mercoledì 24 settembre 2008

autobiografia





Nicola Sguera nasce a casa sua il 20 giugno 1967.
Vive un'infanzia senza ombre, se non quelle che la sua fantasia bizzarra trasforma, di notte, in orchi e vampiri.
Nel 1984 nasce a nuova vita: smette di mangiare carni per empatica compassione, rompe il patto con il Dio della sua tradizione familiare e conosce la sua futura moglie. Meglio sarebbe non essere mai nati, ripete spesso.
Il 24 gennaio del 1990 sua madre decide di impartirgli l'ultimo memorabile insegnamento: «nella mia fine è il tuo inizio».
Nel mercoledì delle ceneri del 1998 si inginocchia nuovamente, e prega un Dio sconosciuto: per la prima volta comprende il senso della parola "amen".
Quando la sera osserva sua figlia, raccolta in un sonno finalmente sereno, e pensa a sua madre, ai suoi alunni, al vino, alla poesia di Char, alle canzoni di Nick Cave e all'Inter, benedice e «sì, in fondo, altissimo, non onnipotente buon Signore, grazie».
(Scritta all'interno di un seminario con Domenico Notari - che ringrazio-, tenutosi il 23 settembre al Liceo Classico "P. Giannone")

domenica 14 settembre 2008

Gomorra è il mondo...


Contravvenendo ad una regola che ho seguito negli ultimi anni, ho letto un libro di grande successo quasi in tempo reale, senza aspettare il giudizio del tempo. È stata una lettura appassionante.
Tre cose ne vorrei sottolineare.
L’unico auctor che viene evocato da Saviano è Pasolini, la cui tomba diviene meta di pellegrinaggio. Eppure fra Saviano e Pasolini c’è una differenza abissale: il primo ambisce all’epica, il secondo alla tragedia. L’immaginario di Saviano, soprattutto quello filmico, è tutto, a suo modo, epico. Quando Pasolini si è confrontato con il cinema ha scelto, non a caso, la tragedia come riferimento privilegiato. Epica e tragedia rappresentano modi incompatibili di lettura della realtà.
L’altro aspetto che mi ha colpito è la presenza fitta di riferimenti filmici. Ciò mostra chiaramente come la cultura della nostra generazione (i suoi miti) siano tutti o quasi tutti cinematografici, ma anche come il cinema consenta una lettura profonda della realtà, avendo esso permeato l’immaginario collettivo (i boss che assumono pose filmiche, la villa fatta ad imitazione di Scarface).
Il terzo aspetto, il più importante, quello che eleva il libro dalla cronaca giornalistica, facendone un’opera importante di questi anni, è il basso continuo che Saviano mantiene fino all’ultima pagina per cui parlando del “Sistema”, della camorra, in realtà parla anche del capitalismo contemporaneo. La vera ambizione del libro mi sembra quella di suggerire come, in realtà, il camorrista oggi sia un imprenditore di successo, che del capitalismo matura assimila stili e ambizioni. Napoli è il mondo intero in piccolo. La camorra non è solo una delle maggiori imprese italiane, ma è la metafora stessa di un “sistema” che, dimentico di qualunque valore che non sia di tipo economico, è necessariamente criminale, anche se i suoi artefici non hanno più l’aspetto dei briganti sanguinari ma leggono raffinate opere letterarie o collezionano opere d’arte. Il messaggio di Saviano è che i camorristi, in realtà, non fanno altro che rendere puro il meccanismo che opera nella civiltà contemporanea, dove, abolito il passato e il futuro, non resta che un presente da occupare con violenza, in cui, per citare un film a lui sicuramente caro, «la candela deve bruciare da entrambi i lati». È, dunque, vana impresa contrastare il “sistema” operante in Campania senza mettere in discussione il sistema-mondo.