Insegno nelle scuole
superiori. Le cose che dirò potranno apparire scontate e prive di cultura
scientifica. Vogliono essere un chiarimento a me stesso in pubblico su cosa
penso del rapporto degli adolescenti con le droghe leggere e su quale dovrebbe
essere l’approccio degli educatori alla questione nelle aule scolastiche
(questo luogo di prigionia in cui pure si forgiano gli uomini di domani).
Non ho mai fumato una
“canna” in vita mia, anche se questo può sembrare strano. Ho fatto due tiri
(due!) una volta, per accontentare due alunni che volevano vedere fumare il
loro professore. Ma la cosa non sortì effetto. Ovviamente.
Sono favorevole alla
liberalizzazione delle droghe leggere, sul modello di ciò che accade in Olanda,
meta agognata – e improbabile - per buona parte degli alunni della scuola
italiana.
Lo spinello è un
oggetto simbolico per un adolescente: il rifiuto o l’accettazione di quel
rituale definisce un’appartenenza. Questo è il dato da cui io, come educatore,
devo partire: lo spinello fa parte dell’immaginario dei miei alunni, volerlo
rimuovere (dal discorso) porta solo ad un’ipocrisia destinata a minare
qualunque processo di crescita reale (che può accadere solo a partire da un
sano realismo). Era inevitabile che ci si arrivasse? Probabilmente sì, ma è
accaduto, dunque, facciamoci i conti, e chiamiamo le cose con il loro nome,
senza nasconderci dietro l’utopia di una sradicamento “violento” del fenomeno.
Il fallimento di una strategia meramente repressiva (caldeggiata e portata
avanti dal governo di centro-destra) è dimostrato (come il fallimento della
morale sessuale cattolica!) dal fatto che gli stessi giovani che si definiscono
- nelle loro ingenue e appassionate rivendicazione di appartenenza - di
“destra”, fumano come i loro omologhi di “sinistra” o qualunquisti. L’ideologia
non riesce a spuntarla su una prassi consolidata.
Perché i ragazzi
avvertono questo bisogno? Io do una risposta empirica, fondata sul loro
ascolto: perché è bello. Questa è la prima risposta onesta. “Farsi la canna”
rilassa, permette di allentare quel difficile tentativo di presa sul mondo e di
costruzione dell’identità che in quell’età è così rischioso e difficile (e che
rende il mestiere dell’insegnante così appassionante). Fumare facilita quelle
relazioni con l’altro che – noi adulti tendiamo spesso a dimenticarlo perché
viviamo in una rete consolidata e accogliente di rapporti – è l’aspetto più
complesso di quell’età, strettamente connesso alla necessità impellente di crearsi
un’identità, di rispondere alla domanda: «Chi sono io? Cosa voglio dalla vita?»
Il fumo, come l’alcool, dà la sensazione passeggera (ma che può reiterarsi ogni
sera) che tutto sia a posto, che gli altri ci vogliano bene, che le cose
fileranno lisce. Poi ci sono altre motivazioni: la curiosità, l’emulazione ecc.
Ma la prima è che fumare è bello: molto più che fumare una sigaretta, che ha
effetti blandi sul cervello e serve soprattutto a scaricare tensione. Ed è per
questo che i discorsi moralistici non attecchiscono. Perché non si dovrebbe
fumare? Proviamo a ribaltare la domanda, che è poi il senso di qualunque
progetto di educazione alla salute. In tutta onestà non riesco a trovare motivi
assolutamente validi per convincere un ragazzo a non fumare. Come per l’alcool,
vorrei solo insegnare a questi ragazzi la moderazione: essere brilli è
un’esperienza piacevole, essere ubriachi è disastrosa per sé e per gli altri.
Ed è la cosa più difficile la moderazione in un’età che “vuole tutto” e subito
e subisce il grande inganno della quantità, per cui ritiene che fumando quattro
canne al giorno si stia meglio… Possiamo dircelo questo? Possiamo dire ai
ragazzi: chi lo fa, lo faccia con moderazione, perché la felicità è nella
relazione con l’altro, nella costruzione di una personalità completa, non nella
fuga di fronte al mondo, che è aspro, respinge, ma deve essere conquistato da
ciascuno di voi. E nel mondo c’è posto per un giusto rilassamento della mente e
del cuore, degli arti e del corpo intero, per l’abbandono e per l’estasi della
musica, per una lieve ebbrezza che ci fa ridere di cuore e ci fa sentire
innamorati di tutto. Ma a patto che tutto trovi posto. E niente fughe oniriche.
I miei amici che hanno
fumato non sono divenuti tossicodipendenti. Oggi sono avvocati, medici, politici,
poeti, segretari comunali. Probabilmente alcuni di loro non disdegnano una tantum fare qualche tiro. Hanno vite
complete, in cui il breve stordimento di un bicchiere di vino o di un po’ di
marijuana può trovare posto accanto al lavoro ben fatto, alla
paternità/maternità, all’amicizia. Togliamo ogni mistero a questa esperienza.
Mi piacerebbe sviluppare il confronto, ma è come parlare di sesso: chi lo fa
con i ragazzi? Non le famiglie, non la scuola? Chi allora? Lo si lascia alla
pornografia e alle leggende metropolitane. Lo sforzo di ogni educatore,
riguardo alle droghe leggere, dovrebbe essere quello di farli parlare,
mettendoli a proprio agio (senza, quindi, giudizi precostituiti), scoprendo il
loro mondo, entrandoci per cercare di fare maturare dall’interno la giusta
collocazione di quell’esperienza, di cui si depotenzierebbe la carica
“alternativa” e di “rottura” (dimensione centrale in quell’età).
Il vero problema di un
educatore, allora, è quello di contribuire a formare una personalità armonica,
in cui gli squilibri e gli eccessi tipici dell’adolescenza non divengano
patologie e non trovino nelle dipendenze (di qualunque tipo: droghe, alcool,
pornografia, videogiochi, internet ecc.) il loro sfogo malsano.
(Scritto per un progetto di ricerca dell'Istituto italiano per lo studo e lo sviluppo del Mezzogiorno nel 2005)
Nessun commento:
Posta un commento