria
(rivoluzione: movimento di un corpo intorno ad un centro o un asse).
Questa
poesia nasce dal silenzio e si avvia al silenzio, e per questo chiede silenzio
intorno a sé, scandalo radicale in un epoca che non sopporta il vuoto e che è ossessionata
dall’ansia di riempirlo:
Ad essa,
alla notte, la parola
che gli astri accompagnano e i mari inondano,
ad essa
la parola avvinta dal silenzio,
cui il sangue non gelò, quando trafisse
le
sillabe quel dente avvelenato.
Alla notte la parola guadagnata al silenzio.
Contro quelle altre che presto
- sedotte e violentate da orecchie
prostituite -
anche sul tempo e i tempi s’ergeranno,
essa infine sarà
testimone,
infine, quando solo catene risuonano,
testimone della notte, che
lì giace
tra oro e oblio,
sorella di entrambi, da sempre.
(Paul Celan, Argumentum e silentio)
Questa, tra l’altro, è l’unica vera
“educazione all’ascolto”: atto meritorio che potrebbe svolgere la scuola per
orecchie affogate nella chiacchiera, nel rumore. Educare all’ascolto prima di
tutto degli spazi bianchi, dei silenzi. Programmi leggeri: l’utopia di una
scuola come oasi dove vige un altro tempo, quello del verso, come la musica di
cui parla Borges «misteriosa forma del tempo».
Concludendo: la scarsa fortuna della poesia
oggi può essere il segno che essa, quando è vera, non è mercificabile al pari
di qualunque altro “prodotto” letterario. Forse la poesia sta scegliendo i suoi
custodi, come se fosse l’unica possibilità rimasta al Sacro di manifestarsi.
Chi accetta la fatica dell’ascolto, deve prendere su di sé anche la croce di
un’intima realizzazione della parola e della sua incarnazione nel mondo.
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