venerdì 12 febbraio 2016

la poesia


La poesia sembra essere morta. La poesia in Italia è un genere di scrittura “postumo”, è stato scritto. Se la vitalità di unarte si valuta anche in base alla sua circolazione, la poesia non esiste più.
Quali sono le cause di questa situazione? Prima di tutto levolversi del mondo della comunicazione, con nuove esigenze di consumo “culturale” che possono essere soddisfatte facilmente da altre forme darte. Ma forse è giusto che sia così. Forse la poesia proprio nella sua “marginalità” può tenere vivo il senso stesso della sua esistenza.  «Ciò che a noi si impone come compito è non soltanto di stabilire un confronto adeguato e accettabile tra i domini della poesia, del pensiero e della prassi, bensì di prendere sul serio la loro nascosta riunificazione al vertice e quindi sperimentare il mistero della loro originaria coappartenenza, tanto da prospettare originariamente una nuova e fin qui inaudita articolazione dell’essere» (Martin Heidegger).
Quello che Heidegger ci invita a fare è prendere sul serio la poesia. Ovviamente, questo porterà a ridurre drasticamente il numero dei poeti che vale la pena d’interrogare, di ascoltare.
Credo, dunque, che in alcune esperienze poetiche l’Occidente abbia conservato la possibilità di un altro “sentiero” da percorrere, fondato sull’accordo tra l’uomo e stesso, tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e Dio. Nel mondo antico era dato per scontato un rapporto privilegiato del poeta con un’altra realtà: «Inoltre, ed è questo un concetto che ci viene da uomini di grandissimo prestigio e cultura, lo studio delle altre discipline è fatto di dottrina generale, precettistica e abilità tecnica, mentre il poeta si vale di un talento del tutto naturale, è mosso dalla potenza della sua mente ed è pervaso come da un afflato divino (et mentis viribus excitari et quasi divino quondam spiritu inflari). Per questo ben a ragione il nostro celebre Ennio chiama “sacri” i poeti, perché sembrano esserci stati affidati quasi per un dono benevolo  degli dei [...].
Le rupi e i deserti rispondono al suono di una voce, spesso bestie feroci si arrestano placate dal canto: e noi, educati dai migliori insegnamenti, non dovremmo sentirci toccati dalla voce dei poeti?» (Cicerone, Pro Archia, VIII)
Poeti come Char o Celan insegnano il tramonto necessario dell’Occidente e il suo rinascere, se è vero che questa civiltà malata e infelice non può essere l’ultima parola. E questa è l’analisi che va compiendo da alcuni anni della poesia moderna Marco Guzzi, che legge la parabola della nostra civiltà e il suo necessario punto di svolta attraverso una linea poetica che annuncia, nella terra del tramonto (l’Occidente) la nascita di un nuovo uomo: «In quanto profezia apocalittica della nascita di un uomo nuovo in questa specifica fase terminale del ciclo storico occidentale, questa poesia è un linguaggio del tutto inedito e inaudito. Non appartiene più alla storia della letteratura […]. E che cosa diventa? Diventa appunto profezia apocalittica […]. Ma la parola di questi poeti non è ancora presa veramente sul serio. Pochissimi studi sono dedicati a interpretare questi versi come reali profezie del nostro presente, e quindi del nostro futuro. La poesia è ancora un territorio ambiguo in cui confluiscono esperienze appartenenti addirittura a cicli storici diversi, per cui anche l’autentica poesia apocalittica (rivelativa) risulta ancora di pertinenza di valutazioni letterarie o linguistiche, del tutto inadeguate non solo a interpretare, ma perfino a concepire ciò di cui questa poesia realmente parla: «E se l’uomo Nascente in questa notte occidentale volesse insegnarci proprio a pensare in modo nuovo? ad ascoltarlo più profondamente? a dare voce a un pensiero creativo che scaturisca da un ascolto che finora solo la mistica aveva raggiunto? a creare cioè una poetica spirituale della storia? “Voci, voci. Ascolta, cuore mio, / come soltanto i santi ascoltarono un giorno” (Rilke)» (Marco Guzzi, Passaggi di millennio, Paoline, 1998, pp.136-137).
La poesia è nello stesso tempo custode di una tradizione e annunzio di un’epoca nuova: essa è intimamente rivoluzionaria (rivoluzione: movimento di un corpo intorno ad un centro o un asse).
Questa poesia nasce dal silenzio e si avvia al silenzio, e per questo chiede silenzio intorno a sé, scandalo radicale in un epoca che non sopporta il vuoto e che è ossessionata dall’ansia di riempirlo: 

Ad essa, alla notte, la parola 
che gli astri accompagnano e i mari inondano, 
ad essa la parola avvinta dal silenzio, 
cui il sangue non gelò, quando trafisse 
le sillabe quel dente avvelenato. 

Alla notte la parola guadagnata al silenzio. 
Contro quelle altre che presto 
- sedotte e violentate da orecchie prostituite - 
anche sul tempo e i tempi s’ergeranno, 
essa infine sarà testimone, 
infine, quando solo catene risuonano, 
testimone della notte, che lì giace 
tra oro e oblio, 
sorella di entrambi, da sempre.

(Paul Celan, Argumentum e silentio

Questa, tra l’altro, è l’unica vera “educazione all’ascolto”: atto meritorio che potrebbe svolgere la scuola per orecchie affogate nella chiacchiera, nel rumore. Educare all’ascolto prima di tutto degli spazi bianchi, dei silenzi. Programmi leggeri: l’utopia di una scuola come oasi dove vige un altro tempo, quello del verso, come la musica di cui parla Borges «misteriosa forma del tempo».
Concludendo: la scarsa fortuna della poesia oggi può essere il segno che essa, quando è vera, non è mercificabile al pari di qualunque altro “prodotto” letterario. Forse la poesia sta scegliendo i suoi custodi, come se fosse l’unica possibilità rimasta al Sacro di manifestarsi. Chi accetta la fatica dell’ascolto, deve prendere su di sé anche la croce di un’intima realizzazione della parola e della sua incarnazione nel mondo. 

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