giovedì 23 novembre 2023

Una risposta Gianluigi Panarese su democrazia e capitalismo [πολιτική]

 


Sto leggendo, con un piacere che è pari solo alle aperture che percepisco nella mia testa rispetto a certi processi, l’ultimo libro di Carlo Galli (Democrazia, ultimo atto?). Come spesso mi capita negli ultimi anni, ne estrapolo dei passaggi particolarmente suggestivi, li monto con i miei rudimentali mezzi grafici, con il vezzo di un monogramma (ispirato al logo di “Giustizia e Libertà”). 

Un caro collega, Gianluigi Panarese, che anima spesso e volentieri le discussioni su temi di attualità sulla chat dei docenti, ha lasciato un commento che riporto.


Ho promesso a Gianluigi una risposta articolata. È questa.

Scompongo il suo commento, breve ma densissimo di sollecitazioni.

1)     Equivocando il senso della frase di Galli (che stigmatizza, e fa benissimo, la cecità di buona parte della sinistra, che già era non solo post-comunista ma anche, col senno di poi, post-socialista), Gianluigi parla del fallimento del comunismo “reale” (quello sovietico e dei paesi orbitanti intorno all’URSS, potremmo riflettere sul fatto che uno dei più popolosi e ricchi paesi del mondo si definisce comunista, ma sarebbe discorso altro, lungo e complesso). Per esso non ho alcun rimpianto, ovviamente. Posso solo invitare il collega a leggere il libro di Galli, che è una mirabile ricostruzione a volo d’uccello del Novecento e del primo scorcio di XXI secolo. La tesi è che la democrazia, in virtù della dialettica sociale, politica ed economica, ha subito diverse modificazione, arrivando alla sua ultima incarnazione: la democrazia al tempo del neoliberismo. Galli la vede (giustamente!) in crisi (mettiamo in fila ripresa dei conflitti, il ritorno del “politico” almeno dal 2001, crisi economica dal 2007, crisi pandemica nel 2019) e prova ad immaginare cosa potrebbe accadere. Quindi, il Nostro, che scrive su «Repubblica», non esattamente un organo bolscevico, è solo un lucido, realista (ma anche critico) teorico della democrazia, vista in maniera non astorica e atemporale ma incardinata nel proprio tempo cangiante. E io con lui: la democrazia è “la” regola del gioco, il perimetro entro cui realizzare società più (per me) o meno (per altri) eguali.

2)     Nella seconda sollecitazione Gianluigi evoca, immagino, Beppe Grillo. In realtà, il personaggio non ha elaborato nulla di originale: il tema della decrescita, che mi appassiona da almeno due decenni, ha grandi teorici (non solo il più celebre, Latouche). Precisamente, il sociologo francese parla di “decrescita conviviale” (riprendendo il tema da un gigante del pensiero novecentesco, Ivan Illich). È invece Maurizio Pallante in Italia che parla di “decrescita felice”. Non mi avventuro nel tema, anch’esso ricchissimo. Quando militavo nel M5S dedicammo un approfondimento alla questione. In ogni caso, la mia personale opinione è che sia un approccio corretto e mi sorprende che una persona come Gianluigi, così legata alla cultura della terra (come me) e alfiere della vita “sana” e semplice, non senta il bisogno, ben oltre Grillo, di approfondire. Mi farà piacere, dunque, continuare a parlarne con lui.

3)     Credo profondamente alla democrazia, ritengo che vadano innestati momenti di democrazia diretta nel quadro di una inevitabile rappresentanza (stante la mole degli Stati moderni), che rendano i cittadini protagonisti delle decisioni ed evitino derive tecnocratiche (o post-democrazie o democrature, come sta accadendo in alcune parti del mondo o dell’Europa stessa). E sono convinto che una democrazia vitale e sana debba avere la forza (politica!) di redistribuire la ricchezza prodotta e lavorare per l’eguaglianza (attraverso servizi ai cittadini diffusi e di qualità). Il punto (che sempre Galli rimarca) è il seguente: il capitalismo (che ha una storia lunga, almeno a partire dal 1300) nella sua configurazione attuale (neoliberista) è compatibile con la democrazia di cui parli? È contenibile? Il capitalismo (Marx docet) non è “perfido”. Rifuggiamo dalla visione moralistica della società e dell’economia. Il capitalismo è… capitalismo! Cioè, un sistema economico il cui scopo è produrre dal denaro più denaro. Punto. Non importa come. Lo si può temperare? Sì. Lo dimostrano i “Trenta gloriosi” (1945-1975), in cui in Occidente crebbero salari, profitti e diritti (con dure lotte, però, non lo si dimentichi). Ma, cosa accadeva “fuori dall’Occidente”? Quel benessere, in cui il capitale accettò di essere “contenuto” dalla virtù politica, non fu il portato di una violenza invisibile altrove (in Estremo Oriente piuttosto che in Africa o America Latina)? E, soprattutto, finito quel compromesso tra politica ed economia, oggi il capitale è disposto a lasciarsi nuovamente contenere, dopo che i suoi dioscuri (Thatcher nel Regno Unito e Reagan in USA) ruppero le sue catene?

Chiudo. Tre sono le strade innanzi a noi:

1)     il capitalismo, libero da freni e controllo politico, continua la sua opera di devastazione, producendo rifiuti di ogni tipo (anche umani, come i disoccupati o i working-poor) e estraendo ricchezza dalla natura e dalle periferie imperiali (Arrighi);

2)     la democrazia riesce a rimettere nel recinto il cavallo fuggito e limitarne gli “spiriti animali” (con il ritorno dello stato sociale e del welfare);

3)     il capitalismo viene superato da un’organizzazione economica in cui il mercato ha evidentemente un ruolo importante ma non fagocita tutte le sfere della vita, rivitalizzando l’etica del dono, la cooperazione (contro la competizione), lo sharing, il tempo più che libero liberato, le relazioni umane et cetera. Un altro paradigma non solo economico ma di società. Sempre Marx ci ha insegnato che il capitalismo non è "la" forma atemporale dell'economia ma una sua possibile configurazione. 

Come già detto, mi farà piacere continuare a parlarne con il collega perché la scuola è un luogo, pur oberato da compiti inderogabili, dove, nelle pieghe, cresciamo insieme tra diversi.


venerdì 17 novembre 2023

Sciopero [πολιτική]

 

Oggi ho scioperato

Ritengo questo che stiamo vivendo un momento importante della storia italiana nel contesto di una più ampia ridefinizione di concetti come capitalismo e democrazia. E ben ha fatto Pellizzetti a sottolineare che ogni svolta “a destra” (utilizzo la categoria per intenderci subito, dovrei declinarla), è sempre annunziata dall’attacco ai diritti del lavoro. Le esternazioni di Salvini e i titoli dei giornali vicini al governo vanno presi sul serio, malgrado possano apparirci delle smargiassate. Nascondono, se viste in filigrana, “lo” scontro del nostro tempo. Scontro di “classe” (anche qui utilizzo una categoria che andrebbe specificata, declinata, risemantizzata: la ricerca di parole nuove per dire il nostro tempo è parte decisiva del lavoro che stiamo facendo e dovremo fare, il cantiere è aperto e confuso).

Come scrive Carlo Galli nel suo ultimo, splendido libro, assistiamo, dopo decenni di “spoliticizzazione” (la presunta “fine della storia”, la globalizzazione come pacificazione del mondo attraverso il commercio universale), ad una ripoliticizzazione che rimette al centro i conflitti (dentro gli Stati e tra gli Stati). Come sempre, leggendo sempre insieme storia del mondo e storia personale, ne prendo atto. Inizia una fase nuova, dopo il tentativo “populista”, di cui sono stato partecipe e questo blog testimonia, soprattutto negli anni tra il 2015 e il 2018. Ed è finito con una sconfitta. L’intervista a Grillo, al di là della piccolezza umana del personaggio (in relazione alla tristissima vicenda del figlio che tristissima rimane quand’anche dovesse essere assolto dalle accuse di stupro), ne è certificazione (se ce ne fosse stato bisogno), almeno per la vicenda italiana. 

Personalmente, ritengo doveroso, per il futuro, armarmi di realismo, nel contempo (sottilissima la cruna) esercitando la critica di ciò che è ma anche indicando una direzione diversa. Mi pare che dal punto di vista teorico si stia, finalmente, delineando un arcipelago di teorie, libri, autrici e autori che si sforzano di tenere insieme cose per per lungo periodo sono state separate, spesso confliggenti. Bisogna continuare ad affiancare una teoria nuova, che conservi il meglio delle tradizioni di lotta e trasformazione del mondo dei secoli scorsi, soprattutto il XIX e il XX, a prassi nuove, la cui ambizione non sia “il mondo nuovo” ma sempre maggiore libertà, sempre maggiore giustizia, in un’ottica plurale che renda complementari le rivendicazioni degli oppressi di ogni tipo (e di ogni specie), consapevole della responsabilità dell’uomo nei confronti della realtà naturale, nel definitivo superamento del dualismo di matrice cartesiana che, insieme alla creazione dell’individuo, è la base teorica della modernità (e del capitalismo liberale). Ed è per questo, come hanno ripetuto spesso Laclau e la Mouffe, non bisogna pensare a paradigmi unici ma a percorsi anche assai diversi tra loro e profondamente radicati nella storia dei propri paesi, delle proprie comunità di appartenenza. Il rischio più grande da cui guardarsi (ecco l’appello al realismo) è quello della tabula rasa. Sogno meraviglioso che ha prodotto spesso e volentieri incubi della storia. Lo dirò con le parole (belle) di una figura discutibile del secolo scorso: «Fai quello che puoi con quello che hai, nel posto in cui sei».




domenica 5 novembre 2023

Il Marx di Desiderio, il Desiderio di Marx [φιλοσοφία]

 

Sul finire degli anni Novanta io militavo in Rifondazione Comunista, che a Benevento contava poco (pochissimo…). Nell’ottobre del 1999 organizzammo un seminario (non memorabile, detto con lonestà dei miei cinquantasei anni) con l’allora responsabile “cultura” di RC, Bruno Morandi, che aveva da poco scritto una Introduzione a Marx (Datanews, 1996). Il seminario si tenne a San Cumano, a casa mia, che qualche anno prima aveva ospitato gli incontri de “la rosa necessaria”. Sulla torre mettemmo una grande bandiera rossa. Vennero anche gli “eretici” del centro sociale (si chiamavano allora, poco prima che nascesse “Depistaggio”, “Rive Gauche”). Giancristiano Desiderio, che all’epoca dirigeva il «Sannio», volle dedicare all’evento un articolo, ovviamente stroncatorio. Io gli risposi. Così ci conoscemmo. Dopo di allora, c’è stato un rapporto di reciproco rispetto nella consapevolezza della distanza siderale che ci separava. In tal senso, l’esperienza della “Libera Scuola di Filosofia del Sannio”, con Amerigo Ciervo, fu un incontro tra diversi, durato, purtroppo, poco. Ora Giancristiano è una firma di prestigio del «Corriere della Sera», autore di decine di libri (tra cui spiccano quelli dedicati a Croce, di cui è divenuto, negli anni, uno dei maggiori cultori e conoscitori), l’ultimo dei quali ho letto in un pomeriggio, essendo dedicato all’autore che ci fece conosce: Karl Marx.

L'Anti-Marx. Anatomia di un fallimento annunciato (Con lettere inedite di Pasquale Martignetti, traduttore di Marx ed Engels, a Benedetto Croce) (Rubettino, 2023) è un agile volumetto scritto nel consueto linguaggio dell’autore, piano e irto di impuntature polemiche. Libro ambizioso, ma stroncare seriamente Marx, uno degli autori ancor oggi più letti e studiati al mondo, avrebbe richiesto decisamente qualche pagina in più...

Ci sono alcune cose che condivido del libro (e che sono spesso oggetto delle mie lezioni liceali). Come Giancristiano, credo che l’influsso hegeliano sull’autore del Manifesto sia stato duraturo e pernicioso (stupisce, dunque, la totale assenza di Popper nel libro ma anche della Arendt, entrambi critici finissimi di alcuni aspetti del marxismo). Questa è tesi ricorrente: Marx non avrebbe mai veramente superato la dialettica hegeliana, limitandosi ad un’opera di sostituzione. Sicuramente avrebbe dovuto sviluppare maggiormente una tesi che serpeggia (a partire dal titolo) nel testo, e cioè che in Marx ci sono in nuce tutti gli errori e gli orrori del comunismo novecentesco.

Nel libro di Desiderio manca ciò che è “vivo” (per citare autore a lui carissimo) di Marx, oserei dire imperituramente vivo. E, dunque, ha gioco facile, contestato quello che lui ritiene essere l’architrave del marxismo (cioè una storia tesa ineluttabilmente alla “razionalità” che è il comunismo, lascito hegeliano), contestare l’intero. Nei confronti dei grandissimi come Marx questo non funziona. Troppo grandi i contributi che troviamo nella sua opera per la comprensione dei fenomeni per trattarlo da “cane morto”. Dunque, si può non essere marxisti (è il mio caso da svariati decenni) ma continuare a leggere con beneficio l’opera del Moro, utilizzandone gli strumenti euristici. Contemporaneamente al libro di Giancristiano ho iniziato a leggere il libro di Kohei Saito (L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi, 2023) che, con rigore filologico e recuperando i quaderni “scientifici” del pensatore di Treviri, mette al centro della ricerca l’ecologia in relazione all’economia. E il libro di Moore e Patel (Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo, Feltrinelli, 2018: straordinario), ottimi esempi di come Marx possa essere letto e utilizzato nelle lotte del presente. Penso, infine, al magnifico lavoro che sta svolgendo Emiliano Brancaccio, utilizzando categorie marxiane, ad esempio, per la comprensione degli squilibri planetari (in particolare, la tendenza, intuita da Marx, alla centralizzazione dei capitali).

Più in generale, le mancanze del libro sono ascrivibili all’ideologia dell’autore e al suo ruolo di intellettuale “organico” (utilizzo volutamente categorie molto presenti nel libro). L’esaltazione acritica della borghesia (non tutta evidentemente: quella che controlla il capitale e decide le sorti del mondo) dimentica il ruolo che essa ha avuto e ha nello sfruttamento (lavoratori salariati, schiavi, donne, “diversi”, natura, per citare Moore) nel corso dei secoli (e Marx scriveva, insieme ad Engels che ne aveva parlato distesamente, nel momento di maggior sfruttamento del lavoro operaio). Dipingere la storia dell’Occidente come una straordinaria vicenda di lotta per libertà e il progresso, dimenticandone il “lato oscuro”, è pura ideologia. Nel contempo, ritenere che, tolta la scienza, il socialismo possa essere solo utopia o riformismo significa, ancora una volta, leggere ideologicamente la storia, dimenticando che tutte le conquiste degli oppressi sono state il frutto di lotte, quasi sempre dimenticate (anche in questo caso filoni diramatisi da Marx, che lo hanno corretto e aggiornato, sono preziosi: penso a Wallerstein e Arrighi). Anche la borghesia, d’altronde, è stata (dalla metà del XVII secolo) classe rivoluzionaria. Il “negativo” della storia (e questo mi pare un lasciato marxiano straordinario) non si può occultare. La natura non fa salti, la storia, per fortuna, sì!

Insomma, io credo che Marx sia parte (fondamentale) di una storia di lotte e rivendicazioni, che come ogni storia ha il suo carico di errori ed orrori, giuste perché finalizzate ad una maggiore… giustizia! Proprio un liberale come Popper mi ha insegnato che la storia non ha “telos” (scopo), e mi ha educato ad utilizzare il darwinismo, in senso positivo, come schema di lettura del divenire (conflittuale, oserei dire… dialettico!) storico (cioè non partire da un presunto fine, assente, verso cui tutto sarebbe teso: la libertà piuttosto che la società senza classi).

Gli intellettuali “organici” delle élite vorrebbero che esse avessero delega alla gestione tecnocratica della società, al limite con la benevola partecipazione dei rappresentati illuminati (riformisti) del “popolo” (utilizzo volutamente categorie “populiste”). Questo accade in Italia dai tempi Manzoni, il cui capolavoro è straordinario testo programmatico di questo modo virtuoso di gestire i conflitti “dall’alto” (il popolo deve stare buono, altrimenti fa danni, come Renzo a Milano, delegando la guida del mondo al Cardinale Federigo e all’Innominato, fattosi altruista).

Quello che a Giancristiano, tutto preso dal suo ruolo di apologista della fede (sì, una fede nel suo caso) liberale, non riesce mai possibile è riconoscere, come fa invece Popper (come già detto, il convitato di pietra del libro: non vorrei sbagliare, ma l'autore austriaco de La società aperta e i suoi nemici non è neanche citato in nota), che Marx era un sincero benefattore (cito a memoria) dell’umanità, il cui intento fu in parte corrotto (e qui, ribadisco, convergo con Desiderio nell’individuare nel mai sopito hegelismo del Moro la causa di questa corruzione).

Concludo: non sono marxista, se il marxismo è una “fede” dogmatica (un “credo” come oggettivamente è stato per molti: rivedere il bel film di Moretti, Il sol dell’avvenire), riconosco in Marx un maestro con cui doveroso continuare a confrontarmi, prendendone il tantissimo di utile che trovo nella comprensione di questo tempo, lo considero parte di una storia di lunga durata che lo precede (almeno dalle lotte trecentesche che percorsero l’Europa, come insegna Moore, agli albori del capitalismo) e, mi auguro, durerà nei secoli. Non fino all’instaurazione del paradiso in terra (e maledetta la “teologia politica” che ha ispirato queste sogni della ragione), ma, tra sconfitte e vittorie, per rendere più accettabile la condizione dei soggetti sfruttati, sottomessi, offesi (umani e non), per trovare modi di convivenza migliori tra uomo e ambiente, per ridonare a ciascuno una vita meno alienata, sapendo che la sofferenza, il male, il dolore, la mancanza sono elementi strutturali della vita, e, dunque, senza mai illudersi di poterli “abolire”.


Post scriptum del 5 novembre («Remember, remember the fifth of November…»)


Negli anni, leggendo Marx e dovendolo spiegare scolasticamente ai miei allievi, mi sono convinto che fu disperazione quella che indusse lui - che era diventato democratico e poi socialista per empatia nei confronti della sofferenza umana - ad elaborare una filosofia della storia teleologica: avendo patito, da attivista qual era, la frustrazione e il fallimento, spostò dalla volontà umana alla ragione immanente alla storia e ai processi socio-economici (intuizione che trovò ovviamente in Hegel) il soggetto agente, dando così un potente (e pericoloso) strumento non solo di lettura del divenire ma anche di azione. Le cose che scrive Popper nei suoi corposi volumi di filosofia politica sono assolutamente esaustive sui rischi di un sapere “totalizzante”.