lunedì 19 marzo 2012

padre

Mi sto rimettendo lentamente da un’influenza “complessa”, partita probabilmente da una stanchezza di fondo su cui ha attecchito il virus portato da mia figlia a casa. Venerdì sono dovuto fuggire da scuola per trascorrere in deliquio giorno e notte seguente a letto. Stanotte la tosse mi impediva di rimanere a letto. Per evitare di svegliare moglie e figlia, mi sono accomodato in salotto, con gli occhi ben aperti. Mi capita raramente, ma se accade non c’è speranza che prenda sonno fino al mattino. In questi casi, due sole saluti: i libri e i film. Ho optato per il mio multimedia, preso per i cartoni di Caterina, ma riempitosi anche dei film perduti a cinema in questi anni. Scelta ardua… Alla fine della notte avrei visto anche il lisergico Paranoid Park di Van Sant e la prima parte de I Vicerè di Faenza. Il pezzo forte è stato, però, L’alba del pianeta delle scimmie. Il film è appassionante, uno di quelli che vorresti continuassero per ore e ore, e affronta un tema per me fondamentale, il rapporto dell’uomo con gli altri esseri viventi e sofferenti, ponendo quesiti importanti, come spesso capita ai film di “fantascienza”, problemi di tipo filosofico. Ma a colpirmi è stata la coincidenza che nel film, nella notte tra il 18 e il 19 marzo, festa del papà, ci fosse una intensa relazione tra il protagonista e suo padre, ammalato di Alzheimer. Anzi, tutte le sue scoperte, destinate a trasformare radicalmente la vita sulla terra, nascono dal desiderio di trovare una cura per questa terribile malattia. Ho rivisto, dunque, scene vissute con mio padre, in particolare la sua ossessione per le macchine.

[Una volta, per accontentarlo, in una fase avanzata della malattia, lo feci guidare su un rettilineo che porta a San Cumano… Restituii in parte ciò che mi aveva dato, affidandomi le prime macchine già a sedici anni, per le strade della campagna, quando non era ancora stata presa d’assalto dalla ricca borghesia cittadina, che di lì a poco l’avrebbe riempita di ville].

Che strana coincidenza, pensavo ieri sera. È destino che continui a tornare, a ondate successive, sulle mie relazioni fondanti. C’è ancora tanto da capire, evidentemente, malgrado il mio “giudizio” sia sempre più netto e negativo sull’uomo che fu mio padre. Eppure, come non riconoscergli che quelle certezze che rendono possibile una vita sensata, che un bambino succhia dai genitori, una mescolanza di calore, tenerezza, sicurezza, lui me le ha date, negli anni decisivi? Quest’anno compirò quarantacinque anni. Quando lui aveva questa età, io ne avevo undici… Se lo incontrassi ora, come un estraneo, ne sarei certamente irritato, per le idee qualunquiste dal punto di vista politico, per la mistica dell’impresa (che l’ha condotto alla rovina, insieme al suo carattere), per il suo carattere rissoso. Ma io ricordo il senso di protezione che mi ispirava quando il mondo mi appariva gravido di pericoli innominabili. Ecco: questa sicurezza che mi ha trasmesso, l’idea che ci fosse, comunque, qualcuno che mi avrebbe protetto, unita alla tenerezza accogliente di mia madre (e della sua vicaria, Maria), hanno costruito in me un nucleo resistente, che mi ha permesso, paradossalmente di resistere alle stesse furiose onde che i suoi disastri successivi avrebbero scagliato contro di me e le mie sorelle, rischiando di spazzarci via.
C’è un momento preciso in cui io sono “divenuto” padre, dismettendo per sempre la mia “filialità” (se ciò è possibile)? Un giorno, lo ricordo bene, lo accompagnai all’Ospedale Civile per la visita di controllo, che serviva a tenerlo all’interno di un programma di assistenza per gli ammalati di Alzheimer (i farmaci sono costosissimi). Era un periodo di alterna consapevolezza, pochi sprazzi di lucidità e tanti frammenti sparsi, rovine senza costrutto. Gli dissi: «Papà, lo sai che sta per nascere Caterina?» Lui, come faceva sin dalla nostra infanzia, disse che mi doveva dire una cosa nell’orecchio. Accostò la bocca e mi diede un bacio. Credo che questo sia stato il mio congedo da una condizione durata più a lungo del dovuto. Cresciuto tardi ma in fretta, per fronteggiare l’avversa fortuna, divenuto uomo, padre di mio padre e, infine, padre vero, finalmente, individuo responsabile. Non più beneficiario di sicurezza e tenerezza ma dispensatore, consapevole di quanto arduo sia il lavoro di ostentare certezze non avendone alcuna perché è necessario costruire quel nucleo di forza ed energia con cui Caterina dovrà affrontare la vita, che non so quali pericoli, anche a causa mia, potrà portarle. Siamo a metà del faticoso transito, credo. Con tanta adolescenza dentro che vorrebbe esplodere e ridere e ubriacarsi, con tante vite che reclamano di essere esplorate, tanti desideri che vorrebbero essere esauditi, e l’uomo, che anche mio padre mi ha insegnato ad essere, il “padre”, che sorride, con una piega amara, e resta sul molo, «a guardare lo sfondo del mare più in là».
Per la vita che mi hai dato, per ogni sicurezza, ogni carezza. E anche per ogni tua assenza, per ogni fuga, per ogni spavento. E, infine, per la tenerezza che ho potuto, se ho saputo, ricambiare, senza che tu, perduto nel male, sapessi. Grazie. E se qualche filo della mia delusione t’ha tenuto legato, ora riposa in pace, nel giorno in cui noi padri celebriamo il nostro esistere, il nostro resistere.

giovedì 15 marzo 2012

scripturae


Le mie prime prove di scrittura originale sono probabilmente delle poesie che risalgono alle scuole medie, dattiloscritte sulla macchina da scrivere di mio nonno, e conservate da mia madre. Dopo un lungo periodo di “latenza” e di totale allergia alla scrittura, il cui emblema era certamente la mia grafia infantile e da me detestata, ci fu un’agenda del 1984 (avevo diciassette anni, frequentavo la seconda liceo del classico), su cui incollai La colazione sull’erba di Manet (all’epoca le mie passioni principale erano i fumetti e la pittura). Una sorta di diario, con dentro anche miei disegni, ritagli di giornali, minute di compiti scolastici. Nell’estate dello stesso anno, iniziai a redigere uno zibaldone su un quadernone… “Pensieri” li chiamai. Ininterrottamente, da allora, sebbene con intensità diversa, fino all’aprile del 1992 su quaderni, da allora in poi sul computer portatile regalatomi da mia sorella per scrivere negli anni precedenti la tesi, ho tenuto sempre questo diario/zibaldone. Negli ultimi anni, come già scritto, la nascita dei social network ha messo in crisi questa scrittura, riducendola al lumicino. Le parole che scrivo quasi quotidianamente su questo blog ereditano, in qualche modo, la funzione indagatrice ma anche protrettica che ha avuto il diario per molti anni.
L’infatuazione infantile per la poesia sarebbe rinata, con maggiore consapevolezza, nello stesso giro di anni della scrittura diaristica. Il primo nucleo di A day in the life dovrebbe risalire agli ultimi anni di università (realisticamente il 1989). Ci sono versi che mi piacciono ancora: «Taceranno nei campi i trattori / alle stelle…». La poesia fu uno straordinario strumento di elaborazione del lutto per la perdita di mia madre (avvenuta il 24 gennaio del 1990). Quando volli raccogliere i versi scritti in quegli anni in una plaquette artigianale, la sezione più importante era quella dal titolo floydiano “Atom Heart Mother”. Ereditavo mia madre attraverso quei versi, pacificandomi con la sua assenza/essenza. La raccolta si chiamava Carne/vale. In copertina c’era una vignetta di «Dylan Dog», con un topo che correva tra gli astanti di una festa in maschera. Raccolsi in un’altra plaquette tutte le poesie scritte fino al 1993 e le vecchie. Il titolo, che esprimeva una mia struttura psichica profonda, era Nell’attesa di un compimento. C’era un disegno ripreso da HP e Giuseppe Bergman di Milo Manara. Le poesie dal 1994 al 1996 le intitolai Peraspera. C’era un bellissimo disegno di Moebius. La copertina la feci stampare in tipografia. Da allora, a parte una raccolta extravagans, cose non più stampate ma editate in pdf e mandate agli amici: Per la vita nuova (versi che hanno accompagnato il mio ritorno alla pratica religiosa tra la fine degli anni Novanta e il nuovo secolo), Conversione permanente (fino al 2008), e una Peraspera del 2009, ne varietur, e collocata infatti su questo blog in quanto distillato di ciò che io considero il meglio del mio lavoro di poeta. 
Oltre a questo, opere compiute le posso considerare L’arte del transito, una raccolta di aforismi del 2009, e due “romanzi”, frutto di una rielaborazione creativa del materiale diaristico. Il primo, del 2004, è Storia della mia conversione; il secondo (il titolo, rubato al Testamento di Tito di De Andrè è Non disperdere il seme) dedicato alla mia sessualità problematica. Infine, nel 2009 ho raccolto, rendendoli disponibili sul blog, articoli e saggi apparsi nel corso degli anni su riviste, giornali locali, webzine: In quieta ricerca
Perché tedio i miei eventuali lettori con titoli e date? Perché già quest’estate avevo deciso che una parte di questa produzione dovesse avere un “corpo” di carta, come i miei vecchi quaderni, con tutti gli errori e i peccati inemendabili che di solito hanno le opere cartacee. Vorrei che gli studi e le elaborazioni di questi anni deponessero un cippo, una pietra che possa segnare il percorso fatto, anche perché è maturata la percezione (ecco che torna una parola antica, di cui ho imparato a diffidare) di un “compimento”, di una fase chiusa.

Heidegger e il nazismo


Spero di non abusare della tribuna che “Bmagazine” settimanalmente mette a mia disposizione per scopi personali. Per una volta userò il blog per rispondere ad una bella provocazione che parte dalle stesse colonne digitali di questo giornale, firmata da quel pirotecnico e talentuoso poligrafo che risponde al nome di Luigi Furno, di cui ho avuto modo di esaltare le doti creative qualche settimana fa.
È doveroso, però, inserire questa querelle in un panorama più ampio, che mi pare novità importante nella nostra città. Grazie a due iniziative nate autonomamente (Paradoxa di Yuri Di Gioia e Guido Bianchini, la Libera scuola di filosofia del Sannio), la filosofia è uscita dalle polverose aule scolastiche per immettersi nella vita, avendo l’onore delle cronache e suscitando, come in questo caso, reazioni veementi. 
Quando Guido Bianchini mi ha chiamato per Paradoxa, ci ho pensato… Come dare sensatezza a ciò che facciamo? Oramai ho deciso di fare solo cose che abbiano senso, senza divenire vittima delle “strutture”, delle forme. E, dunque, ho deciso non di parlare di un paradosso ma di presentarmi io stesso come un “paradosso”, abitare la filosofia, anche professionalmente, creando una Libera Scuola di Filosofia, insieme ad altri amici, ma attendendo, promuovendo, la sua fine e il suo superamento. Ho messo in conto che questo avrebbe potuto sembrare la piccola vendetta di un “principiante”, di un autodidatta, essendomi laureato in Lettere, e avendo, dunque, studiato per mera passione insorta successivamente la filosofia, la sua storia, i suoi problemi. L’incontro decisivo, dal punto di vista intellettuale, è stato quello con l’opera di Martin Heidegger, che continua ad essere il basso continuo delle mie ricerche, l’auctor cui torno periodicamente per la verifica dei miei strumenti. I problemi preliminari che Heidegger presenta sono due: aderì al nazismo e affrontò tematiche della massima astrattezza, in un linguaggio sempre più esoterico.  Questi due scogli giganteschi respingono eventuali lettori, per cui il pensiero di Heidegger è conosciuto, spesso anche da docenti universitari, attraverso sintesi che ne semplificano le intuizioni.
È impossibile riportare tutte le posizioni relative al nazismo di Heidegger. La mia posizione è la seguente (e Luigi Furno l’ha colta): il filosofo aderì al nazismo prima di tutto per ambizione personale, sperando di far carriera (come avvenne). Quindi si rivelò, come scritto da uno dei suoi migliori allievi, ebreo costretto ad emigrare in America, Günther Anders, uomo di assoluta mediocrità morale. Aggiungerei che Heidegger si illuse, per qualche anno, che il nazismo fosse una possibile risposta alla devastazione della modernità, in linea, dunque, con quella “rivoluzione conservatrice” che caratterizzò una parte della cultura tedesca tra le due guerre. Anche in questo caso la sua cecità è imbarazzante, oltre che, ovviamente, ingiustificabile. Ma lo stesso Anders ammetteva la grandezza speculativa del maestro, tanto grande da aver creato, a mio avviso, l’unico pensiero in grado di indicare una via d’uscita dalla modernità e dalle sue insanabili contraddizioni. Spero, dunque, di aver dato una prima risposta a Luigi Furno: la mediocrità morale e la cecità politica dell’uomo non inficiano la portata “rivoluzionaria” del pensiero di Heidegger, con il quale mi pare sempre più doveroso confrontarsi, soprattutto in una città come Benevento, dove il suo pensiero mi sembra non solo frainteso ma addirittura poco conosciuto. Dunque, poiché la Libera scuola l’anno prossimo programmerà dei veri e propri corsi aperti a tutti, proporrò un approfondimento del pensiero del così tanto citato quanto poco letto pensatore di Messkirk.
La seconda critica che Luigi Furno fa ad Heidegger (e ai suoi “epigoni”, come me, sebbene anche questa definizione dispregiativa sia troppo per un umile lettore quale sono) è che egli avrebbe, in qualche modo, sputato nel piatto in cui mangiava, praticando, da docente universitario, la filosofia e invocandone il superamento. Ancora una volta, pur essendo molto attento alla coerenza tra “lectio” e “mores”, mi sono rassegnato a cogliere di Heidegger solo le geniali intuizioni speculative. E su quello che dobbiamo ragionare, non cercando di incastrarlo alla sua incoerenza personale, avendone assodato la sua mediocrità morale.
Perché la filosofia ha raggiunto il suo compimento? Perché ha realizzato le sue ambizioni di “verità” e di “metodo”. Dove? Nella scienza e nella tecnica (che costituisce il cuore della scienza moderna). È possibile un nuovo inizio? Sì, un nuovo inizio del pensiero che, deponendo il “dominio”, si metta in “ascolto”. Un pensiero-poetante. E qui arriviamo ad un altro punto chiave. Il pensiero heideggeriano, nella sua solo apparente astrattezza, mette capo ad una possibile trasformazione rivoluzionaria tanto dei rapporti interumani quanto dei rapporti tra uomo e cosmo. Anzi, io credo che solo la radicalità di quel pensiero consenta di fondare eco-logie, etiche e politiche (so quanto possa apparire paradossale) all’altezza di un tempo apocalittico (catastrofico ma anche “rivelativo”) come il nostro.
E arrivo alla terza riflessione critica che Luigi Furno pone, la più importante. Con un’intelligente operazione decostruttiva, egli utilizza la filosofia di Nietzsche per “confutare” la fine della filosofia auspicata da Heidegger, rivendicando l’infinita possibilità del gioco delle interpretazioni. A onor del vero, si sarebbe dovuto ricordare come fu proprio Heidegger, negli anni Trenta, in un memorabile corso poi divenuto libro (a mio avviso decisivo nella storia del pensiero moderno e contemporaneo), a strappare Nietzsche tanto alla propaganda dei Bäumler quanto alle interpretazioni riduttive che ne facevano moralisti e artisti. Heidegger pose Nietzsche al vertice dello sviluppo della filosofia occidentale. Ma intuì che con lui si compiva il destino della metafisica, precisamente nell’idea che fondamento dell’essere sia la “volontà di potenza”. Tutta la cultura occidentale, divenuta planetaria nel XX secolo, porta alla luce, nelle sue pratiche egemoniche, questa radice (che è già prefigurata in Platone, e via via manifestatasi sempre più chiaramente nella fondazione soggettiva del sapere, con Cartesio perno di questo processo).
Concludo. Rivendicare Nietzsche contro Heidegger significa riproporre la possibilità che un soggettivismo (senza soggetto) “giocando” (con i linguaggi, le parole, con le vite…) possa rispondere al nihil che occupa ogni giorno spazio dentro di noi e nel mondo. Io credo che questa risposta, tentata nel corso del Novecento (ma la follia di Nietzsche non era già il segno della sua impraticabilità?), abbia esaurito ogni sua potenzialità, si sia rivelata irrimediabilmente nichilistica anch’essa (ed è la critica che muovo, ad esempio, alla prognosi di Umberto Galimberti, con cui Luigi potrebbe essere d’accordo). L’apocalisse di cui siamo spettatori non è un gioco… Possiamo decidere di contemplarla con il gusto necrofilo della fine, da raffinati esteti, «componendo acrostici indolenti in uno stile d'oro dove danza il languore del sole», oppure possiamo iniziare a sognare un nuovo inizio, nel cuore di tenebra che stiamo attraversando, che renda possibile “re-incantare” il mondo, trasformare questa “terra desolata” in un tempio propizio al ritorno degli Dei, non giocare con le parole ma curarle, insieme alle erbe, alle acque, agli sguardi, sanando, accogliendo. 
«L’incondizionata uniformità di tutte le umanità della terra sotto il dominio della volontà di volontà rende manifesta l’insensatezza dell’agire umano posto come assoluto».
Nella critica pungente di Luigi Furno c’è tutta intera la logica del dominio. Egli resta dentro la metafisica, nietzschianamente, rivendica la possibilità infinita di continuare a “giocare” con la lingua, di continuare a giocare con la vita, come se non avessimo davanti agli occhi la devastazione della terra e degli uomini. Io ho dimesso questa pretesa, prometeica, perché ho capito, grazie ad Heidegger, che abito il linguaggio, esso non mi appartiene. Io appartengo ad esso. Abito la terra, essa non mi appartiene. Attendo l’ultimo Dio. Preparo strade, affino la mia capacità di ascolto: «I pastori abitano, invisibili, fuori del deserto della terra devastata […] Una cosa è utilizzare semplicemente la erra; un’altra è, invece, ricevere la benedizione della terra e stabilirsi nella legge di questa accettazione come nella propria casa, per custodire il segreto dell’essere e vegliare sull’inviolabilità del possibile» (Oltrepassamento della metafisica).

(Apparso su «BMagazine» nel marzo 2012)

mercoledì 14 marzo 2012

Eraclito


Transito complesso da un’ontologia “monistica” e irenica, dove si attende l’instaurazione del “Regno di Dio” in terra, la “pace perpetua”, ad una intimamente dialettica, “eraclitea”, che riguarda “cielo e terra”. Non solo la terra ma anche il “cielo”, in tutte le accezioni, è intimamente dinamico, irrisolto. Dio diviene. 

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Il disprezzo di Eraclito per Pitagora: la consapevolezza che anche la “struttura del mondo”, il Logos, è mutevole come il fuoco, contro l’illusione che essa sia “armonia”, matematica. Ovviamente, vinse Pitagora, grazie a Platone. 

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In Eraclito, faro degli anni avvenire, trova giustificazione il mio “esistenzialismo” sorgivo quanto la mia repulsione per la matematica. Se fossi passato davanti all’Accademia platonica avrei volentieri declinato l’invito a farmi “geometra”. La filosofia platonica (e quella cristiana) si fondano sulla visione di un “cosmo”, bello e buono. Tutto è fatto derivare da questa certezza. Ma se l’ordine del mondo è ben più complesso, tutto deve essere rivisto. 

[Quando spiego ai miei alunni Eraclito, con un piccolo colpo di teatro, che ha sempre il suo effetto, faccio vedere loro la mia patente di guida… Grande è lo stupore nel cercare di riconoscere in quel diciottenne pieno di capelli il professore stempiato e semicalvo che hanno di fronte. «Tutto scorre…». Talvolta mi chiedo anch’io che cos’abbia a che fare quell’adolescente inquieto con ciò che sono oggi… La risposta è, quasi sempre, l’inquietudine. La stessa di allora, solo più scaltra, più capace di riconoscere il suo limite. È la stessa saggezza maturata nel giocare a pallone. Non sono diventato migliore. Solo più consapevole dei miei limiti. E questa può essere una forza.] 

Giovanni Reale insiste molto, nella sua interpretazione di Platone, sull’identità del Bene con l’Uno. Dunque, anche il bene per la città è «ciò che la leghi e la faccia una; il male è ciò che la divide». Una politica “eraclitea” (Toni Negri oggi, Marx, Machiavelli) pone al centro dello Stato come del cosmo, il conflitto. La salute di un organismo politico è un equilibrio dinamico. Combattere sempre le “unioni mistiche", gli unanimismi. Questa consapevolezza mi conferisce un nuovo rasoio per de-cidere cosa serve ad elaborare una visione eraclitea della realtà. 

«Eraclito chiude il ciclo della modernità che, alla luce di Dioniso e della tragedia, s’avanza per un estremo canto e un ultimo confronto. Il suo cammino approda alla tappa oscura e folgorante delle nostre giornate. Come un insetto effimero e appagato, il suo dito chiude le nostre labbra, il suo indice la cui unghia è strappata» (René Char, 1948)

domenica 11 marzo 2012

denaro


Nella mia vita, il rapporto col denaro è cambiato in maniera radicale, pur conservando una sorta di nocciolo identico. Sono cresciuto in una famiglia ricca. Mio padre era un imprenditore di successo. Ne ho scritto altrove. Ne scriverò ancora. In fondo, non facciamo che riscrivere la nostra storia in relazione ai padri e alle madri, onnipresenti. Nella prima parte della mia vita, dunque, il rapporto col denaro è stato scandito dalle fasi dell’attività imprenditoriale paterna. 

[Quando rimettevo a posto la stanza di mamma, dopo la sua scomparsa, a San Cumano – era il 1990 -, alla ricerca di tracce significative, trovai un biglietto in cui mamma dava indicazioni a noi tre figli, me e le mie due sorelle, su come risparmiare in un momento di crisi dell’azienda di papà. Doveva risalire all’incirca al 1980. A me scriveva di non spendere troppo per i miei fumetti. ]

Quando mi trasferii a Roma per l’università, ricordo che portavo sempre parecchi soldi con me. Io non ero in grado di notarlo, per me era un dato “naturale”. Per fortuna incontrai Tullio, che viveva alla Casa dello studente. Ora è un affermato giornalista. Ma lui era il mio grillo parlante. Grazie al suo sarcasmo o alle sue prediche, divenni consapevole. Può sembrare banale, ma “tradire” la propria classe, come avrei fatto in seguito, richiede una vero e proprio ribaltamento di prospettiva, che può verificarsi solo grazie ad uno sguardo “altro”. Altrimenti alcune cose sembrano naturali. Grazie a Tullio, dunque, iniziai a percepire come “colpa” la mia appartenenza di classe. Iniziai a ripensare alle differenze radicali fra la mia vita e quella, ad esempio, del mio compagno di giochi d’infanzia, Antonio, in campagna, che viveva in una casa senza bagno, con la stalla attaccata alla stanza da pranzo… Ho avuto tanti maestri nella mia vita, cui sono riconoscente. Tullio, anche se non lo sa, è stato tra questi. È stato il mio sguardo “altro” sulla vita di ricco borghese, uno sguardo, però, a differenza di quello muto di Antonio, loquace, “giudicante”. Dalla sua vicenda di “paesanotto” in cerca di riscatto (poi ampiamente raggiunto), venivo inchiodato alla mia “colpa” d’essere ricco, di non dover preoccuparmi per il mio futuro, di non dover mai chiedermi se qualcosa la potessi comprare oppure no. Nel 1991 mi sono laureato. Iniziò una drôle de guerre, in cui nulla sembrava accadere. Poi iniziai a lavorare in improbabili scuole private. Ma lo facevo quasi come passatempo. Avevo la garanzia, pur scomparsa mia madre, che nostro padre avrebbe provveduto a me fino a quando fossi diventato autonomo del tutto (le mie sorelle già lavoravano a Roma da tempo). E, per motivi che forse un giorno vorrò ripensare, decisi anche di sposarmi. Era il 1994. Pochi mesi dopo, mio padre fallì. Una catastrofe. In quel momento mi sentii, probabilmente, come i russi a Stalingrado… Ero solo. Non c’era più alcuna rete a proteggermi. Il lavoro era una cosa seria, non più un passatempo. Bisognava tirare la cinghia. Ricordo in maniera vivida la sofferenza che provavo nel non poter comprare alcuni libri. Ricordo tempi di lavoro matto e disperatissimo, tra lezioni a domicilio, scritture di tesi, scuole private, addirittura per alcuni mesi la direzione di una pagina culturale di un quotidiano napoletano… E, poi, improvvisamente, oramai quasi inattesa, la vittoria del concorso, l’immissione in ruolo, i millequattrocento euro assicurati sul conto postale… Un’altra vita. Ho conservato, però, una certa parsimonia appresa negli anni del nostro scontento, negli anni in cui guardavo i libri con desiderio. Ogni volta che compro un bene “voluttuario”, ad esempio le scarpe da calcio, sento ritornare un po’ di colpa, ma nello stesso tempo, a contraddire quel sentimento, l’orgoglio di chi ha saputo divenire adulto. La vita è stata prodiga d’insegnamenti con me. Ero il figlio viziato di una borghesia ricca. Ho attraversato una terra desolata in cui ciò che avevo imparato all'università poteva essere comprato a poco prezzo e messo al servizio di quei ragazzi a cui ero stato identico nella mia adolescenza. Non l’ho vissuto come umiliazione, ma come giusto contrappasso. La mia vita è ricolma di "catastrofi pedagogiche". Essere adulti significa, in fondo, sapere che nessuno ci metterà una pezza se non ti muovi, sapere che sei "responsabile". Ora vivo del mio stipendio, spesso arrivo al 20 del mese con cinquanta euro sul conto. Ne sono felice. E ringrazio il Signore perché, tradendo la mia classe e non provando alcun rimpianto per la Fagianella e per le settimane bianche, per le macchine di grossa cilindrata e i vestiti di marca, ho trovato la mia dimensione. E, quindi, sarò perdonato se, facendo una follia, ho preso a rate l’opera di Nietzsche dell’Adelphi, due paia di scarpini di calcetto, il megafono da prestare agli alunni per le manifestazioni, la pizza il venerdì sera, l’abbonamento Sky per vedere l’Inter.

sabato 10 marzo 2012

fumetti


Dopo giorni in cui ho disatteso la disciplina della scrittura quotidiana, preso da una girandola di impegni tutti belli (la Libera Scuola, l’incontro con Alberto Asor Rosa, gli incontri di filosofia alla Luidig), oggi avrei voluto scrivere del mio rapporto col denaro ma, tornato dalla partita di calcio a sette, ho letto sulla bacheca di Gaetano della morte di Moebius… E, immediatamente, sono riandato al profumo del volume della Milano Libri che raccoglieva integralmente Il garage ermetico, e lo stupore che provai di fronte a quelle tavole, così diverse dal segno “americano” cui ero stato abituato dalla lettura assidua dei fumetti Marvel tradotti dalla Corno. Pur nella mia fedeltà al genere supereroistico, che tuttora dura, mi aprii, gradualmente, ad altro: iniziai a comprare «Metal Hurlant», «Totem»… Poi ci fu l’evento dell’«Eternauta», con i grandi argentini che già conoscevo da «Lanciostory», e poi «Comic Art», «Corto Maltese». Ho sempre avuto predilezione, oltre che per il fumetto americano (tra i classici, ovviamente, Kirby, John Buscema, John Romita, Jim Steranko, Barry Smith), per gli argentini come Alberto Breccia o Juan Gimenez. Poi, appunto, la scoperta del grande fumetto europeo, soprattutto francese, svettando Moebius su tutti per la capacità di “inventare” mondi, ma anche per la minuziosa ricostruzione del West in «Blueberry». Lo so, per i più sono nomi. Per me sono addirittura un’ipotesi alternativa di vita. Sognavo di diventare un disegnatore di fumetti. Conservo gelosamente le tavole prodotte fino a diciassette anni. Non ero dotato, ma mi impegnavo molto, studiavo, producevo schizzi, leggevo manuali, compravo i pennini, gli inchiostri… Il fumetto è stato il mio viatico alla lettura. 

[Nella mia stanza a Benevento, nella casa di Via dei Mulini, sistematicamente, quando i fumetti iniziarono ad essere tanti, portavo via gli inutili libri che mia madre vi teneva… Quando finivo i compiti, mi stendevo sul tappeto e leggevo o rileggevo senza annoiarmi mai i miei «Capitan America», «Devil», «L’Uomo Ragno». Se chiudo gli occhi, posso ricostruire intere tavole di Kirby o di Romita… Quell’immaginario mi ha plasmato. Mi ha insegnato, ad esempio, che è una frase stupida, seppur detta da un uomo che rispetto, quella che recita: «Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi». Gli eroi servono ovunque. Ecco: quel mondo mi ha educato al senso dell’onore, del coraggio, mi ha dato una prima rudimentale tavola di valori che si intrecciava con quella familiare. Il super-eroe è la moderna incarnazione del “cavaliere”. Ho sempre sognato di essere un monaco o un cavaliere]. 

Qualche anno fa tenni un corso in dieci lezioni sul fumetto al Liceo Classico. Fu un’esperienza bellissima. Mi fece tornare con consapevolezza sui meccanismi di questa arte straordinaria. Negli anni, mi sono arricchito di conoscenze, e per fortuna il fumetto è divenuto definitivamente adulto insieme a me. Anche quel mondo di eroi che amavo, grazie a Miller, soprattutto, o a Moore. Grazie a Christian Mirra, ho scoperto i libri di Scott McCloud, che mi hanno illuminato su molte questioni che avevo solo intuito. Soprattutto, ora credo che il fumetto sia un mezzo espressivo con infinite potenzialità ancora da esplorare. E con una storia ancora tutta da raccontare. E, forse, la vita mi ridarà una possibilità per coniugare ciò che sono diventato con ciò che sarei potuto diventare. Mai dire mai… 
Intanto, grazie a chi, come Jean Giraud/Moebius, ci ha dischiuso “mondi lontanissimi”.

domenica 4 marzo 2012

giannoniani


Un giorno, quando insegnavo al Giannone, dove realisticamente tornerò nei prossimi anni, chiacchierando con Amerigo, emerse l’idea di creare un’associazione di ex alunni. Ho sempre avuto la fisima della “memoria” all’interno di un organismo… Quando ero a Colle Sannita, ad esempio, creai una specie di angolo (non so se esista ancora) con foto e diplomi degli alunni. Condividemmo questa idea con Gaetano ed altri amici. Nacquero, dopo una complessa gestazione, “i Giannoniani”. Come è giusto, debbono essere altri a giudicare l’operato di questa associazione. A me fa piacere, però, aver mantenuto fede, insieme agli altri, all’idea di farla essere non tanto e non solo un luogo “amarcordiano” ma un laboratorio di elaborazione culturale.

[Mi iscrissi al Giannone senza neanche pensarci. Mia madre, mio padre, le mie sorelle venivano dal Classico. La matematica, lo avevo già capito alle medie, non sarebbe mai stato il mio mestiere. Ho ricordi belli di quegli anni. Ebbi un docente straordinario di greco e latino nel triennio. Ascoltavo in estasi le sue lezioni su Lucrezio e Cicerone. Fu sprone importante, insieme all’esempio materno, alle mie scelte future. Eppure non mi sarei interrogato né allora né dopo, all’Università, sul senso del mondo classico per il presente. È quasi come se ci fosse una divaricazione netta tra lo studio del passato e la comprensione del presente].

Debbo al lavoro di questi anni, con l’associazione la possibilità di sanare una frattura nella mia cultura. Qualche giorno fa, si è svolto uno dei nostri seminari. Per l’occasione avevo lavorato proprio su questa mia frattura, che, spero, si avvii a sanarsi, proprio nella direzione che ho intravisto in questo periodo di riflessione. Mi sono accorto, infatti, che tutte le categorie elaborate dal grande pensiero politico del XX e del XXI secolo, nascono dal serrato confronto con il mondo classico. I casi novecenteschi più emblematici sono quelli dello Schmitt del dopoguerra e della Arendt. In entrambi i casi, si tratta di rivitalizzare aspetti del mondo antico (essenzialmente greco) per comprendere il presente. Non si tratta di una banale e scontata “eterna” attualità del classico. No. Possiamo, invece, divenire “eredi senza testamento”, come scrive la Arendt citando Char, attraverso una sorta di filologia creativa al servizio della vita. Non casualmente ho potuto integrare nel mio lavoro tutte le letture più impegnative degli ultimi anni di teoria politica: Toni Negri, che mi interpella, malgrado la sua antropologia immanentistica che mi ripugna, Giorgio Agamben, pensatore enigmatico che ambirei conoscere e che invidio anche per le sue frequentazioni, Roberto Esposito, cui ho dedicato tutta l’estate scorsa, e che in maniera appartata e rigorosa sta ridefinendo tutte le categorie politiche (impolitiche) che rendano possibile davvero andare oltre il Novecento. Ebbene, tutti questi pensatori, che il mondo ci invidia, stanno “pensando” il presente (e il futuro) sulla base di parole antichissime: impero, homo sacer, immunitas, communitas, bios… Ho avuto la sensazione che, finalmente, due stanze non comunicanti della mia storia culturale finalmente si aprissero l’una all’altra, dando significato alle ore trascorse a tradurre Virgilio e Tacito, nauseato.
Non so se, quando Caterina dovrà fare le sue scelte, il Liceo Classico esisterà ancora. Io mi auguro di sì. Se mi chiederà un consiglio, le dirò che solo il passato più diverso da noi ci dà gli strumenti per capire il nostro tempo e per dischiudere il sogno di una cosa. Anche se per ognuno di noi vale quanto già richiamato: «Notre héritage n'est précédé d'aucun testament». A ciascuno il compito difficilissimo di “ereditare”, senza essere risucchiati in un passato paralizzante e mummificato.

venerdì 2 marzo 2012

Pasolini

In bici, dal Rione Libertà a Piazza Risorgimento.
Un percorso, certo, pieno di promesse,
che ben s’addice al mio bisogno d’aurora,
di nuovi inizi. Sul Corso sciamavano
i ragazzi, elettrizzati per l’ora
inattesa d’aria. Assemblea sindacale,
parola triste, grigia, burocratica…
Lì ho parlato ai compagni (emoziona
ancora dirla questa parola fragrante).
D’Atene, dove il capitale cancella
democrazia e poesia in nome dei suoi idoli.
Della furia del denaro che devasta il mondo.
Di loro, cui la cecità dei padri nega speranza.
E poi di nuovo a casa, passando dal Corso,
e di nuovo quei volti immersi nella primavera
mai così attesa. Immemori e senza domani.
Gaia, Vittorio… Nomi presagio?
Che a voi tocchi l’arduo compito
d’un’ilare trionfo sull’orrore economico.

Siate la carne viva delle mie parole.