mercoledì 24 giugno 2020

Nel groviglio degli anni Ottanta. 4. La musica



Nel suo bel libro sugli anni Ottanta Adolfo Scotto di Luzio dedica una densa pagina a Vasco Rossi, considerandolo un cantante “generazionale”, anche in virtù della sua provenienza “provinciale”, anche se questo significava che, in qualche modo, l’americanizzazione penetrava nelle profondità del Paese, e non più solo nei grandi centri.
Ricordo un me stesso buffo che, deodorante stick a simulare un microfono, davanti allo specchio e profittando dell’assenza delle mie pestifere sorelle, nella loro stanza, dove c’era lo stereo, oggetto dei desideri con giradischi, mangianastri e radio, cantava Vita spericolata (1983), probabilmente ricevuta in 45 giri per qualche festa organizzata a casa.
Se, però, devo suggerire un cantante generazionale, per motivi non solo squisitamente soggettivi di gusto, farei il nome di Franco Battiato.
Proveniente da un’esperienza interessante che aveva mescolato studi “alti” ed esperimenti pop, Battiato nel 1979 aveva pubblicato L’era del cinghiale bianco e l’anno successivo (all’età di 35 anni) Patriots. Si tratta di due dischi importanti ma profondamente incompiuti, con oscillazioni che vanno dal capolavoro al divertissement. Nel 1981, invece, pubblica una pietra miliare nella storia della musica tout court, a parere di chi scrive (che pure non avrebbe la competenza musicale per farlo e ne è ben consapevole) il più importante album della storia della musica italiana, cioè La voce del padrone. Opera perfetta, caratterizzata da una compattezza di temi e stile musicale mai più eguagliata neanche dal suo creatore, La voce del padrone è, si magna licet (componere maioribus), La terra desolata della mia generazione (così come Fisiognomica ne saranno i Quattro quartetti). Avrei difficoltà ad indicare un’opera musicale che meglio incarni il concetto di “post-moderno” (sebbene Battiato rivendichi spesso tratti “pre-moderni” che sono parte del suo fascino). Lontanissima dalla koinè dell’impegno civile ma anche dai temi abituali del grande cantautorato italiano, quasi tutto filiato da Bob Dylan (e dagli chansonneur francesi), la tessitura musicale dell’album distilla il meglio degli esperimenti seguiti al punk, la cosiddetta new-wave (citata in Bandiera bianca), senza mai, però, scadere in quell’effetto di suono “sintetico” (che per esempio ritroviamo in Orizzonti perduti).
Sebbene il mio «razzismo» (cit.) all’inizio mi facesse guardare con diffidenza un album che polverizzò tutti i record di vendita, forse con un anno di ritardo divenne un’esperienza totalizzante. Credo che sia l’unico di cui conosca tutte le canzoni a memoria. E ancora oggi quando lo riascolto, come in questo momento, rimango sconcertato per la perfezione degli arrangiamenti, per l’uso originalissimo delle percussioni e, in genere (provate a riascoltare la parte finale di Sentimento nuevo), della sezione ritmica, per i cori, per gli inserti organistici (ascoltate la chiusa de Gli uccelli), della chitarra che stria Bandiera bianca.
Perché ho paragonato La voce del padrone al capolavoro poetico di T.S. Eliot? Perché mi pare il segno, nel contempo, il racconto di una sconfitta ma anche l’apertura ad una ricerca che sarebbe culminata, a mio avviso, in Fisiognomica, in una spiritualità dalle più molteplici suggestioni (dalla mistica sufi a Gurdieff). E nei testi, che apparvero assolutamente irriducibili a qualunque modello, capaci di tenere insieme la cultura alta e lacerti solo apparentemente casuali di cultura pop, c’era di tutto: dall’autobiografia sognante di Cuccuruccù al breve racconto tardo-esistenziale di Summer on a solitary beach, dal lirismo misticheggiante de Gli uccelli all’inno coribantico di Sentimento nuevo. Bandiera bianca è un vero e proprio manifesto che fa i conti, in maniera sprezzante, con tutto il mondo che ci girava intorno, dichiarando la fine di ogni possibile impegno. Su tutto domina il sentimento (gnostico?) di un tradimento: «Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro». Forse era chiaro per chi lo conosceva già, per molti lo fu nel prosieguo, ma Battiato è uno spirituale. E credo che questa sua eliotiana ricerca di senso si manifesti pienamente in Centro di gravità permanente e in Segnali di vita, dove emerge la fascinazione cosmica che si sarebbe poi dispiegata in Mondi lontanissimi.
Ho amato moltissimo anche gli album successivi, che pure appaiono incompiuti per molti versi. Mi è piaciuta l’apocalissi annunziata in L’arca di Noè, l’esistenzialismo pieno di autobiografia di Mondi lontanissimi. Il periodo aureo di questo Maestro, a cui serberò eterna gratitudine (commossa in questo periodo in cui lo sappiamo malato e silente), si chiude, al volgere del decennio, con Fisiognomica, dove predomina un sinfonismo talvolta sublime (penso a Oceano di silenzio). Quando cerco pace torno a quelle canzoni ognuna delle quali è divenuta una mia personalissima preghiera. Mi ha indicato la possibilità di una spiritualità libera, capace di attingere a molte tradizioni senza mai diventare melassa new-age. Anche questa credo possa essere definita una cifra generazionale.
Di lì a poco l’incontro con Sgalambro avrebbe portato Battiato altrove, pur producendo cose talvolta bellissime, ma diverse per scelte musicali (impareggiabile resta l’eleganza degli arrangiamenti nelle cover dei Fleurs) e, soprattutto, contenutistiche.
Per tornare al libro di Scotto di Luzio, gli avrei suggerito di utilizzare Povera patria (1991) come canto funebre del decennio. Un autore che aveva rifuggito qualunque impegno politico, moralisticamente, cantava, in note dolenti, quel senso di sfacelo che accompagnò il tentativo originale della nostra generazione di cambiare la realtà al di fuori delle categorie (non) ereditate dai fratelli maggiori. Quella canzone, come Show di Caproni (1983), altro autore totalmente impolitico, maestro di poesia per la nostra generazione, diede parole alla mia indignazione, più morale, appunto, che politica. Stava iniziando un altro tempo, un'altra storia, un’altra musica.




lunedì 22 giugno 2020

Nel groviglio degli anni Ottanta. 3. I film


Pur prendendo spunto dalla lettura del libro di Adolfo Scotto di Luzio, questo breve elenco di film legati alla mia Bildung è assolutamente soggettivo. Non ha alcun valore esemplare, e serve solo, più di trent’anni dopo, a spiegare perché sono diventato ciò che sono.

* * *

Metto da parte ciò che mi ha formato prima, dove si confondono in maniera inestricabile due cose: prima di tutto, la visione “guidata” domestica (un solo televisore da guardare tutti insieme) di film dagli anni Quaranta ai Sessanta con la predilezione di commedie leggere ma anche grandi produzioni (su tutte ricorderei Via col vento e Ben Hur). Mia madre era guida sapiente. Quell'immaginario mi ha plasmato. Ne avrei poi intuito i limiti (talvolta clamorosi). Ma resto riconoscente sia a quei contenuti sia a quelle forme sia al modo in cui vedevamo cinema. D'altronde, ci sarà un motivo se La vita è meravigliosa resta il mio film, e James Stewart l'eroe che più di tutti vorrei essere. L'altra modalità era evidentemente il cinema, sempre in compagnia. Un ruolo decisivo lo ebbero i cineforum organizzati dalla dott. ssa Zanin, una meravigliosa figura di educatrice della nostra comunità (di origine veneta a cui bisognerebbe intitolare qualcosa), al Supercinema. Se devo scegliere un genere che adoravo direi i film con Bud Spencer e Terence Hill, in particolare Altrimenti ci arrabbiamo.

Entrando negli anni Ottanta, metterei al primo posto, per importanza (pochi giorni dopo la morte di Ian Holm), Momenti di gloria (1981) di Hudson. Per me, cattolico, frequentatore dell’Azione cattolica, era l’indicazione di un modello “eroico” che trova, con Liddell, in Dio la forza per vincere in nome di un ideale e, nel contempo, non fa della gloria motivo di amplificazione del proprio ego. Le musiche di Vangelis ebbero, ovviamente, un ruolo decisivo nel mio innamoramento.

Nello stesso anno vidi Excalibur di Boorman. Sicuramente accadde al Massimo con mia madre. Ricordo che all’uscita incontrammo il venerando Gianni Vergineo. Questo film incrociava tutto ciò che ero: la passione per la figura dell’eroe e in particolare del cavaliere, i temi religiosi. Ancor oggi lo trovo un film bellissimo, in cui fotografie e musiche wagneriane contribuiscono a riprodurre gli stessi brividi di allora.

Sempre in quell’anno, anche se l’ordine potrebbe essere sbagliato, e sicuramente con mio cugino Raffaele per il quale divenne una vera e propria ossessione da trasformare in fumetti e disegni, vedemmo 1997: fuga da New York di John Carpenter. Siamo di fronte ad uno dei grandi “minori” del cinema americana. Col senno di poi, potrei dire che fu il nostro Per un pugno di dollari. E Iena/Snake il nostro eroe “maledetto” in una feroce distopia che metteva in scena mirabilmente le mostruose trasformazioni metropolitane. Forse è stato il primo film “politico” che inconsapevolmente ho visto. Avrebbe potuto fare di me un anarco-individualista…

Segue, anche cronologicamente, Conan il barbaro (1982) di Milius. Io, come chi mi segue sa bene, sono cresciuto a pane e Marvel. Quindi Conan era un personaggio scolpito nel mio immaginario, sia nella versione “preraffaellita” di Windsor-Smith sia in quella michelangiolesca di John Buscema. Vederlo a cinema incarnato nel corpo erculeo di Schwarzenegger fu shoccante. Alimentò il mito dell’eroe solitario, del guerriero, che mi portavo segretamente, come antitesi di tutto ciò che ero (un bolso ragazzino pavido). Mi chiedo, col senno di poi, perché non sono diventato un fascista… Ce n’erano tutti i presupposti!

Nello stesso anno, credo al San Marco, vidi (immagino con Luca) Blade Runner, film destinato ad incidere come nessun altro nella mia vita. Oltre alle emozioni che mi diedero la fotografia e le musiche (ancora Vangelis!), oltre all’innamoramento per Sean Young, con i suoi abiti e le sue pettinature retrò, oltre alla Los Angeles perennemente battuta dalla pioggia e alla promessa di un orrido futuro di malattie e devastazione del pianeta, per la prima volta ebbi un pensiero (poi l’avrei definito “filosofico”) mio. Avevo quindici anni. Ricordo che ci scrissi su un tema. La domanda radicale, che avrebbe scavato nel profondo, incrociandosi pochi anni dopo con altre interrogazioni sul mondo animale, era: possono esistere esseri non umani che hanno sentimenti, hanno anima? Posso dire che quel film ha segnato il mio ingresso in un mondo più adulto.

Inutile dire che in mezzo (o poco prima) ci sono tantissimi film visti a cinema o in televisione: la trilogia di Guerre stellari, i film di Indiana Jones, Ritorno al futuro, lo Spielberg di E.T. che poi avrei scoperto come immenso autore “etico”, la scoperta di David Lynch (con Elephant Man e Blue Velvet), Gilliam e Wenders, Kubrick e l’ultimo Leone. Molti di questi autori però li avrei conosciuti seriamente solo dopo, grazie anche a "Fuori orario", alle videocassette che costituirono la mia prima cineteca personale (è ancora in campagna, inscatolata e inguardabile… cosa ne farò?).

Chiudo idealmente i miei anni Ottanta cinematografici con un film visto a Roma, con il mio amico Tullio, film che mi avrebbe segnato, di un autore di cui avrei imparato ad amare molto altro, ma che mi diede gli strumenti per capire cosa volevo essere. Parlo de L'attimo fuggente. In quegli anni, studiavo Lettere a Roma. Vedere il prof. Keating stravolgere i metodi tradizionali di una veneranda istituzione scolastica mi suggerì che, sì, anch’io avrei fatto lo stesso… Quel film continua ancor oggi ad interpellarmi, e ogni volta che vedo quei ragazzi salire sui banchi per omaggiare quell’omino sconfitto, interpretato da un meraviglioso Robin Williams, non posso non commuovermi, come quando vedo John Merrick sistemare il cuscino prima di morire, Parsifal liberarsi dai suoi peccati per essere degno del Graal, Eric Liddell parlare con Dio mentre corre verso il traguardo dei quattrocento metri a Parigi, Roy Beatty stringere in mano una colomba e meditare sulla sua breve e fiammeggiante esistenza.




domenica 21 giugno 2020

La risposta di Teresa Simeone alla videolettera [σχολή]


La bella e densa risposta di Teresa Simeone alla mia videolettera.

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Naturalmente, e sappiamo entrambi che è proprio così, la stima di cui periodicamente mi dai attestazione, caro Nicola, è assolutamente ricambiata: ti riconosco, oltre la generosità nel dare visibilità agli sforzi altrui, la capacità di fare rete, aggregare intelligenze, promuovere il dibattito culturale, nelle sue diverse forme, accendendo con coraggio discussioni vivaci di cui paghi anche il “fio”, nel tentativo di vincere reticenze, scuotere coscienze e coinvolgerle in un contesto  pubblico. Nobile, e tra le poche nel nostro ambiente, la bella capacità di valorizzare ogni contributo possa venire da qualsiasi mente pensante.  Non esiti, inoltre, a lanciarti in avventure anche pericolose, spesso controcorrente, in qualche modo “fiero” di essere al confine, un frontaliere, come ami definirti o sulla “soglia”, per citare la nostra comune “amica”, Simone Weil.   

Veniamo al merito della nostra interlocuzione Mi fai prigioniera di un equivoco che definisci manicheo, non essendo io capace di cogliere sfumature, e rimanendo così nella dicotomia progressista o antiprogressista, razionalista o antirazionalista; ti faccio presente, però, Nicola, che sei sempre stato tu a dichiararti contrario a ogni forma di progresso e addirittura a contestare, come hai fatto più volte nel passato, il ruolo della ragione: ricordi quando a me, che riportavo l’incisione di Goya sul sonno della ragione come generatrice di mostri, rispondevi che in realtà è il “sogno” della ragione a esserlo? Oppure quando arrivavi a sminuire il ruolo della filosofia kantiana o le forme di evoluzione storica bollando la prima come responsabile di una visione illuministica negatrice del ruolo di ogni altra facoltà e la seconda come storicismo giustificatore di ogni nefandezza? Naturalmente nel momento in cui discutevamo, le posizioni si chiarivano ma nello stesso tempo si radicalizzavano. Sorrido al pensiero di quante volte, nell’evocare la necessità del conflitto, ovviamente di matrice eraclitea, mi rimproveravi di essere troppo “irenica”.   
Non ritorno sulle riflessioni a proposito della tecnica che abbiamo fatto insieme su Heidegger, al quale, come sai, ho sempre riconosciuto - e come sarebbe potuto non essere altrimenti? - profondità di analisi e un acume speculativo elevatissimo che, però, lo hanno reso anaffettivo e ancor più pericoloso nelle sue scelte. Sono felice che, alla fine, abbiamo convenuto su ciò da cui eravamo partiti, e cioè che ogni strumento “umano” richiede consapevolezza dei suoi limiti e utilizzo intelligente e che in sé nulla è positivo o negativo anche se neppure del tutto neutrale. Però, perdonami, non si può negare, in nome del dominio sulla natura che la capacità dell’uomo di produrlo determina, il valore di tale tecnologia e poi utilizzarla opportunisticamente per impiegarne gli effetti adattabili alla nostra visione del mondo, fino a proporli non solo come necessari in tempi di crisi ma addirittura come volano per una probabile e auspicata rivoluzione pedagogica. Non dobbiamo essere servi di una coerenza che, insieme alle contraddizioni, annullerebbe anche il dinamismo del pensiero, però neppure si può cedere alle tentazioni del momento senza collegamento col pensiero precedente e senza proiettarsi nel futuro, ipotizzando gli scenari successivi. Credo che tu, senza essertene reso del tutto conto, ti sia collocato esattamente sulla scia di quel progresso che finora hai criticato. Certamente, concordo con te, che anche un video rappresenti una forma di comunicazione: tutto è comunicazione, anche il silenzio che potrei scegliere in questo momento. Ma il problema non è quello di ricorrervi accanto alle lezioni de visu: sono consapevole che ogni forma di video aiuta, ci mancherebbe altro! e che una lezione filmata, cui tra l’altro anch’io ho fatto, faccio e continuerò a fare ricorso, sia un supporto e un’integrazione. Tutto quanto possa chiarire, stimolare, proporre modalità nuove è percorribile perché, tra l’altro, va a stimolare funzioni diverse della nostra organizzazione sensoriale e mentale – pensa con i sensi, senti con la mente – ma ciò che critico è questo innamoramento per una formazione a distanza anche quando non è necessaria. Mi sembra un voler a tutti i costi assolutizzare una modalità, figlia dell’emergenza, eternandone la supposta nobiltà. Ho sposato da giovane l’idea dell’applicazione della multimedialità alla didattica tanto da scegliere di auto formarmi a mie spese, quando non potevo istituzionalmente, conseguendo l’ECDL, una specializzazione in TIC e frequentando tutti i corsi possibili sull’uso del digitale nella didattica, iniziative che risalgono ormai a più di venti anni fa. Lo dico per rispondere all’invito che fai ai docenti italiani ad aggiornarsi in questo ambito. E, proprio perché ne sono sempre stata una sostenitrice, non con la tua straordinaria competenza, ho potuto sperimentarne qualche effetto. Da qui la mia visione niente affatto demolitrice, quanto invece fautrice ma critica. Né da innamorata né da nemica, ma da utilizzatrice consapevole della sua limitatezza.  
Per quanto riguarda il progresso, non ho mai negato la necessità di considerarne gli eccessi: come sai, perché mi onori della tua attenzione, ne ho scritto abbondantemente, evidenziando le criticità in cui si può incorrere laddove si espunga dal percorso storico la dimensione morale che per me rimane prioritaria nel definire la posizionalità dell’uomo nel mondo. Accolgo, perciò, il tuo invito al dialogo su questi temi, dialogo che, peraltro, tra di noi è sempre in atto.  
Per quanto riguarda il libro di testo, apprezzo la tua analisi e concordo sul rischio di cristallizzazione del nostro lavoro: si potrebbe finire per vivere di mestiere, dici. È vero: questa è la tentazione che molti di noi hanno, ma non è un libro di testo a renderla possibile o a tenerla lontana. Anche senza ricorrervi si potrebbe finire per riproporre, nella prassi didattica quotidiana, sempre lo stesso percorso, la medesima scelta di brani, gli stessi saggi. Tutto può diventare routine e tutto può essere rinnovato ogni giorno: è l’essere umano, che io pongo al centro di ogni riflessione e che tu poni di lato rispetto a una natura rispetto alla quale il primo dovrebbe arretrare che, nella sua imprevedibilità, sceglie cosa essere, cosa rimanere o cosa diventare. L’autonomia del pensiero e la spinta alla ricerca non sono definiti da un testo che si adotta, ovviamente, per i ragazzi, non certo per se stessi.  E, diciamolo, non feticisticamente. Costruire dei “bignami”, inoltre, non mi pare la soluzione migliore dal momento che le sintesi si fanno dai testi e si finirebbe per dover individuarne alcuni (di certo i più autorevoli o quelli che noi riteniamo tali) e operare una cernita tra quelli proposti, in un mordersi la coda inevitabile. Dici che il docente, così facendo, eviterebbe l’unicità della dimensione cattedratica: in realtà, a mio avviso, la rivendicherebbe fortemente e la potenzierebbe, ponendosi come guida carismatica affascinante ma insostituibile e “indispensabile” per il percorso didattico. E, consentimi, anche condizionante il percorso del giovane a lui affidato; è come il maestro di arte che dà il proprio taglio stilistico ai suoi studenti: molto gratificante per lui, forse “incanalante” per i ragazzi. Qui mi fermo perché attiene alla libertà d’insegnamento di ciascuno. Per quanto ti riguarda io sono testimone dell’ottimo lavoro che fai con i tuoi alunni e degli eccellenti risultati che hai avuto in questi anni di sperimentazione e di ricerca. Sicuramente tra i tuoi ci sono allievi che avranno scelto il proprio futuro in base a quello che hanno ricevuto da te; pochi i miei nella cui carriera universitaria o percorso di studio sia individuabile una traccia forte della mia presenza. In questo, dunque, tu avrai meglio interpretato il ruolo di “maestro”. E, probabilmente, sarai ricordato con maggiore incisività rispetto a me.  Non aggiungo altro se non che ti saluto e ti ri-abbraccio con affetto e stima. 

53... e sentirli tutti (con gratitudine)[a day in the life]


Ieri ho compiuto 53 anni. I cinquanta sono stati una soglia critica, soprattutto dal punto di vista fisico. E l’anno scorso, proprio tra maggio e giugno, è venuta fuori l’ernia al disco che ha posto fine alla mia carriera di calciatore della domenica, alle corse, insomma a quella sfida tacita con il tempo che avevo ingaggiato da un po’, rendendomi consapevole brutalmente che niente dura per sempre, che un filo segreto tessuto dall’infanzia era oramai reciso. 
Sono in vacanza. Rosaria ha finito la scuola con i consueti patemi, parte integrante del suo modo ansioso (e ansiogeno) di viverla. Caterina ha concluso la sua esperienza triennale alle medie. È cresciuta tanto, e di questo sono grato a tutti i docenti che ha avuto. Soprattutto nel carattere. Sono felice che viva la scuola (a differenza della madre!) senza ansie eccessive, avendo interiorizzato alcuni messaggi che ho cercato di trasmetterle da quando è piccola: i voti non hanno alcuna importanza, sia buoni sia cattivi, bisogna andare in classe con il piacere di stare con gli altri e di apprendere ogni giorno cose nuove, la competizione è sbagliata. A settembre sarà al Giannone. Mamma mia! Terza generazione, grande responsabilità per me. 
Ho passato la mattina, dunque, dedicandomi alla lettura. Oramai leggo quasi esclusivamente sul pc (tranne che d’estate, tempo in cui recupero la carta in tutti i sensi), quasi sempre con un sottofondo di musica per teorba, viola da gamba o neoclassica (Bavota e Plano le scoperte migliori degli ultimi mesi). Ci sono meravigliosi programmi (come Wondershare) per sottolineare e appuntare i testi. Ora sto completando Comunismo necessario. È una galassia di autori alcuni dei quali (Negri e Hardt in particolare) sono stati decisivi in un momento della mia vita (a cavallo del millennio). A partire dalla crisi del 2007, però, c’è stato uno spostamento significativo che mi ha portato altrove, molto lontano, addirittura, direi, agli antipodi, rivalutando, via Latouche e teoria della decrescita, il ruolo dello stato nazionale nell’arginare le spaventose conseguenze di una globalizzazione priva di controllo politico, sradicante e produttrice di iniquità inaccettabili. Eppure sto trovando nel libro tanti spunti di riflessioni (ho addirittura iniziato a scrivere un Manifesto politico per il XXI politico preso da una delle mie frequenti manie di grandezza che quasi sempre si risolvono in progetti abbandonati e dispersi nelle migliaia di cartelle del mio computer-archivio). Malgrado proprio qualche giorno fa Salvatore Esposito (durante la presentazione del libro di Amerigo Ciervo) mi abbia definito post-marxista, il confronto con l’autore del Manifesto resta decisivo (anche se la sua scrittura e la sua terminologia continuano, ancora dopo tanti anni, a respingermi istintivamente, e quest’estate vorrei leggere seriamente Gramsci). Così come la riflessione sul 1917. Il tema che mi appassiona di più, e torna spesso (per esempio in Dardot) è quello dei poteri: Stato e contro-poteri dal basso. Mi pare che il limite maggiore di questa costellazione teorica, però, che è tutto dentro il marxismo, sia la sottovalutazione della questione ambientale. Riesce ad integrare le altre grandi questioni emerse dopo Marx (“razza”, genere) ma si nota a pelle che in tutti gli autori manca del tutto una sensibilità ecologica, che invece in me è genetica dell’impegno politico. Il prometeismo di Marx sembra essere inestirpabile.
Intanto arrivavano tantissimi auguri… Io mi sento sempre indegno dell’affetto o della stima delle persone. In me convivono due persone: una fortemente relazionale, l’altra “lupesca” e solitaria, che vorrebbe essere dimenticata e sconosciuta a tutti. È uno dei tanti aspetti della mia “dualità”, che ho imparato ad accettare come costitutiva del mio essere (da alcuni anni mi appunto in un file le “strutture psichiche profonde” che individuo in me, e questa è certo quella più importante). 
Poi mi sono messo a preparare qualcosa per pranzo, mentre Caterina mi cucinava crepes vegane, e mia moglie mi aveva giù tornito una magnifica torta, anch’essa vegan a base di latte di soia, panna vegetale, cioccolato fondente. È stato bello spegnere le candeline con le persone che mi sono più care, mia figlia, mia moglie, mia cognata. Peccato mancassero Anna e Rosa con mariti e figli… Ogni compleanno diventa importante nella seconda parte della vita perché non sappiamo quanti il destino ce ne riservi ancora. La scomparsa prematura di Gerardo e Giovanni, che ricordo la sera nelle mie preghiere, in questi tristissimi mesi è lì a ricordarmelo.
Rosaria nel pomeriggio è andata a San Cumano per le grandi pulizie. Io, come quasi sempre oramai, mi sono riposato. Al risveglio sono andato in bici, unica attività oramai consentitami in maniera blanda dalla schiena, a Piano Morra, una bella zona di campagna vicino casa. Vengono sempre bei pensieri (per esempio, scrivere una tantum questa pagina di diario in pubblico). 
Ho ascoltato un pezzo dell’intervento di Dolores Morra per l’Anpi. Come sempre pieno di poesia e di voli pindarici. Mi ha fatto scoprire una cosa della Gualtieri notevolissima e una canzone meravigliosa di Nina Simone, tra l’altro. 


Nel tardo pomeriggio, ho raggiunto Rosaria in campagna. San Cumano, insieme a svariate centinaia di ettari di terra, fu acquistata dal mio bisnonno Gioacchino Zolli. Era parte del patrimonio ecclesiastico. Erano gli anni Ottanta dell’Ottocento. Per me è divenuta importante dal 1974, quando vi trascorremmo la prima estate. Era un’enorme struttura fatiscente, con un solo rudimentale bagno. Ma fu amore a prima vista. Non potrei pensare la mia vita senza un luogo cui non a caso ho dedicato Nel chiaro mondo. Nella sua aria, nelle sue pietre, nelle sue erbe che crescono incontrollate sento la presenza di mia madre e di Maria. Nel suo silenzio mi riconcilio con la realtà ogni estate, risano ferite. Nel 1984 vi ci trasferimmo definitivamente, abbandonando la città. Nel 2001 la “tradii”, tornando in città. Qualche anno dopo, per, fortuna, abbiamo ripreso la sana tradizione di famiglia di viverla d’estate. 
In serata, quasi per caso, ho visto un film di Woody Allen


Non lo facevo da parecchio. È stato regista importante nella mia formazione. Da subito, mi sono messo in atteggiamento critico. Mi infastidiva tutto. È davvero, pensavo alla fine, cartina di tornasole di uno sfacelo senza redenzione. È come se, dopo la tensione che ne animò una fase (penso in particolare a Crimini e misfatti) domini la rassegnazione ad un esistente corrotto. Il mondo è una vecchia prostituta imbellettata, che ha fatto dimenticare la sua origine e gioca a fare la donna di cultura, una festa di anziani capitalisti che aspettano di morire nelle loro case meravigliose e finte, registi che recitano all’esistenzialismo, che camuffano il loro arrapamento per una ragazzina decerebrata con nobili pensieri. E l’unica via di fuga è un tardo-romanticismo d’accatto… Non so, è probabile che Allen sia sempre stato questo, e che io sia cambiato. Possibile. Alla fine, mi veniva in mente un verso di Eliot, con variazione: «Così finisce il mondo / Non in un baccano ma in un piano bar». Quella eleganza mortifera di mostre e alberghi di lusso… Come dice mia moglie, sono un campagnolo irrimediabilmente. E un provinciale. E ringrazio Dio per questo. 
Insomma, una bella giornata piena di affetti, di abbracci, di attenzioni (anche da lontano), di pensieri, di respiri, di note. Una giornata ariosa di cui essere grato (la gratitudine è un altra delle strutture fondanti la mia psiche, forse la base stessa della mia fede).

«I got my arms, got my hands
Got my fingers, got my legs
Got my feet, got my toes
Got my liver, got my blood
I've got life, I've got my freedom
I've got life
I've got the life
And I'm going to keep it
I've got the life».





venerdì 19 giugno 2020

Videolettera a Teresa Simeone [σχολή]



La videolettera è nata dal commento di Teresa Simeone (amica e collega, nell'ordine) ad un mio pezzo apparso sul «Vaglio».

* * *

Questo il commento su FB di Teresa:

«Caro Nicola, confesso di essere un po’ imbarazzata, anche se non sorpresa, dal tuo articolo, soprattutto perché scritto da un pensatore che si è sempre dichiarato ferocemente critico, anzi del tutto contrario, al dominio della tecnologia. Se le tue esternazioni degli ultimi anni contro la sindrome prometeica sono genuine, e lo sono, faccio fatica a capire la difesa del digitale che dello sviluppo tecnologico rappresenta il prodotto più sofisticato. Sembrerebbe quasi che si siano invertiti i ruoli tra me, che di solito difendo, criticamente sì ma lo faccio, i successi dell’intelligenza umana, e te che ne neghi, insieme alla hybris, anche il valore.
Apprezzo il tuo attivismo e l’utilizzo capace del mezzo informatico, mezzo informatico che padroneggi benissimo, grazie a uno studio continuo dei suoi progressi, altra parola che hai espulso dal dizionario linguistico ma che mi pare fortemente presente nel tuo vocabolario concettuale di docente. Vorrei, perciò, che mi spiegassi nel dettaglio in che modo una video-lezione possa essere migliore di una lezione in presenza, dal momento che frontale è la prima e frontale la seconda, con la differenza che la seconda è realmente interattiva e si rivolge a esseri umani e non a un monitor.
Forse, caro Nicola, a forza di rendere attraente la lezione abbiamo finito per ridurre lo studio a un passatempo, negando all’approfondimento e allo sforzo il loro valore formativo. In che modo realizzare un video amatoriale aiuta a rendere più acuto il pensiero? Più ampio sì, più versatile ma non credo più profondo. A me pare, onestamente, e lo dico da docente progressista e umanista, che la capacità critica non sia stata potenziata da una scuola più allettante e facile, anzi che questi elementi, che avevamo auspicato - io per prima, lo confesso - abbia reso tutto più superficiale, inconsistente, effimero, apparente. Come le vetrine di questi ultimi mesi in cui le scuole hanno fatto a gara, mentre soffrivano persone e morivano cari, a “produrre” elaborati, filmati da proporre sui loro siti in linea con quella che si critica come “Buona scuola” ma nella quale si finisce per essere perfettamente integrati.
Nulla concede la vita senza grandi sforzi, chiudi. Appunto: forse, dopo l’ubriacatura del “tutto dev’essere facile e gradevole”, è tempo che si ricominci a rimanere sulla sedia e a studiare come una volta, lasciando da parte i giochi e aprendosi alla fatica dell’impegno.
Scrivi che la DaD può diventare una risorsa: personalmente, al di là dell’emergenza e di poche situazioni straordinarie ( ospedalizzazione, località impervie lontane da scuole, incapacità di ascoltare relatori in presenza), non vedo tanta rivoluzione pedagogica. Dobbiamo rendere propizia la catastrofe? Ma perché? Cosa significa, nella pratica? Un conto è utilizzarla perché non ci sono alternative, un altro proporla addirittura come turning point. A me pare che a volte si faccia esercizio puramente linguistico e che si sia più innamorati delle parole, suadenti e dolcissime, che non di quello che significano.
Un’ultima riflessione sui libri di testo. Il metodo scientifico, che tu tanto aborri, prevede che non si bocci a prescindere una teoria ma la si sottoponga a verifica sperimentale. Così ho fatto io in passato: mi pareva una grossa opportunità sganciare l’insegnamento dalla dipendenza ai libri scolastici, permettendo agli studenti di non spendere trenta euro per un testo che, sommati a quelli per tutti gli altri, avrebbe gravato fortemente sul budget delle loro famiglie. Ho così rinunciato ad adottarne uno e iniziato a cercare brani, pezzi di opere da proporre. A un certo punto mi sono resa conto, in particolare per la Storia, che gli studenti non riuscivano ad avere una linea temporale continua e definita, che procedevano a scatti e che non riuscivano a contestualizzare correttamente gli eventi. Spesso si affidavano a Internet dove, come sai, manca una guida attendibile e autorevole. Neppure l’aspetto economico veniva salvaguardato dal momento che risultava essenziale stampare, per poterle meglio studiare, le parti che si proponevano, con l’effetto di costringere i ragazzi ad accumulare carte senza avere un libro ordinato e rilegato da consultare: solo un mare di fotocopie, slegate e disorganiche. Ma l’interrogativo più importante riguardava, oltre l’attendibilità dei saggi proposti, il taglio dato dal docente. Mi spiego: nel momento in cui rifiuto un libro accreditato da storici importanti, il cui valore è stato testato da professionisti (i docenti) e da fruitori (gli studenti) che di volta in volta con le loro osservazioni lo hanno migliorato, lo faccio perché, evidentemente, propongo una mia lettura della storia. A prescindere dal fatto che in un libro di testo, come sai, ci sono parti antologiche scelte, spezzoni di film, video didattici e brani di saggi autorevolissimi, che possiamo utilizzare, ignorare o sostituire, ma come potrei mai pensare che la mia chiave di lettura sia migliore di quella di un Sabbatucci o di un Barbero o di un De Luna? Con tutto il rispetto per l’autonomia della ricerca, mi sento una formica di fronte a questi storici e presuntuosa nel proporre agli studenti una visione alternativa, negando quella di ricercatori che non sono semplicemente studiosi di storia ma storici veri e propri. Per questo motivo, dopo aver sperimentato, sono tornata a proporre un libro di testo. Serio sì e a difesa di fake da web, oggi tanto pericolose. Lo consulto pochissimo ma rimane una guida, un insieme di tracce fondamentali per i ragazzi che una visione storica ancora non ce l’hanno e, prima di destrutturarla, se la devono strutturare. So già che molti bolleranno come retrive queste posizioni ma, come facciamo entrambi da sempre, noi procediamo secondo ciò che ci sembra giusto. Ti saluto caramente e ti auguro un buon ritiro».

giovedì 18 giugno 2020

Ricomincio da capo [πολιτική]

«Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta».
Giustamente i giornalisti hanno interpretato l’affermazione di Beppe Grillo come una feroce critica all’uscita di Alessandro Di Battista che reclamava un congresso del M5S.
L’espressione sta diventando usuale e, come spesso capita, viene utilizzata anche da chi non ha visto il film. Si tratta di una commedia divertente, perfetta da utilizzare a fini didattici (per i problemi morali ma non solo che pone), che ha avuto un meno felice remake italo-spagnolo con Antonio Albanese
Il titolo del film originale suona: Ricomincio da capo (potrebbe essere una profezia!). In sintesi, è la vicenda di un insopportabile metereologo, inviato punitivamente a fare cronaca di un evento marginale (Il giorno della marmotta, appunto), che frustra le sue smisurate ambizioni. Inspiegabilmente, egli si trova imprigionato nella ripetizione del medesimo giorno, in cui accadono, intorno a lui, sempre le stesse cose. Filosoficamente potrebbe essere una visione meno tragica di quella proposta da Nietzsche dell’eterno ritorno dell’uguale. In realtà, il regista, il compianto Harold Ramis (uno dei Ghostbusters), racconta come una riflessione seria su di sé possa trasformarci, rendendoci migliori. Soprattutto il protagonista impara ad esercitare empatia, a guardare oltre il suo esigentissimo naso e, finalmente, a capire i bisogni altri. Insomma, dal narciso bello e ambizioso sboccia un uomo. Alla fine di questo processo di metamorfosi, dalla bestialità dell’egoismo all’umanità dell’altruismo, può uscire dal “circolo” e rientrare arricchito nella linearità del tempo.
Ora, sicuramente Grillo ha visto il film. Non credo che però, utilizzando nella maniera oramai usuale e passata nell’eloquio comune, si sia reso conto che «il senso del tempo» evocato dal film è altamente pedagogico. Il Dio che presiede l’immaginario cinematografico, il Dio che rende tutto possibile, imponendoci la sospensione dell’incredulità, ha fatto sì che Phil Connors, confrontandosi con tutti i suoi possibili sé, quello edonistico e quello suicida, alla fine diventi realmente il se stesso migliore. 
Allora, un po’ come l’espressione «in bocca al lupo», di cui abbiamo imparato una interpretazioni ecologica e animalista (non esiste luogo più sicuro della bocca di mamma lupa per i cuccioli), rimanere nella temporalità del giorno della marmotta potrebbe voler dire che possiamo diventare migliori, che ci viene data una seconda, magica opportunità. Ma, appunto, queste cose, purtroppo, accadono solo nel cinema.

domenica 14 giugno 2020

Rivedere la miniserie "Watchmen" per capire l'America oggi

Le vicende statunitensi di questi giorni riportano prepotentemente alla ribalta l’intuizione su cui Damon Lindelof ha costruito il suo Watchmen, evento televisivo spartiacque, capace di entrare nel profondo delle contraddizioni a stelle e strisce, dialogando con il capolavoro di Moore e Gibbons in assoluta autonomia.

Il fumetto, pubblicato tra il 1986 e il 1987, che noi leggemmo su uno spillato allegato a «Corto Maltese» una paio di anni dopo, in una feroce ucronia - che ribaltava tutti gli stereotipi supereroistici – metteva in scena le paure legate alla “guerra fredda” e alla minaccia del conflitto nucleare (nel 1983 era uscito il mediocre filmicamente ma shoccante The day after).
Lindelof, immaginando un 2019 ucronico (in cui Robert Redford è il Presidente degli Stati Uniti), accanto ad alcuni protagonisti invecchiati (male!) del fumetto, inventa nuovi personaggi, collocandoli al centro della storia che si snoda intorno ad una cospirazione “suprematista”. La sesta puntata della miniserie, incentrata sulla figura chiave di “Giustizia Mascherata”, vigilante “nero”, costretto a dissimulare la sua identità (razziale e sessuale) è un capolavoro assoluto che disvela l’ipocrisia su cui la società americana si regge e che finisce col riprodurre, proprio perché non vuole vederli, i medesimi orrori, con un ciclicità impressionante.
La scelta di Lindelof relativa al Dottor Manhattan rappresenta l’emergere di una “cattiva coscienza” che sente il bisogno (positivo e ammirevole, sia chiaro!) da parte dei bianchi di risarcire “il lato oscuro” della loro patria.
L’invito fervente, dunque, è a rivedere questo capolavoro o a vederlo per chi l’avesse perduto. La minaccia vera è certo costituita anche da una tecnoscienza priva d’anima che gioca a fare dell’uomo Dio, ma soprattutto è in una male antico, lo stesso che portò alla strage di Tulsa, e che spinge i riveriti tutori della legge a nascondere in comparti segreti dei loro armadi le tuniche del KKK…




venerdì 12 giugno 2020

Incontri [σχολή]




Una chiacchierata a volo con un ex allievo, ora docente (precario, per poco), già autore di due romanzi, uno dei quali volle prefato da me. Divertente la richiesta: «Scrivo al Nicola di Lettere…». Ci ho pensato, e sono venute fuori alcune considerazione apparentemente slegate.

1. Esistono il “Nicola di Lettere”, quello che avrei dovuto essere per storia familiare e formazione universitaria, e il “Nicola professore di Filosofia”, frutto del caso o, meglio, della complessità della vita nei suoi spesso imperscrutabili disegni (l’unico esame di Filosofia, e che mi avrebbe consentito di accedere al concorso, mi fu letteralmente imposto dalla docente con cui mi sarei laureato). Ci sarà mai un modo di sanare questa frattura? Un luogo, ad esempio, in cui le mie passioni possano fluire liberamente, dove la poesia potrà dialogare con il pensiero senza essere “ospite”?

2. Con Davide abbiamo parlato del Programma concorsuale. Rimanendo al Novecento, ho notato l’inserimento di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Zanzotto e Caproni nel “canone” dei grandi (benissimo!). Mi ferisce l’assenza di Fortini (sanguinosa!), autore destinato ad essere rivalutato nel corso dei decenni, quando la sua opera sarà diventata “ben morta”.

3. Mi sono permesso, in un’appassionata divagazione, di sollecitare Davide, quando presto avrà la sua cattedra, di valorizzare l’approccio diretto con i testi, soprattutto quelli poetici. Purtroppo la maggior parte dei docenti vive la poesia come genere d’un altro tempo. Quanti conoscono e leggono la poesia contemporanea? Una delle esperienze per me più frustranti è sentire i ragazzi leggere un testo in versi senza coglierne minimamente la ricchezza sonora. In tal senso laboratori di poesia potrebbero servire: non a produrre altri poeti ma a rendere consapevoli di cosa accada nel laboratorio di un autore (non nel senso deteriore, però, della critica formalista e strutturalista che già troppi danni ha fatto nel quarantennio alle spalle educando a relazionarsi ai testi come a giochi).

4. In tal direzione, l’unico testo critico da leggere obbligatoriamente sarebbe Vere presenze di Steiner, di cui ho già scritto in diverse circostanze.

5. Da cinque anni non utilizzo libri di testo per la storia e per la filosofia. Se fossi docente di italiano farei lo stesso per liberarmi sia dal vincolo dei testi da leggere (perché di Leopardi si legge sempre Il dialogo della Natura e mai, ad esempio, Il frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco?) sia perché l’apparato di introduzioni, note, spiegazioni soffoca la creatività e la spontaneità dell’atto ermeneutico. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui accadono esperienze (estetiche, etiche, conoscitive), non la palestra di critici letterari in erba! È il docente che deve “far parlare” il testo, partendo dalla sua lettura. Quanti docenti sanno “leggere” un testo, lo sanno interpretare (come un musicista fa con lo spartito)?

6. Chiudo, dunque, con auspicio. Che la nuova generazione di docenti che entrerà nella scuola coltivi in prima persona la passione per la poesia (l’Italia nel XX secolo ne ha prodotta di straordinaria). E educhi, attraverso la lettura diretta, all’incontro trasformativo con una bellezza che, da sempre, è anche (direi soprattutto) verità.

martedì 9 giugno 2020

Nel groviglio degli anni Ottanta. 2. Gli anime giapponesi


L’eccellente libro di Adolfo Scotto di Luzio non si poneva come obiettivo la ricognizione delle idee, degli stili di vita, dell’immaginario che ha dominato gli anni Ottanta. Per questo, stimolato dalla lettura del libro, ho intrapreso una breve anamnesi autobiografica relativa al decennio, partendo dalla scuola.
Ora vorrei occuparmi del peso che ebbe su quella generazione la prima invasione degli anime giapponesi. Chi aveva circa dieci anni nel 1978 fu travolto da due shock: Heidi e Goldrake, con stili e temi diversissimi, riplasmarono un mondo fantastico fino ad allora abitato per lo più da Silvestro, Will Coyote (Warner Bros) e Yogi e Muttley (Hanna & Barbera), molti telefilm (Zorro, Furia, Woobinda). Avemmo tutti la percezione di qualcosa di completamente nuovo (che per molti si intrecciò all’emozione del primo televisore a colori). Personalmente, in un tempo in cui non esistevano apparecchi di registrazione, ricordo l’ansia di non voler perdere neanche un episodio, l’amore per le sigle imparate a memoria, la progettazione di tute e robot che alimentavano la passione per il disegno. Se Goldrake e Actarus restano un mito fondativo per noi italiani, anche gli altri che seguirono (da Mazinga a Jeeg Robot, da Daitarn a Gundam, che per me fu una sorta di congedo da quel mondo) ebbero un peso decisivo nella formazione del nostro immaginario. Io mi svegliavo presto la mattina per poter vedere, su Telecapri, Jeeg Robot prima di andare a scuola. Un ricordo vivido in un tempo in cui la televisione non pervadeva le giornate e il televisore aveva  una sua precisa collocazione domestica.
Provo, per la prima volta, a dare un senso a questa passione travolgente e innestarla nel quadro di una Bildung generazionale. Il dato che spicca è che si tratta di un mondo semplice dove non ci sono zone grigie tra il bene e il male, che è (nella stragrande maggioranza dei casi), letteralmente, l’Altro, l’Alieno («Va… distruggi il male e va / va… distruggi il male e va / mille armi tu hai, non arrenderti mai / perché il bene tu sei, sei con noi»)





Questa quasi assoluta mancanza di sfumature, questo “manicheismo morale”, avrebbe lasciato una traccia profonda. Credo, insomma, che la dimensione “etica” che Scotto di Luzio evoca ripetutamente nel suo libro, spesso in sotterranea contrapposizione a quella squisitamente politica delle generazioni precedenti, trovi anche in questa formazione la sua giustificazione. 
Il secondo elemento che mi pare di poter cogliere riguarda l’idea di una violenza “difensiva”. Elaborato il rifiuto della violenza offensiva (personalmente la morte di Moro fu lo spartiacque), saremmo cresciuti con l’idea che solo una guerra “partigiana” sarebbe stata legittima e “giusta”. Anche in questo caso, le marce per la pace, le icone “pacifiste” scelte a modello trovano qui un possibile antecedente. 
Il terzo elemento è quella fascinazione (mista a terrore) per lo spazio che, nel corso degli anni Ottanta, si sarebbe dispiegata pienamente, preceduta da serie televisive come Star Trek e Spazio 1999. Da questo punto di vista, mi pare che opera chiave, con la sua estetica dark, sia Capitan Harlock. Questi versi potrebbero essere un vero manifesto generazionale, una riattualizzazione del mito di Robin Hood in versione sci-fi:
Fammi rubare capitano un'avventura
Dove io son l'eroe
Che combatte accanto a te
Fammi volare capitan senza una meta
Tra i pianeti sconosciuti
Per rubare a chi ha di più.





Se faccio un salto indietro, nella mia storia (ma la so condivisa solo da un pezzo della mia generazione), colgo l’importanza del fumetto (soprattutto quello Marvel) come apertura al fantastico. E, dunque, se ne potrebbe complessivamente trarre l’impressione di una “infantilizzazione” dell’esperienza. Mi chiedo se i brividi che ancora mi danno le sigle di quei cartoni sono solo legati alla nostalgia o se in essi trovo le radici semplificate del mio agire, del mio ethos. E rispondi che, sì, «corri, ragazzo, laggiù» è ancor oggi rivolto a me… «corri in aiuto di tutta la gente, dell’umanità».





Postilla

La generazione cresciuta con i robot  ha introiettato l'idea che il rapporto con il reale fosse sempre mediato dalle macchine, che non fosse mai diretto. Esattamente come per la pornografia (cui vorrei dedicare una riflessione a parte), a differenziarci era una necessaria "distanza". Noi siamo letteralmente la prima telegenerazione, non solo per la centralità che il medium (la televisione ha avuto) ma perché tutte le nostre esperienze sono state "a distanza".



P.S.
La mia sigla preferita


lunedì 8 giugno 2020

Libri che cambiano la vita

Caterina discuterà per l’anomalo esame di Terza media un tema nato dalle discussioni fatte in queste settimane: l’ebraismo. Orgogliosa, ha voluto fare quasi tutto da sola. E lo considero un segno importante di maturazione. Tra i vari materiali recuperati per cercare spunti una sintesi della Bibbia illustrata su cui mi sono formato. Trascorrevo ore intere a leggere la storia del popolo ebraico, innamorandomi di Sansone e Davide, prima di arrivare alle vicende di Gesù. Riguardandolo ora scopro che i disegni in cui mi immergevo, per quanto di piccolo formato, erano di un grandissimo maestro della Nona arte, Gianni DeLuca, uno dei più raffinati disegnatori italiani. E ringrazio, dunque, il caso di questo duplice incontro: per lo splendore delle storie bibliche e per le immagini che si sono scolpite nella mia mente.

Lo scorro dopo quasi quarant’anni. Ricordo l’angoscia del diluvio universale, la lotta di Giacobbe con l’angelo, Giuseppe che racconta i suoi sogni profetici, i primogeniti morti in Egitto nelle braccia disperate delle madri…
Invecchiando, scopro che quel patrimonio di storie, simboli, riti, che ha accompagnato la mia infanzia fino alla crisi dei diciassette anni, mi ha plasmato nel profondo. Il compito della mia vita, nella sua ultima parte, sarà quello di estrarre il succo vitale di quella eredità.
La morale di questa vicenda è che un solo libro può irradiare effetti immensi nell’esistenza intera contribuendo alla sua formazione spirituale, etica ed estetica.
Malgrado mia madre avesse l’ottima abitudine di scrivere chi ci avesse regalato quei libri, in questo caso non ci sono tracce. Probabilmente lo comprò lei.
Regaliamo libri (meglio se illustrati) a figli e figli di amici. Potremmo, senza saperlo, cambiare le loro vite.

giovedì 4 giugno 2020

Spigolature sull'ucronia e il suo uso didattico (a partire da P.K. Dick) [σχολή]

Ho scritto su «Sonar» di questi argomenti. Ci torno per qualche spigolatura.


1. The man in the high castle

La serie merita sicuramente di essere vista, anche la quarta stagione stroncata da una parte della critica, che invece presenta intuizioni felici che pur la portano lontanissima dal romanzo La svastica sul sole. Sempre più, infatti, la “salvezza” - che in Dick viene affidata a processi autonomi di “illuminazione” interiore e pertengono, dunque, la sfera etica (come in Tagomi) o estetica (come in Childan o Frank) o spirituale (come in Juliana) – appare demandata ad un arduo percorso di consapevolezza politica, che in alcuni passa dalla messa in discussione del retaggio familiare (Jennifer Smith), in altri dalla storia del proprio “popolo” (la resistenza comunista dei neri americani). Il messaggio finale: ci sono molte Americhe. Una certamente “collaborazionista”, che trova nel nazismo la verità profonda delle sue pulsioni razziste e antisemite. Ho trovato sintomatico (e “adulto”) il rifiuto da parte della BCR della bandiera a stelle e strisce come simbolo di una riscossa unitaria: Elijah la rigetta come segno di un Paese che vessava il suo popolo. E, dunque, le alleanze vanno cercate altrove: con i Latinos, con gli Ebrei, finanche con i disertori nazisti preferibilmente (quanto vero in questi giorni americani dove riesplode la questione razziale...).
Mi è apparso particolarmente rilevante che al centro della narrazione e delle sue svolte vi siano delle donne. Semplificando, potremmo dire che se il “male assoluto” è rappresentato sempre da maschi (in particolare Hitler, Heusmann, Himmler, Smith, Black, questi ultimi nel loro tormento), pur non mancando donne molto malvagie (soprattutto in virtù del loro fanatismo, come ad esempio Margarete Himmler), i personaggi femminili sono il polo positivo, luminoso. In assoluto, va da sé, Juliana Crain (come nel romanzo, centro dell'intera vicenda), ma anche la “pacifista” principessa Michiko, la leader guerrigliera della Black Communist Rebellion, Bell Mallory, la stessa Helen Smith, il personaggio più complesso e tormentato della serie, che alla fine diventerà il deus ex machina dell’intrigo. Ma anche personaggi minori, come la prima figlia di questa, Jennifer, o la compagna, poi moglie giapponese di Robert Childan o le tante donne anonime che supportano la resistenza (ad esempio la panettiera rimasta sfigurata dall’esplosione atomica o la leader della comunità cattolica in cui Frank trova provvisoriamente rifugio).

2. Dick genio ma...

Una provocazione su cui tornare: e se Dick fosse un genio ma non un grande scrittore?

 3. Civilizzazioni: un romanzo ucronico

Proprio quando chiudevo il pezzo per «Sonar» ho scoperto che era uscito un libro ucronico che si presenta intrigante. Si tratta di Civilizzazioni di Laurent Binet (La nave di Teseo, 2020) in cui gli  amerindi attraversano l’Oceano e sottomettono il vecchio continente. 
Al di là dell’effetto straniante (che è sempre “risveglio” da un sonno dogmatico), tali esperimenti ucronici, come ho suggerito, possono essere proficuamente messi al servizio della didattica della storia, non solo nel senso di una sua maggiore appetibilità (la storia è da sempre una delle materie meno amate dagli studenti). L’ucronia è un esercizio di libertà. Soprattutto se viene fatta applicare anche al proprio vissuto. Ad esempio, la bella invenzione della serie di cui abbiamo parlato (assente nel romanzo), per cui alcuni personaggio (Tagomi e Smith) “vedono” in un altro mondo del multiverso loro vite alternative, può spingere un bravo docente a guidare gli allievi lungo ricostruzioni alternative delle proprie vite, individuando dei veri e propri punti di svolta. Passando poi allo stesso esercizio nel campo storico.

4. Filosofia e serie tv

Oltre che per la storia, le serie tv possono rivelarsi preziosi anche nell’insegnamento della filosofia.
Un giovane professore di filosofia, Tommaso Ariemma, si è cimentato con questa sfida utilizzando Walking Dead, Lost o Black Mirror per spiegare Platone, Aristotele o Cartesio.
Poiché nella “formazione” dei nostri ragazzi le serie sono destinate ad avere nei prossimi anni un peso determinante è bene, dunque, dotarsi – anche sperimentalmente e ciascuno per proprio conto – di strumenti adeguati ad integrare tutto questo in una visione del mondo quanto più possibile coerente.





mercoledì 3 giugno 2020

Storia imprevedibile del mondo [σχολή]



Dopo le prime settimane “eroiche”, la mia DaD è diventata sperimentazione di piccoli gruppi che, anche stando alle relazioni di fine anno che i ragazzi stanno creativamente e liberamente stilando (cfr. qui), sono stati il momento più significato del percorso da marzo a oggi.
Ho lasciato ampia libertà di scelta ai ragazzi stessi dei temi da affrontare: siamo andati dal “Cinephysis” (troppo lungo da spiegare il senso del nome, un'altra volta), in cui i ragazzi hanno visto film che probabilmente non avrebbero mai degnato di attenzione (ma adatti ai loro ritmi), al “404 Jesus not found”, in cui abbiamo letto il libro di Augias e Pesce dedicato al Gesù storico, dalla lettura di quotidiani e riviste su temi d’attualità al cineforum dedicato ai film storici legati al percorso. Discorso a parte merita “La setta dei poeti estinti”, le cui stille spero possano diventare una piccola pubblicazione (cui lavorare durante l’estate).
Uno dei gruppi ha lavorato, su mia proposta, intorno ad un libro molto atipico di storia, che mi sento di consigliare caldamente ai colleghi di ogni disciplina perché, a mio avviso, è esempio eccellente di ciò intorno a cui spesso noi giriamo a vuoto o tornando su temi triti e ritriti cercando connessioni interdisciplinari. Si intitola Storia imprevedibile del mondo: Tutto ha una storia, anche quello che non ti aspetti, e tutte le storie sono collegate. È uscito nel 2019 con il Saggiatore. Autori due storici inglesi, Sam Willis e James Daybell, che scrivono introducendolo: 

 «Questo libro affonda le sue radici nel nostro podcast intitolato Histories of the Unexpected, un’esperienza che, in quanto storici di professione, ci diverte e stimola più di qualsiasi altra cosa ci sia mai capitata prima. Ha completamente cambiato il modo in cui pensiamo al passato – e al presente – e speriamo sortisca lo stesso effetto su tutti voi.
L’idea è semplice. Noi siamo convinti che ogni cosa – e intendiamo proprio qualunque cosa, anche gli argomenti più sorprendenti – abbia una sua storia e che tutte quelle storie siano legate in modi imprevedibili e spesso quasi magici.
Questo libro vuole essere un viaggio alla scoperta della storia in cui si affrontano alcuni fra i più grandi temi del passato – dai Tudor alla Seconda guerra mondiale, dall’impero romano all’epoca vittoriana – passando però attraverso argomenti davvero sorprendenti.
In queste pagine scoprirete che la storia della barba rimanda alla Guerra di Crimea; che nella storia delle graffette si parla della Stasi; che la storia della bolla (ma anche quella dei gatti) è intrinsecamente legata alla Rivoluzione francese; che il Titanic, il disastro nucleare di Hiroshima e Ground Zero sono tutti collegati e hanno anche a che fare con Grandi speranze di Charles Dickens; saprete perché la storia della cicatrice è così importante; perché la storia dei camini è tanto affascinante; perché la storia della neve è una ricca fonte d’ispirazione».

Inevitabile per me incontrarlo. Ho sempre vissuto con insofferenza da docente la storia come usualmente mi è stata insegnata e, purtroppo, viene insegnata. Ho sempre pensato che quanto costituisce la quotidianità di «gente meccaniche e di piccol affare» sia meritevole di attenzione quanto e più di quel che accade a sovrani e «qualificati personaggi». Quella che chiamo in senso lato «storia materiale» mi appassiona ben più di battaglie e paci. Cerco di trasmettere tale approccio alla storia ai miei allievi, innestando nella programmazione letture di saggi dedicati all’alimentazione piuttosto che all’abitare, al vestire piuttosto che alle pratiche sessuali
Il libro in questione è una vera miniera. Purtroppo ne abbiamo potuto leggere solo pochi capitoli, scelti a turno dai ragazzi (dedicati alle lacrime, ai sogni, al coraggio, all’ombra, all’odore, alla firma). A tale letture si sono accompagnati, talvolta, dei lavori creativi “a partire dal” testo. E qui ho colto una possibilità per il futuro da perfezionare, notando come un “contenuto” possa consentire al ragazzi un lavoro di elaborazione autonomo che stimoli i suoi personalissimi talenti. 
Ad esempio, Giulia, Rebecca e Chiara hanno postato queste immagini realizzate da loro quando abbiamo lavorato sulle mani. 


Elvira, invece, ha scritto:
E tu che mi chiedi
come t’amo,
traditrice la mia mano
prende la tua
rivelando tutto
le mie dita si intrecciano
con le tue
formando un sinolo
e, così le nostre dita, così le nostre anime.

In assoluto, devo dire che mi è piaciuta moltissimo l’intervista che Gianmarco ha fatto a Marika, in relazione agli odori, che riporto integralmente. 

Il testo Storia imprevedibile del mondo, nel capitolo sul profumo, dice che grazie alla tecnica di Bermuda è stato possibile estrarre aromi da edifici e oggetti di vario genere come i libri! In seguito parla dell’odore dei libri vecchi, che è sostanzialmente acido acetico, benzaldeide, esanolo e vanillina. Fragranza che è apprezzata da molti, infatti coloro i quali odorano in modo compulsivo i libri sono affetti dalla bibliosmia. Per saperne di più a riguardo ho deciso di intervistare una bibliosmiaca puro sangue, una sedicenne di nome Marika Mirra che frequenta la prima liceale del Giannone. Ci tengo a specificare che la testimonianza di Marika è stata integrata con fatti non reali. Potremmo dire che questa intervista è tratta da una storia vera ma gonfiata con alcuni dettagli. La domanda 6 è del tutto inventata. Ho chiesto a Marika il permesso di poter scrivere il suo nome e di porle qualche domanda, lei ha gentilmente risposto.

Intervista ad un’annusatrice seriale

1) Ciao Marika, grazie per aver accettato di rispondere a qualche domanda, ma saltando i convenevoli e andando subito al sodo, partiamo da una domanda facile facile, puoi dirci quando è iniziata questa tua “mania” di annusare i libri?
- Beh se proprio vuoi che vada direttamente al sodo, ti dico che sin da piccolina ero solita annusare i libri, soprattutto i saggi scolastici, l’odore della carta fresca delle cartolerie. Andando avanti col tempo è diventata una mania progressiva. Ad onor del vero va detto che all’epoca non avevo alcuna idea della composizione chimica della carta, nonostante la dipendenza che questa generava ora invece posso definirmi quasi esperta. Pensa che in molti libri è curioso trovarci la benzaldeide, sostanza che sa un po' di mandorle amare, invece meno rassicurante è sicuramente la presenza di etilbenzene, un sospetto cancerogeno. Eh già, pare che i libri molto vecchi siano fatti essenzialmente di quelle sostanze, meglio non annusarli affatto!

2) Grazie per questa interessante parentesi sulla composizione dei libri, credo tu sia un’esperta a tutti gli effetti. Colgo l’occasione allora, rimanendo nel campo della scienza, per porti un’altra domanda. Un chimico inglese Andy Brunning ha cercato di rispondere alla seguente domanda: per quale motivo l’odore emanato dai libri affascina? Ti rivolgo lo stesso quesito, cosa ti attrae dell’odore di un libro?
- Ad essere sincera, escludendo il fattore chimico, non saprei, oramai è un riflesso condizionato. So solo ce se non odoro un libro avverto una sensazione di scomodità, sembra strano, ma ha degli effetti anche sulla respirazione che diviene irregolare, è come se il mio corpo opponesse resistenza. Appena un libro sfiora le mie mani il mio naso fiuta subito la sua fragranza inebriante, pensa che ci sono casi, (rari sia chiaro!) che non riesco a sfogliare la pagina appena letta se prima non gli do una “sniffata” seppure veloce! Un fastidio mi pervade che non mi consente di proseguire la lettura, è come se la mia concentrazione si indebolisse.

3) Wow! Da immune dal vizio, mi risulta impensabile, quasi ti invidio! Da una lettura tu riesci a trarre un piacere incommensurabile. Andiamo avanti. Hai parlato di “sfogliare”, allora la domanda è quasi spontanea: cosa pensi degli e-book? Quale sarà il futuro? Pensi che la nostra benamata carta possa non tramontare mai?
- Bella domanda, ti rispondo subito. Non credo tramonterà mai. O meglio, se fosse stata al capolinea, l’era del cartaceo intendo, gli e-book avrebbero sormontato di gran lunga la carta, invece scopro (con mia somma gioia!), che non è così. Il libro cartaceo è sacro. Tuttavia pur di leggere mi sono adattata anche al digitale, ma girare per una libreria vera è un’esperienza non paragonabile in alcun modo a nessun fornitissimo catalogo virtuale. Inoltre facilmente intuibile è il primo problema degli e-book… Non odorano! Però, c’è un però. Si è ovviato al problema comprando veri e propri “deodoranti all’aroma di libro”. Ciò dice molto sull’importanza di un buon profumo , determinante, durante l’esperienza di lettura. Sentire nell’aria certi aromi ci rilassa, conducendo la nostra psiche verso stati d’animo che ricordiamo con piacere.

4) Non si finisce di imparare mai cose nuove… candele e deodoranti all’aroma di profumi, chi lo avrebbe mai pensato. Tu hai parlato di ricordare… ecco a tal proposito non vi è alcun dubbio che l’odore di alcuni libri sia legato intimamente a chi li ha posseduti. E’ giusto quindi affermare che i libri hanno il potere di assorbire qualcosa, che poi si manifesta nel profumo?
- Assolutamente sì. Anzitutto come capì ben presto Proust, vi è un legame sorprendente fra gli odori e la memoria. Alcuni libri riportano a determinati ricordi perché qualcosa di chi li ha letti, maneggiati resta come impigliato fra le pagine. Non credo sia solo suggestione. Ogni volta che apro l’anta della libreria chiusa, dove conservo alcuni libri, vengo investito da una fragranza delicata. Forse in parte è anche l’odore del legno del mobile, che unito alle pagine di libri e riviste fa un delizioso mix che sa di “casa”. Quando entro in una edicola è quasi immediato il ricordo dell’infanzia. Quell’odore di cui sono intrisi quei fumetti di topolino, oramai abbandonati, riporta alla mente aspetti del passato, legami, dettagli intimi e personali. Ci tengo a sottolineare che i fumetti hanno un odore particolare, forse perché per la maggior parte sono fatti di carta riciclata, credo. Alcuni fumetti vecchissimi odorano di pane bruciacchiato.

5) Bene ne comprerò qualcuno. Questa intervista, a malincuore, si avvia al termine. Marika possiamo parlare un attimo dei tuoi gusti. Hai delle preferenze? Nel dettaglio: meglio i libri vecchi o quelli freschi di stampa? Il genere del libro influenza in qualche modo, un horror ispira una fragranza meno gradevole?
- Molti bibliosmiaci non converranno con me nell’affermare che non c’è profumo di libro che tenga, all’aroma di carta e inchiostro di un libro stampato da poco. Adoro annusare libri anche datati, trovati un vecchio scaffale. Attenzione, questo è un avviso per un probabile lettore bibliosmiaco, disinfettate i libri vetusti, per così dire, perché si potrebbero inalare muffe non sane per il nostro corpo. Quindi è bene disinfettare, o nella peggiore delle ipotesi mandarli al macero, se c’è poco da salvare. Una mia amica ha ereditato dei libri, che erano stati conservati in cantina, letteralmente ammuffiti. C’erano edizioni vecchie di grandi classici, li avrebbe potuti donare (perché oltretutto i libri malati impregnano anche quelli sani), ma non le è stato possibile. Sono stata un po' prolissa, scusa per questo inciso. Non essendo una psicologa non so fino a quando un genere possa condizionare il lettore. Personalmente qui non ho preferenze. Quando leggo un horror, beh… non ho paura ad annusarlo ecco. 

6) Ultima domanda lo giuro. Ci tengo però prima a ringraziarti ancora una volta, è stata un’intervista che mi ha appassionato molto, si sono affrontate tematiche importanti come gli e-book. Per questo volevo farti un’ultima domanda, di carattere sociologico. Quali sono le reazioni più diffuse quando qualcuno vede annusarti n libro? Vince lo stupore, il pregiudizio, o, e mi auguro di no, la derisione. So che è una domanda un po' spinosa, puoi anche astenerti dal rispondere.
- Non ho alcuna difficoltà nel risponderti perché ho mai ricevuto alcun tipo di beffa, non sono mai stata oggetto di prese in giro. Certo ho assistito a qualche risatina forse dovuto all’imbarazzo, ma non le biasimo. Tornando alle reazioni più frequenti, molti sono pervasi da una curiosità, quasi morbosa. Altri invece preferiscono il silenzio, talvolta disinteressato, talvolta semplicemente non sanno che dire. Ecco l’unica cosa che ci tengo a specificare e che non si tratta di una patologia o peggio ancora di una malattia. Per il resto non credo che siamo una categoria, se tale ci possiamo definire, che viene presa di mira. Siamo una società abituata a rapportarci al diverso sempre con una certa diffidenza d'altronde».