lunedì 4 marzo 2024

Luca Rando su "Spes contra spem"

 


                                        «Le vane 

lusinghe trapassano, gli applausi 

svaniscono in luoghi deserti.

Resta l’opera costruita nel tempo: 

un uomo, una vita». 


Recitano così alcuni dei versi di questo nuovo lavoro di Nicola Sguera che traccia il percorso esistenziale di un io che “spera contro ogni speranza”, nonostante tutto. I versi, introdotti nelle varie sezioni da uno scritto in prosa che guida la lettura, attraversano il vivere tenebroso, alienato, solitario, in fiamme, segnato dalla morte, per aprirsi alla speranza, una speranza che non è illusione ma sprone all’agire, fatta di persone vere, di corpi da amare e da curare (la moglie, la figlia, gli amici, gli allievi, le sorelle, Maria…).  E in questo percorso, che è da dentro a fuori, da sé verso l’esterno e ritorno, al centro c’è il Deus che segna l’incontro, la comunione tra morte e amore, tra contra spem e spem, tra sofferenza e cura. Giunto a metà del cammino esistenziale, con questo nuovo libro di poesie Sguera continua il suo percorso di chiarificazione, anche attraverso la semplificazione del verso, la brevità dei testi, per cogliere attraverso di loro una luce nuova, per arrivare ad accettarsi «creatura imperfetta».


giovedì 21 dicembre 2023

Marvel(s) a scuola

 


Poiché una cara amica me ne chiede conto, ne approfitto per fare sintesi di quanto accade ad un corso di cogestione.

Due premesse.

La prima: io adoro questi giorni che preludono alle feste natalizie e sono perfettamente inseriti in una scansione (trimestre+pentamestre) in cui verifiche e compiti sono finiti e le energie intellettuali (di docenti e discenti) decisamente scariche. Sia tale scansione sia le giornate “di licenza” (mi piaceva assai questo nome che evocava il Liceo, la licenza poetica, la licenza militare) furono innovazioni per le quali spinsi e per cui mi sono speso nel corso degli anni. Ora la “cogestione” è stata affidata, nel contesto di una dirigenza illuminata, ad una giovane collega che unisce teutonica efficienza e materna comprensione, con risultati eccellenti. Sono momenti preziosi, se partecipati attivamente anche dal corpo docente, per cogliere i mutamenti, spesso carsici, dei nostri giovani: i loro gusti, i loro centri di gravità, i film che amano, la musica che ascoltano. E anche per rubare loro una scintilla di giovinezza…

La seconda: chi mi conosce sa bene che, accanto all’Inter (ahi…), i fumetti sono una passione dominante. In particolare, quelli super-eroistici, e in particolare quelli della Marvel. Quando nacque “BN.ComX”, tenemmo un po’ di incontri dedicati a maestri del fumetto o grandi opere. Io, con Antonio Furno, mi occupai, appunto, della Marvel e della sua magia (era il maggio 2021, Dio come passa il tempo…). Quella struttura si è arricchita negli anni, nella periodica riproposizione, in particolare di riferimenti filmici e televisivi (essendosi moltiplicate serie tv e film del Marvel Cinematic Universe).

E rispondo ora alla curiosità dell’amica.

Dopo un breve test di conoscenza sull’argomento, illustro in pochissime parole la storia del fumetto supereroistico prima della Marvel: quindi, Superman e Batman (1938 e 1939), la Golden Age del fumetto, la DC, la Timely (la “nonna” della Marvel), con i primi personaggi (la Torcia Umana originale, Namor, Capitan America) dove lavorano Lee e Kirby, la Atlas (la “mamma” della Marvel). E, nel contesto radicalmente mutato degli anni Sessanta, la nascita della Marvel e, nell’arco di pochissimi anni, la creazione leggendaria da parte di un pugno di uomini guidati da Stan e Jack, di centinaia di personaggi iconici: i Fantastici Quattro (1961), Ant-Man, Hulk, Spiderman, Iron Man, Thor, gli Avengers, Doctor Strange, per citarne solo alcuni. 

Poi illustro le caratteristiche di fondo dei fumetti Marvel (i super-eroi con super problemi), il radicamento nel mondo reale (Superman e Batman operano in città inventate, Spiderman a New York), i riferimento all’attualità, la capacità rabdomantica di capire cosa si muove nel sottosuolo della società. E quindi attraverso le fasi salienti con alcuni snodi fondamentali dal punto di vista creativo (gli X-Men di Byrne e Claremont, il Devil di Miller, giusto per fare due esempi). Negli anni Ottanta la Marvel perde smalto. La DC rinnova il fumetto mondiale con opere leggendarie (il Batman di Miller, Watchmen e V per Vendetta di Moore). La magia scompare. Si affermano “grandi” disegnatori a discapito delle storie. È il periodo che non amo di questa importante saga editoriale. Che culmina nel fallimento (Chapter 11, era il 1996), che smembra per altro i diritti cinematografici sui personaggi. Per fortuna, con il nuovo millennio un personaggio straordinario (anche come disegnatore e sceneggiatore), un secondo creatore della Marvel, riscopre la magia. È Joe Quesada (dal 2000 al 2011 Editor in Chief) che chiama a lavorare talentuosi sceneggiatori (di nuovo le storie al centro!) come Millar o Straczynski o Bendis. È la stagione di saghe leggendarie come Civil War o Secret Wars. E poi la nuova svolta: la Disney acquista la Marvel (2009) e tutti i suoi personaggi. In sordina, con un personaggio minore, si pongono le basi per il crack che seguirà: il trionfo cinematografico. È il 2000… Per i fan Marvel è cominciata una seconda giovinezza con splendidi film (che rimescolano l’immenso catalogo di personaggi e storie in maniera creativa grazie al talento di Kevin Feige, altro nome chiave) e serie televisive alcune di valore assoluto (prima con Netflix poi con Disney+). Inevitabile da appassionato da disegno (era mio sogno diventare disegnatore di fumetti, coltivato fino ai diciassette anni), una carrellata di grandi maestri: il Re (Kirby), maestro di intere generazioni, John Buscema, John Romita, scomparso da poco, Jim Steranko, Barry Windsor-Smith, Gene Colan, Gil Kane (nomi che mi fanno venire i brividi: la gioia infantile di sfogliare un albo a fumetti è integra, come quella di vedere i giocatori che entrano in campo con la maglia nerazzurra).

E suggerisco poi due opere da leggere (Marvels di Busiek e Ross, 1602 di Gaiman e Kubert).

Ogni evento, poi, si arricchisce con riferimenti o digressioni che possono derivare dall’interazione con il pubblico, che è molto preparato sul cinema ma poco sui fumetti, soprattutto quelli delle origini. 

Chiudo con una riflessione scaturita in questi giorni, dopo la visione di The Marvels. Sicuramente con Endgame il MCU è entrato un po’ in crisi. Direi che, con l’eccezione del secondo Doctor Strange e il terzo dei Guardiani, i film prodotti vanno dall’accettabile al mediocre al pessimo (andrebbero sempre affidati ad autori con una stile riconoscibile come Raimi e Gunn). Di contro, mi pare che le serie tv siano tutte interessanti o eccellenti, rivolte ad un pubblico adulto, capaci di affrontare tematiche complesse e ottimamente recitate (WandaVision, ad esempio, è un capolavoro di incredibile complessità, anche visiva: una meta-serie televisiva). 

L’universo Marvel è vastissimo: ci sono tantissimi personaggi (i mutanti, appena accennati fino ad ora, ad esempio) da valorizzare, storie da riprendere. Insomma, l’augurio è che sia solo una crisi di crescita. 

Mi piacerebbe invecchiare continuando a leggere e vedere film che, attraverso i super-eroi, quindi utilizzando uno schema mitico (che è un bisogno strutturale dell’essere umano) mi diano da pensare sulla giustizia, la politica, il senso della vita. Come è accaduto da quando avevo cinque o sei anni. 


domenica 17 dicembre 2023

Toni Negri [φιλοσοφία]

 


Sono esistiti due Toni Negri per me. Il primo era solo un nome, uno dei tanti, associato all’oscura stagione della violenza e del terrorismo. Appartengo ad una generazione segnata indelebilmente da telegiornali dominati da notizie tragiche e incomprensibili. All’epoca del sequestro Moro avevo 11 anni. Gli anni Ottanta furono attraversati nel rigetto della politica, associata al sangue o al denaro. 

Ho ritrovato Toni Negri, dunque, un altro (o sempre lo stesso?), dopo molti anni, e precisamente a cavallo dei millenni, quando iniziava ad entrare in crisi la narrazione sulla “fine della storia”, sotto la polvere delle Twin Towers. La trilogia “imperiale”, fondata sul concetto di “moltitudine”, ha avuto enorme impatto su di me. Ho considerato, in quegli anni, Toni Negri un maestro. E ricordo ancora la mia (vera) maestra, Biancamaria Frabotta, che gli “anni di piombo” li aveva attraversati in prima fila, quando le parlai di queste letture appassionate dirmi, con un fremito di orrore, che per lei Negri era una persona orrenda, legata a ricordi angoscianti. 

Con gli anni, pur grato a quelle pagine sempre intriganti e talvolta geniali, ho maturato una profondo distacco, prima di tutto dall’antropologia sottesavi. Più in generale, mi sono reso conto che la mia “educazione cattolica”, evidentemente molto più profonda di quella che lo stesso Negri ebbe, reclama un uomo che non sia la mera evoluzione di un animale (ma qui entro in rotta di collisione con tutto il pantheon di pensiero e prassi politica di cui il pensatore padovano è ultimo esponente). Soprattutto, ho superato negli anni l’idea (hegeliana e marxiana) che esista una sorta di legge immanente al divenire storico che procede verso una meta (la libertà o il comunismo). E, dunque, ritengo che la globalizzazione non sia stato un fenomeno né necessario né benefico nei modi (politici!) in cui si è realizzato ma, esattamente come la rivoluzione industriale analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione, si sarebbe dovuta temperare e contrastare. Avrei, nel tempo, superato anche la fiducia nella costruzione di un soggetto plurale capace di politica in maniera pressoché spontaneista. 

Resta l’opera di un pensatore importante con cui è doveroso ancora confrontarsi. Non so se gli strumenti teorici approntati dal “secondo” Negri siano, però, utilizzabili per il lavoro dei prossimi anni.


giovedì 7 dicembre 2023

Un'altra risposta a Gianluigi Panarese su capitalismo, democrazia, decrescita [πολιτική]

 


Il collega e amico Gianluigi Panarese risponde alle mie riflessioni. Riporto quanto scrive integralmente.

 

Caro Nicola,

1) la Repubblica certamente non è "organo bolscevico(se così fosse potrebbe accampare qualche merito), quanto organo del “più grande partito radicale di massa”, pannellianamente in totale confusione di idee, sostenendo tutto e il contrario di tutto, secondo come tira il vento.

Venendo a Galli e al suo libro, io noto che dietro quel titolo non si capisce bene se c'è una reale preoccupazione per una possibile fine della democrazia o un sottile (subdolo) compiacimento per la sua scomparsa.

Lo dico perché sappiamo bene che non pochi tra intellettuali, politici di ogni specie, giornalisti etc., guardano ,con un malcelato ed inquietante interesse , ad esperienze politiche che portano sulla “via della seta” o sulla strada di autocrazie (giusto per non chiamarle con il loro nome: tirannie). Ripeto: il dubbio resta.

Che le democrazie siano in crisi mi sembra evidente, la ricetta sul come uscirne non è chiara.

Certo chiudi il primo punto scrivendo che la “democrazia è la regola e il perimetro entro cui realizzare società più o meno uguali”, ma lasciando intendere che la democrazia si presta ad essere strumentalizzata per il l'interesse e l'egoismo di alcuni a scapito di altri. È evidente che la democrazia non è il migliore dei mondi possibili, tuttavia ti garantisce un “perimetro “entro cui puoi lavorare per limitare e contrastare proprio quell'egoismo, che resta comunque un tratto ineliminabile della natura umana, così come altri poco piacevoli. Solo certe utopie hanno pensato di estirpare il Male dal mondo, ricorrendo però a un male peggiore.

Per chiudere confesso che amo leggere e trovo più concreto Giovanni Sartori (ahimè scomparso) che non Galli.

2) Sulla decrescita, conviviale o felice che sia, confermo che è parola vuota, priva di qualunque contenuto e così ritenuta universalmente , dal momento che non c'è nessuno Stato, Governo etc. etc. , che abbia mai preso in considerazione una simile fantasia. Almeno io non ho mai sentito parlare di politiche economiche volte alla decrescita da parte di chicchessia. Sento al contrario di come creare politiche economiche espansive, per motivi del tutto ovvi. Dopodiché la crescita economica si deve assolutamente armonizzare con il rispetto per l'ambiente (la tecnica e la tecnologia sono in grado di fornirci gli strumenti all'uopo) e con la difesa del lavoro dignitosamente retribuito. Ma questo è semplicemente (si fa per dire) compito della Politica, lo sarebbe soprattutto di una parte politica che invece è stata latitante negli ultimi decenni ed è ora in tutt'altro affaccendata. E mi taccio!!

È vero sono legato alla cultura della terra ed è per questo che non corro dietro a cose fantasiose, come ad esempio la cosiddetta “agricoltura biologica”. Chiunque conosca un po' il mondo agricolo sa che non si può produrre nulla biologicamente su larga scala per milioni di persone, se non miliardi, semplicemente perché ci sarebbero carestie in breve tempo. Il biologico è un lusso che si possono permettere quelli producono per sé e che si accontentano di quel poco che riescono a ricavare da una coltura non trattata con pesticidi e concimi chimici. Ma questi sono irrinunciabili se si deve pensare a riempire decine di migliaia di scaffali di supermercati con tonnellate di prodotti alimentari tutti i santi giorni.

Scrivo questo per dire che credere alla decrescita felice/conviviale è come credere all'esistenza di una agricoltura biologica capace di sfamare milioni di persone. Pura illusione.

Anche qui, è chiaro che l'uso dei prodotti chimici non può avvenire in modo indiscriminato e senza il rispetto di norme che da noi (ripeto da noi in Italia, altrove non so) ci sono.

3)e vengo alla questione capitalismo, che non rappresenta certo la fine della storia né, anche qui, il miglior sistema economico delle galassie.

Eppure negli ultimi 100 anni l'umanità è cresciuta esponenzialmente arrivando a quasi 8 miliardi di persone, l'età media quasi ovunque si alzata come non mai, decine di paesi sono usciti dalla povertà o sono sulla punto di uscirne, le carestie sono sempre meno frequenti nei paesi che abitualmente andavano incontro a queste sciagure, e potrei continuare.

Ebbene se così è, non lo è stato per opera e virtù dello Spirito Santo, ma perché il tutto è avvenuto in un modo o nell'altro proprio grazie ad un sistema economico di successo, che certamente ha creato distorsioni e problemi giganteschi, ma che ha pure garantito un benessere ed uno sviluppo diffuso (rendendo da questo punto di vista paradossalmente sempre più marginale l'Europa stessa, culla del capitalismo) che non è sic et simpliciter solo il portato “di una violenza invisibile altrove”.

Concludi chiedendoti se il capitalismo è disposto a lasciarsi imbrigliare, dopo che lo è già stato per il passato.

Se ciò è avvenuto a costo di “dure lotte” può accadere di nuovo. Se qualcuno “ha rotto le catene tra politica ed economia” , queste si possono saldare di nuovo. Cosa lo impedirebbe?

Caro Nicola, alla fine di tutto e tirando le somme non abbiamo fatto altro che, come in un gioco dell'oca, tornare alla questione più importante di tutte che ruota intorno alla necessità di difendere e rilanciare quello che resta dello stato sociale/ welfare state.

Ma come ben sai il più grande partito radicale di massa ha preferito trastullarsi con ben altre tematiche meno compromettenti, finché “il cavallo non è fuggito dal recinto” e così ci siamo ritrovati con uno Stato ridotto sempre più all'osso, frantumato e disarticolato in quasi tutte le sue strutture.

Con la sua scientifica disarticolazione è saltata pure quel poco di “società stretta” che nel secondo dopoguerra le varie forze politiche avevano provato a costruire.

In tutto questo il capitalismo c'entra, ma ancora di più c'entra una diffusa pusillanimità... e tanto altro.

 

Vado per ordine e punti anch'io.

 

1) «la Repubblica», che non mi ha mai appassionato nelle sue scelte di fondo, pubblica spesso interventi di rilievo che val la pena meditare. Quello di Galli rientra in tale tipologia. Il suo libro, lungi da l'essere un de profundis della democrazia, è un invito al lavoro critico per rinnovarla, dal momento che una delle sue configurazioni storiche (la democrazia “neoliberista”) si sta esaurendo. Indica, dunque, una serie di condizioni proprio perché l'Europa non diventi una “post-democrazia” o una “democratura”.

Negli anni ho maturato, attraverso studi, letture, pratica diretta che la democrazia è un campo conflittuale e che non esiste nessun “universale” (come la classe dirigente ipotizzata da Hegel) che possa essere super partes. In particolare, lo studio appassionato di pensatori populisti come Laclau e Mouffe mi ha insegnate a vedere la democrazia con inevitabile campo di conflitti. Ma già Machiavelli insegna, nei Discorsi (Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica, I,4) come la dialettica sia motore di progresso civile. Altrove l'ho definita una concezione “eraclitea” della politica, in cui la tensione viene vista non come fonte di στασις (è, al contrario, la concezione platonica che esalta la “giustizia” come equilibrio tra le classi, meglio caste nella sua spaventosa utopia). E, sempre per rimanere in tema di utopia, ho maturato negli anni l'idea che essa sia necessaria come idea regolativa, divenendo perniciosa quando la si vuole realizzare concretamente. 

2) Sulla decrescita. Temo che le criticità create da agricoltura intensiva e chimica, il supersfruttamento della terra, linquinamento di acque e aria, costringeranno ad una revisione radicale del nostro modo di abitare il mondo. Mi auguro che la tecnica aiuti in questa “transizione” (come si usa chiamarla), ma la lettura di alcuni maestri (penso soprattutto ad Illich) mi ha induce a credere che sia necessario un mutamento di paradigma, un'idea completamente diversa del ruolo dell'uomo nel mondo, un mutamento di sguardo (e qui il discorso si amplierebbe alle radici filosofiche del dominio tecnico e distruttivo dell'uomo sulla natura, ne parlo spesso e volentieri). Il “biologico” non è un lusso ma la forma che (ri)assumerà l'agricoltura del futuro, che tutelerà la diversità e porrà fine a disastrose monoculture. Produrre cibo cheap, per altro, è uno dei modi in cui l'economia capitalista ha sorretto il suo progetto “cannibalico”, che sta portando, purtroppo, il pianeta al disastro ecologico. Forse andrebbe rivisto anche l'approccio “bulimico” nei confronti del cibo attraverso una sana opera di prevenzione medica (una medica meno condizionata dalle grandi case farmaceutiche e più preventiva che curativa) educando a mangiare meno, meglio e in maniera sana. È un caso che l'obesità sia così diffusa tra le persone meno attrezzate culturalmente? Io credo di no. E vedo un lavoro sinergico in cui il cambiamento di abitudini alimentari (che è... salute!) trasformi anche l'agricoltura planetaria, e la tecnica consenta di superare l'orrore quotidiano di miliardi esseri immolati per nutrirci. Mi auguro che la carne “coltivata” consenta una svolta radicale in tal senso. Infine, non è secondario che l'agricoltura non intensiva e monoculturale tutela la biodiversità e le tradizioni locali. 

 3) Il capitalismo. Come sistema economico nasce nel XIV secolo, ha una complessa storia interna che ha portato un arricchimento non omogeneo di alcune parti del pianeta. Pericoloso dimenticare che ciò che esalti del capitalismo (occidentale) è avvenuto (almeno dal 1492) con costi umani spaventosi (ricordo solo il genocidio amerindo e la tratta di milioni di esseri umani tra Africa e Americhe). Il punto (e ti rimando agli illuminanti studi di Arrighi o della Fraser) è che il capitalismo non può esistere senza estrarre ricchezza attraverso lo sfruttamento non solo dal lavoro salariato ma anche, in maniera invisibile, dallo sfruttamento delle donne, della terra, delle periferie imperiali. 

Sulle conclusioni posso essere d'accordo. Certo, è necessario rilanciare la lotta per i diritti sociali e civiliÈ una delle strade possibili. Il mio pessimismo riguarda la volontà da parte degli agenti del capitalismo contemporaneo di accettare “limiti”, di ritornare nell'ovile del compromesso che ha retto l'Occidente tra il 1945 e il 1975 (circa). Certo, c'è una responsabilità soggettiva dei partiti socialisti europei in particolare (penso al partito socialista della seconda presidenza Mitterand, alla SPD tedesca, ovviamente al PCI italiano). Ma anche un oggettiva controffensiva del pensiero liberista, incarnatasi in teorie economiche egemoniche divenute prassi («la società non esiste»). E, ancora, le trasformazioni tecnologiche (in particolare, la rivoluzione informatica) davvero dirompenti.

Non ho ricette semplici, ma il desiderio di capire quanto sta accadendo, e di dare un contributo sia come educatore (insegnando ai miei allievi a decifrare il proprio tempo così opaco) sia in forme di attivismo civile e politico alcune delle quali già sperimento e altre che spero di incrociare nel mio complesso percorso, senza garanzie, di impegno. 

 


giovedì 23 novembre 2023

Una risposta Gianluigi Panarese su democrazia e capitalismo [πολιτική]

 


Sto leggendo, con un piacere che è pari solo alle aperture che percepisco nella mia testa rispetto a certi processi, l’ultimo libro di Carlo Galli (Democrazia, ultimo atto?). Come spesso mi capita negli ultimi anni, ne estrapolo dei passaggi particolarmente suggestivi, li monto con i miei rudimentali mezzi grafici, con il vezzo di un monogramma (ispirato al logo di “Giustizia e Libertà”). 

Un caro collega, Gianluigi Panarese, che anima spesso e volentieri le discussioni su temi di attualità sulla chat dei docenti, ha lasciato un commento che riporto.


Ho promesso a Gianluigi una risposta articolata. È questa.

Scompongo il suo commento, breve ma densissimo di sollecitazioni.

1)     Equivocando il senso della frase di Galli (che stigmatizza, e fa benissimo, la cecità di buona parte della sinistra, che già era non solo post-comunista ma anche, col senno di poi, post-socialista), Gianluigi parla del fallimento del comunismo “reale” (quello sovietico e dei paesi orbitanti intorno all’URSS, potremmo riflettere sul fatto che uno dei più popolosi e ricchi paesi del mondo si definisce comunista, ma sarebbe discorso altro, lungo e complesso). Per esso non ho alcun rimpianto, ovviamente. Posso solo invitare il collega a leggere il libro di Galli, che è una mirabile ricostruzione a volo d’uccello del Novecento e del primo scorcio di XXI secolo. La tesi è che la democrazia, in virtù della dialettica sociale, politica ed economica, ha subito diverse modificazione, arrivando alla sua ultima incarnazione: la democrazia al tempo del neoliberismo. Galli la vede (giustamente!) in crisi (mettiamo in fila ripresa dei conflitti, il ritorno del “politico” almeno dal 2001, crisi economica dal 2007, crisi pandemica nel 2019) e prova ad immaginare cosa potrebbe accadere. Quindi, il Nostro, che scrive su «Repubblica», non esattamente un organo bolscevico, è solo un lucido, realista (ma anche critico) teorico della democrazia, vista in maniera non astorica e atemporale ma incardinata nel proprio tempo cangiante. E io con lui: la democrazia è “la” regola del gioco, il perimetro entro cui realizzare società più (per me) o meno (per altri) eguali.

2)     Nella seconda sollecitazione Gianluigi evoca, immagino, Beppe Grillo. In realtà, il personaggio non ha elaborato nulla di originale: il tema della decrescita, che mi appassiona da almeno due decenni, ha grandi teorici (non solo il più celebre, Latouche). Precisamente, il sociologo francese parla di “decrescita conviviale” (riprendendo il tema da un gigante del pensiero novecentesco, Ivan Illich). È invece Maurizio Pallante in Italia che parla di “decrescita felice”. Non mi avventuro nel tema, anch’esso ricchissimo. Quando militavo nel M5S dedicammo un approfondimento alla questione. In ogni caso, la mia personale opinione è che sia un approccio corretto e mi sorprende che una persona come Gianluigi, così legata alla cultura della terra (come me) e alfiere della vita “sana” e semplice, non senta il bisogno, ben oltre Grillo, di approfondire. Mi farà piacere, dunque, continuare a parlarne con lui.

3)     Credo profondamente alla democrazia, ritengo che vadano innestati momenti di democrazia diretta nel quadro di una inevitabile rappresentanza (stante la mole degli Stati moderni), che rendano i cittadini protagonisti delle decisioni ed evitino derive tecnocratiche (o post-democrazie o democrature, come sta accadendo in alcune parti del mondo o dell’Europa stessa). E sono convinto che una democrazia vitale e sana debba avere la forza (politica!) di redistribuire la ricchezza prodotta e lavorare per l’eguaglianza (attraverso servizi ai cittadini diffusi e di qualità). Il punto (che sempre Galli rimarca) è il seguente: il capitalismo (che ha una storia lunga, almeno a partire dal 1300) nella sua configurazione attuale (neoliberista) è compatibile con la democrazia di cui parli? È contenibile? Il capitalismo (Marx docet) non è “perfido”. Rifuggiamo dalla visione moralistica della società e dell’economia. Il capitalismo è… capitalismo! Cioè, un sistema economico il cui scopo è produrre dal denaro più denaro. Punto. Non importa come. Lo si può temperare? Sì. Lo dimostrano i “Trenta gloriosi” (1945-1975), in cui in Occidente crebbero salari, profitti e diritti (con dure lotte, però, non lo si dimentichi). Ma, cosa accadeva “fuori dall’Occidente”? Quel benessere, in cui il capitale accettò di essere “contenuto” dalla virtù politica, non fu il portato di una violenza invisibile altrove (in Estremo Oriente piuttosto che in Africa o America Latina)? E, soprattutto, finito quel compromesso tra politica ed economia, oggi il capitale è disposto a lasciarsi nuovamente contenere, dopo che i suoi dioscuri (Thatcher nel Regno Unito e Reagan in USA) ruppero le sue catene?

Chiudo. Tre sono le strade innanzi a noi:

1)     il capitalismo, libero da freni e controllo politico, continua la sua opera di devastazione, producendo rifiuti di ogni tipo (anche umani, come i disoccupati o i working-poor) e estraendo ricchezza dalla natura e dalle periferie imperiali (Arrighi);

2)     la democrazia riesce a rimettere nel recinto il cavallo fuggito e limitarne gli “spiriti animali” (con il ritorno dello stato sociale e del welfare);

3)     il capitalismo viene superato da un’organizzazione economica in cui il mercato ha evidentemente un ruolo importante ma non fagocita tutte le sfere della vita, rivitalizzando l’etica del dono, la cooperazione (contro la competizione), lo sharing, il tempo più che libero liberato, le relazioni umane et cetera. Un altro paradigma non solo economico ma di società. Sempre Marx ci ha insegnato che il capitalismo non è "la" forma atemporale dell'economia ma una sua possibile configurazione. 

Come già detto, mi farà piacere continuare a parlarne con il collega perché la scuola è un luogo, pur oberato da compiti inderogabili, dove, nelle pieghe, cresciamo insieme tra diversi.


venerdì 17 novembre 2023

Sciopero [πολιτική]

 

Oggi ho scioperato

Ritengo questo che stiamo vivendo un momento importante della storia italiana nel contesto di una più ampia ridefinizione di concetti come capitalismo e democrazia. E ben ha fatto Pellizzetti a sottolineare che ogni svolta “a destra” (utilizzo la categoria per intenderci subito, dovrei declinarla), è sempre annunziata dall’attacco ai diritti del lavoro. Le esternazioni di Salvini e i titoli dei giornali vicini al governo vanno presi sul serio, malgrado possano apparirci delle smargiassate. Nascondono, se viste in filigrana, “lo” scontro del nostro tempo. Scontro di “classe” (anche qui utilizzo una categoria che andrebbe specificata, declinata, risemantizzata: la ricerca di parole nuove per dire il nostro tempo è parte decisiva del lavoro che stiamo facendo e dovremo fare, il cantiere è aperto e confuso).

Come scrive Carlo Galli nel suo ultimo, splendido libro, assistiamo, dopo decenni di “spoliticizzazione” (la presunta “fine della storia”, la globalizzazione come pacificazione del mondo attraverso il commercio universale), ad una ripoliticizzazione che rimette al centro i conflitti (dentro gli Stati e tra gli Stati). Come sempre, leggendo sempre insieme storia del mondo e storia personale, ne prendo atto. Inizia una fase nuova, dopo il tentativo “populista”, di cui sono stato partecipe e questo blog testimonia, soprattutto negli anni tra il 2015 e il 2018. Ed è finito con una sconfitta. L’intervista a Grillo, al di là della piccolezza umana del personaggio (in relazione alla tristissima vicenda del figlio che tristissima rimane quand’anche dovesse essere assolto dalle accuse di stupro), ne è certificazione (se ce ne fosse stato bisogno), almeno per la vicenda italiana. 

Personalmente, ritengo doveroso, per il futuro, armarmi di realismo, nel contempo (sottilissima la cruna) esercitando la critica di ciò che è ma anche indicando una direzione diversa. Mi pare che dal punto di vista teorico si stia, finalmente, delineando un arcipelago di teorie, libri, autrici e autori che si sforzano di tenere insieme cose per per lungo periodo sono state separate, spesso confliggenti. Bisogna continuare ad affiancare una teoria nuova, che conservi il meglio delle tradizioni di lotta e trasformazione del mondo dei secoli scorsi, soprattutto il XIX e il XX, a prassi nuove, la cui ambizione non sia “il mondo nuovo” ma sempre maggiore libertà, sempre maggiore giustizia, in un’ottica plurale che renda complementari le rivendicazioni degli oppressi di ogni tipo (e di ogni specie), consapevole della responsabilità dell’uomo nei confronti della realtà naturale, nel definitivo superamento del dualismo di matrice cartesiana che, insieme alla creazione dell’individuo, è la base teorica della modernità (e del capitalismo liberale). Ed è per questo, come hanno ripetuto spesso Laclau e la Mouffe, non bisogna pensare a paradigmi unici ma a percorsi anche assai diversi tra loro e profondamente radicati nella storia dei propri paesi, delle proprie comunità di appartenenza. Il rischio più grande da cui guardarsi (ecco l’appello al realismo) è quello della tabula rasa. Sogno meraviglioso che ha prodotto spesso e volentieri incubi della storia. Lo dirò con le parole (belle) di una figura discutibile del secolo scorso: «Fai quello che puoi con quello che hai, nel posto in cui sei».




domenica 5 novembre 2023

Il Marx di Desiderio, il Desiderio di Marx [φιλοσοφία]

 

Sul finire degli anni Novanta io militavo in Rifondazione Comunista, che a Benevento contava poco (pochissimo…). Nell’ottobre del 1999 organizzammo un seminario (non memorabile, detto con lonestà dei miei cinquantasei anni) con l’allora responsabile “cultura” di RC, Bruno Morandi, che aveva da poco scritto una Introduzione a Marx (Datanews, 1996). Il seminario si tenne a San Cumano, a casa mia, che qualche anno prima aveva ospitato gli incontri de “la rosa necessaria”. Sulla torre mettemmo una grande bandiera rossa. Vennero anche gli “eretici” del centro sociale (si chiamavano allora, poco prima che nascesse “Depistaggio”, “Rive Gauche”). Giancristiano Desiderio, che all’epoca dirigeva il «Sannio», volle dedicare all’evento un articolo, ovviamente stroncatorio. Io gli risposi. Così ci conoscemmo. Dopo di allora, c’è stato un rapporto di reciproco rispetto nella consapevolezza della distanza siderale che ci separava. In tal senso, l’esperienza della “Libera Scuola di Filosofia del Sannio”, con Amerigo Ciervo, fu un incontro tra diversi, durato, purtroppo, poco. Ora Giancristiano è una firma di prestigio del «Corriere della Sera», autore di decine di libri (tra cui spiccano quelli dedicati a Croce, di cui è divenuto, negli anni, uno dei maggiori cultori e conoscitori), l’ultimo dei quali ho letto in un pomeriggio, essendo dedicato all’autore che ci fece conosce: Karl Marx.

L'Anti-Marx. Anatomia di un fallimento annunciato (Con lettere inedite di Pasquale Martignetti, traduttore di Marx ed Engels, a Benedetto Croce) (Rubettino, 2023) è un agile volumetto scritto nel consueto linguaggio dell’autore, piano e irto di impuntature polemiche. Libro ambizioso, ma stroncare seriamente Marx, uno degli autori ancor oggi più letti e studiati al mondo, avrebbe richiesto decisamente qualche pagina in più...

Ci sono alcune cose che condivido del libro (e che sono spesso oggetto delle mie lezioni liceali). Come Giancristiano, credo che l’influsso hegeliano sull’autore del Manifesto sia stato duraturo e pernicioso (stupisce, dunque, la totale assenza di Popper nel libro ma anche della Arendt, entrambi critici finissimi di alcuni aspetti del marxismo). Questa è tesi ricorrente: Marx non avrebbe mai veramente superato la dialettica hegeliana, limitandosi ad un’opera di sostituzione. Sicuramente avrebbe dovuto sviluppare maggiormente una tesi che serpeggia (a partire dal titolo) nel testo, e cioè che in Marx ci sono in nuce tutti gli errori e gli orrori del comunismo novecentesco.

Nel libro di Desiderio manca ciò che è “vivo” (per citare autore a lui carissimo) di Marx, oserei dire imperituramente vivo. E, dunque, ha gioco facile, contestato quello che lui ritiene essere l’architrave del marxismo (cioè una storia tesa ineluttabilmente alla “razionalità” che è il comunismo, lascito hegeliano), contestare l’intero. Nei confronti dei grandissimi come Marx questo non funziona. Troppo grandi i contributi che troviamo nella sua opera per la comprensione dei fenomeni per trattarlo da “cane morto”. Dunque, si può non essere marxisti (è il mio caso da svariati decenni) ma continuare a leggere con beneficio l’opera del Moro, utilizzandone gli strumenti euristici. Contemporaneamente al libro di Giancristiano ho iniziato a leggere il libro di Kohei Saito (L’ecosocialismo di Karl Marx, Castelvecchi, 2023) che, con rigore filologico e recuperando i quaderni “scientifici” del pensatore di Treviri, mette al centro della ricerca l’ecologia in relazione all’economia. E il libro di Moore e Patel (Una storia del mondo a buon mercato. Guida radicale agli inganni del capitalismo, Feltrinelli, 2018: straordinario), ottimi esempi di come Marx possa essere letto e utilizzato nelle lotte del presente. Penso, infine, al magnifico lavoro che sta svolgendo Emiliano Brancaccio, utilizzando categorie marxiane, ad esempio, per la comprensione degli squilibri planetari (in particolare, la tendenza, intuita da Marx, alla centralizzazione dei capitali).

Più in generale, le mancanze del libro sono ascrivibili all’ideologia dell’autore e al suo ruolo di intellettuale “organico” (utilizzo volutamente categorie molto presenti nel libro). L’esaltazione acritica della borghesia (non tutta evidentemente: quella che controlla il capitale e decide le sorti del mondo) dimentica il ruolo che essa ha avuto e ha nello sfruttamento (lavoratori salariati, schiavi, donne, “diversi”, natura, per citare Moore) nel corso dei secoli (e Marx scriveva, insieme ad Engels che ne aveva parlato distesamente, nel momento di maggior sfruttamento del lavoro operaio). Dipingere la storia dell’Occidente come una straordinaria vicenda di lotta per libertà e il progresso, dimenticandone il “lato oscuro”, è pura ideologia. Nel contempo, ritenere che, tolta la scienza, il socialismo possa essere solo utopia o riformismo significa, ancora una volta, leggere ideologicamente la storia, dimenticando che tutte le conquiste degli oppressi sono state il frutto di lotte, quasi sempre dimenticate (anche in questo caso filoni diramatisi da Marx, che lo hanno corretto e aggiornato, sono preziosi: penso a Wallerstein e Arrighi). Anche la borghesia, d’altronde, è stata (dalla metà del XVII secolo) classe rivoluzionaria. Il “negativo” della storia (e questo mi pare un lasciato marxiano straordinario) non si può occultare. La natura non fa salti, la storia, per fortuna, sì!

Insomma, io credo che Marx sia parte (fondamentale) di una storia di lotte e rivendicazioni, che come ogni storia ha il suo carico di errori ed orrori, giuste perché finalizzate ad una maggiore… giustizia! Proprio un liberale come Popper mi ha insegnato che la storia non ha “telos” (scopo), e mi ha educato ad utilizzare il darwinismo, in senso positivo, come schema di lettura del divenire (conflittuale, oserei dire… dialettico!) storico (cioè non partire da un presunto fine, assente, verso cui tutto sarebbe teso: la libertà piuttosto che la società senza classi).

Gli intellettuali “organici” delle élite vorrebbero che esse avessero delega alla gestione tecnocratica della società, al limite con la benevola partecipazione dei rappresentati illuminati (riformisti) del “popolo” (utilizzo volutamente categorie “populiste”). Questo accade in Italia dai tempi Manzoni, il cui capolavoro è straordinario testo programmatico di questo modo virtuoso di gestire i conflitti “dall’alto” (il popolo deve stare buono, altrimenti fa danni, come Renzo a Milano, delegando la guida del mondo al Cardinale Federigo e all’Innominato, fattosi altruista).

Quello che a Giancristiano, tutto preso dal suo ruolo di apologista della fede (sì, una fede nel suo caso) liberale, non riesce mai possibile è riconoscere, come fa invece Popper (come già detto, il convitato di pietra del libro: non vorrei sbagliare, ma l'autore austriaco de La società aperta e i suoi nemici non è neanche citato in nota), che Marx era un sincero benefattore (cito a memoria) dell’umanità, il cui intento fu in parte corrotto (e qui, ribadisco, convergo con Desiderio nell’individuare nel mai sopito hegelismo del Moro la causa di questa corruzione).

Concludo: non sono marxista, se il marxismo è una “fede” dogmatica (un “credo” come oggettivamente è stato per molti: rivedere il bel film di Moretti, Il sol dell’avvenire), riconosco in Marx un maestro con cui doveroso continuare a confrontarmi, prendendone il tantissimo di utile che trovo nella comprensione di questo tempo, lo considero parte di una storia di lunga durata che lo precede (almeno dalle lotte trecentesche che percorsero l’Europa, come insegna Moore, agli albori del capitalismo) e, mi auguro, durerà nei secoli. Non fino all’instaurazione del paradiso in terra (e maledetta la “teologia politica” che ha ispirato queste sogni della ragione), ma, tra sconfitte e vittorie, per rendere più accettabile la condizione dei soggetti sfruttati, sottomessi, offesi (umani e non), per trovare modi di convivenza migliori tra uomo e ambiente, per ridonare a ciascuno una vita meno alienata, sapendo che la sofferenza, il male, il dolore, la mancanza sono elementi strutturali della vita, e, dunque, senza mai illudersi di poterli “abolire”.


Post scriptum del 5 novembre («Remember, remember the fifth of November…»)


Negli anni, leggendo Marx e dovendolo spiegare scolasticamente ai miei allievi, mi sono convinto che fu disperazione quella che indusse lui - che era diventato democratico e poi socialista per empatia nei confronti della sofferenza umana - ad elaborare una filosofia della storia teleologica: avendo patito, da attivista qual era, la frustrazione e il fallimento, spostò dalla volontà umana alla ragione immanente alla storia e ai processi socio-economici (intuizione che trovò ovviamente in Hegel) il soggetto agente, dando così un potente (e pericoloso) strumento non solo di lettura del divenire ma anche di azione. Le cose che scrive Popper nei suoi corposi volumi di filosofia politica sono assolutamente esaustive sui rischi di un sapere “totalizzante”. 




venerdì 26 maggio 2023

Giusy Nazzaro su "Extravagantes"

 


Ti scrivo con la semplicità che mi contraddistingue, i miei pensieri potranno sembrarti elementari e forse scontati ma nascono da un cuore umile e sincero.

Interpreto la poesia sempre nel modo a me più congeniale, quello che mi dona una sorta di "benessere spirituale", quello che mi permette di far diventare la poesia stessa  non "cosa astratta" ma "vivente", e magari spesso vado fuori strada rispetto al messaggio che l'autore vuol far arrivare al lettore... ho questo difetto "c'aggia fa".

I tuoi versi sono, per me, sempre "tempesta buona", di quelle che travolgono, sì, di emozioni, ma in egual misura di verità.

Una raccolta "EXTRAVAGANTES" dove la bellezza dei sentimenti viaggia sullo stesso vagone della sofferenza senza però essere da essa sopraffatta, dove i ricordi diventano insegnamenti d'amore "per la vita e i suoi doni misteriosi e inattesi".

Scorrendo le pagine, si acquisisce la consapevolezza che i legami affettivi non sono "fusione" con l'altro, "ma reciproco dono di corpi, parole, silenzi", "si accolgono le fragilità" di chi cammina al nostro fianco, trasformandole in un punto di forza e non di debolezza.

Chi come te "preserva la funzione benefica del sogno" attraverso la poesia, diventa, per chi come me "rivolge lo sguardo alle stelle di sera" con lo stupore di vederle ancora, la luce di un faro da seguire per non smarrirsi nel "nulla anonimo" e cercare, ora e sempre, "il bene e il bello. Insieme".

Una piccola raccolta di grande impatto, in cui le parole scorrono armoniosamente con i tratti di grafite e i colori di Gaetano Cantone, alimentando il fiume delle emozioni, che troppo spesso, per i ritmi frenetici del quotidiano, lasciamo "in secca".

In perfetta sintonia con il tuo "pensiero poetante"... io resto "in ascolto".




venerdì 28 aprile 2023

"Extravagantes". Un nuovo (inatteso) libro di versi

 


Come un figlio inatteso, frutto di distrazione, ma non per questo meno amato.

Ecco cosa è Extravagantes (che uscirà il 10 maggio).

Domenico Cosentino, insieme a Flavia Peluso bella scoperta, quasi casuale dello scorso anno, coraggioso promotore dell’esperienza Casa Naima, che è riduttivo definire libreria, essendo soprattutto un luogo di aggregazione per affamati di libri in cerca di dimora, editore con ’roundmidnight edizioni, un giorno, nelle pause degli incontri di poesia che stiamo tenendo da lui, mi ha regalato un quadernetto dicendomi che avrebbe pubblicato quel che vi avrei scritto. Io non sono scrittore prolifico. In rampa di lancio ci sarebbe il “terzo figlio” programmato (Spes contra spem che ha vinto il Premio Sanremo e dovrebbe uscire entro l’anno). Ci sarebbero voluti anni per produrre un nuovo libro. Febbrilmente, allora, mi sono messo a rivedere antichi versi, scartati per i motivi più vari da Per aspera e Nel chiaro mondo, versi su cui avevo lavorato anche tanto. Alcuni li ho modificati, altri li ho ripresi così com’erano. Il titolo, dunque, di questa terza, anch’essa breve raccolta, è Extravagantes. Spero, dopo la spiegazione, che sia chiaro il motivo.

Il libriccino è impreziosito dalla copertina e dai disegni di Gaetano Cantone. Lo considero il sigillo di una oramai antica amicizia e di tanti percorsi che abbiamo condiviso. Glie ne sono sinceramente grato.

Inutile dire che ogni libro è costruzione di sé. Quindi, sono riconoscente a Domenico che lo ha fortemente voluto.


martedì 25 aprile 2023

Ancora sulla Resistenza [𝕙𝕚𝕤𝕥𝕠𝕣𝕚𝕒]

 


«Carissimo Nicola,

I Russi morirono per liberare il loro paese e contrastare la ferocia tedesca, così come gli Ucraini oggi stanno morendo per difendere la loro patria dai barbari criminali Russi (e ti ricordo che i comunisti sovietici avevano stretto un famoso patto con i nazisti tedeschi: vittima ne fu la Polonia con il relativo carico di massacri, dunque non furono animati da nessun amore per la libertà se non la loro).

La nostra Italia la liberarono gli Alleati, tra tutti gli Americani, basta farsi un giro anche solo al sacrario militare di Nettuno ( in giro per l'Italia ce ne sono una quarantina).

Gli Americani a centinaia di migliaia morirono non per difendere il loro suolo, come i Russi, ma il nostro. La differenza è chiara ed è sostanziale, imprescindibile! E dovrebbe sempre far capire, sempre sempre , da che parte stare al di là di infatuazioni ideologiche che hanno una visione dello Stato basata su una concezione totalitaria del potere e della società.

Per nostra fortuna la Liberazione avvenne per mano degli Americani.

Nicola, lo sappiamo chi sono i "buoni" e chi sono i "cattivi".

Ti ricordo però che tanti "cattivi" dopo la liberazione si scoprirono "buoni" e ti risparmio l'elenco, sarebbe troppo lungo. E parlo solo di quelli più illustri. Sarà per questo che Togliatti, on accordo con altre forse politiche, non tutte (vedi gli azionisti) senza perdere tempo fece una bella amnistia per fascisti, così tanto per voltare pagina senza più stare a cianciare di resistenza, presunti primati morali ed altro: c'era da ricostruire l'Italia, rimetterla in piedi, sfamare milioni di persone, ricreare una identità di popolo. Da lì anche parti il boom economico, smettendo di covare rancori , odii.

Certo lo scontro c'era, ma costruttivo e con lo sguardo rivolto in avanti, al futuro per andare incontro ad un avvenire carico di speranze.

Oggi niente di tutto questo! Quali speranze nutriamo, quale idea di società e di Patria coltiviamo, quale futuro stiamo disegnando per i nostri figli?. A tutte le inefficienze e carenze del nostro sistema politico, economico, amministrativo, giudiziario, si aggiunge la stanca retorica sempre sull'antifascismo, sul fascismo di andata/ritorno, che continua di nuovo a bloccarci , a sclerotizzare il dibattito, a mummificarci. Non se ne può più.

A che serve ripetere che la costituzione è antifascista: come non potrebbe esserlo, nascendo dalla sue macerie? Dove è il grande messaggio, la novità?

La nostra costituzione è antifascista ed anticomunista. Per me tanto basta, però mi dispiace e mi preoccupa molto che molti si fermino al primo anti...e questo non rende ai miei poveri occhi credibili chi va celebrando i valori della nostra costituzione che è non solo democratica, ma anche e soprattutto LIBERALE, che niente ha a che fare con quelle di paesi tirannici e dittatoriali che tanto fascino esercitano su un volgo smarrito ed incerto !

Stimato e sincero Nicola, ad un certo punto scrivi che pure noi docenti diciamo sempre le stesse cose con le stesse parole.

Ebbene se così è allora questo è esattamente la morte dell'insegnamento, che dovrebbe essere sempre ricerca di parole, fonti, argomentazioni nuove ed originali; avventura dello spirito, desiderio di cose nuove. Abbandonare il certo (presunto) per l'incerto dovrebbe essere un imperativo categorico sempre e dappertutto, ma soprattutto a scuola e nelle università , altrimenti non ci sarebbe Ricerca.

Con amicizia» (Gianluigi Panarese)

* * *

Caro Gianluigi, prima di tutto sono lieto che tu abbia accolto il mio invito al dialogo su questioni vive della nostra convivenza civile, anche se ho l’impressione che tu abbia risposto solo marginalmente alle questione che sollevavo.

Sottolineavo “popolo russo” proprio per evitare l’equivoco di un elogio dello stalinismo che è quanto di più lontano dalla mia formazione. Lasciami dire, però, che la resistenza di quel popolo ha messo in crisi la perfetta macchina bellica nazista. In un esercizio di storia controfattuale: se Stalingrado fosse caduta, probabilmente i tedeschi avrebbero potuto spostare le loro armate in Europa. E forse le cose sarebbero andate diversamente. A Berlino giunsero quasi contestualmente le truppe anglo-americane e quelle russe. Per venire al presente, credo che dover scegliere una “parte”, soprattutto in questo momento, sia assai pericoloso. Non saprei cosa scegliere tra una Russia “neozarista” e un’America che vuole conservare egemonia planetaria, anche con guerre “delegate”. Mi piacerebbe una politica autonoma dell’Italia e dell’Unione Europea (se questa avesse un profilo realmente autonomo nelle relazioni internazionali).

Ma il mio rilievo parlava d’altro, sottolineava, cioè, che si festeggia il 25 aprile perché in quel giorno le bande partigiane furono chiamate all’insurrezione generale. Quella è una rifondazione di un’Italia tradita dalle sue classi dirigenti. Questo nulla toglie ai meriti dei liberatori. È che mi par di cogliere una sottovalutazione nelle tue parole del coraggio di donne e uomini italiani, molti dei quali pagarono con la vita la loro scelta, la “parte” per cui combattere.

Gli atti di fondazione sono importanti. Hai ragione a ricordare l’amnistia. Io credo sia stato un grave errore, un modo per non fare i conti con il ventennio fascista e per lasciare cellule malate nel corpo della nazione. E questo ha perpetuato un equivoco che ritorna nelle parole (sciagurate!) di personaggi come La Russa. Quella che tu continui a chiamare retorica antifascista è la constatazione che la nuova Italia nasceva dalla lotta di una minoranza (lo ripeto) contro la barbarie. E questo va ricordato e celebrato, per quanto i riti possano correre il rischio, appunto, della retorica. 

Ti chiedi: «A che serve ripetere che la costituzione è antifascista: come non potrebbe esserlo, nascendo dalla sue macerie? Dove è il grande messaggio, la novità?» La novità è nel fatto, ad esempio, che la seconda carica dello Stato afferma che la parola “antifascismo” non si trova nella Costituzione. E mi pare novità non da poco. Primo Levi, a proposito dell’orrore di cui il fascismo fu quanto meno complice, scriveva: «Ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Il fascismo, proteiforme, e dunque in grado di ripresentarsi sotto spoglie nuove, può di nuovo sedurre e oscurare le coscienze. Per questo quel che a te appare monotono ripetersi di parole sempre uguali è un dovere. E qui rispondo all’ultima parte dei tuoi rilievi. Per me ripetere le stesse cose, come facciamo a scuola, è tutt’altro che negativo! Non è un segno di stanchezza, ma al contrario la fedeltà ad una missione di trasmissione. Luigi Pintor intitolò un suo bellissimo libriccino Servabo: «Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile». Questa è la missione degli educatori, ma anche di coloro che hanno deciso di raccogliere la fiaccola resistenziale dalle mani tremanti dei pochi superstiti affinché quel sogno (plurale!) di un’Italia libera e antifascista passi alle nuove generazioni. 

E, chiudo, con un dissenso netto. Scrivi: «La nostra costituzione è antifascista ed anticomunista». No, caro Gianluigi. La nostra Costituzione è antifascista e basta. Ed è stata scritta con il decisivo contributo del Partito Comunista Italiano. Vengo dalla visione dell’ultimo film di Moretti, che è anche un’autocritica rispetto ad una vicenda complessa, i cui errori ed orrori da insegnante di storia (a partire dalla figura di Togliatti) enfatizzo con i miei allievi. Ma tutti i valori fondamentali che si trovano in quella carta sono parte integrante di una ideologia il cui scopo era la creazione di una democrazia autentica. Mettere sullo stesso piano l’ideologia fascista e quella comunista è un grave errore, che personalmente non smetterò di sottolineare (rinviandoti qui per chiarire la mia posizione). 

Detto questo, mi preparo per andare a celebrare, come ogni anno, questo luminoso atto di fondazione, a sentire parole che a te paiono fruste, e che io trovo urgente ripetere, a costo di essere noiosi, ad ascoltare canti che mi collegano idealmente ad un manipolo di donne ed uomini cui debbo non solo (e non tanto) la mia libertà ma soprattutto l’orgoglio di potermi dire italiano.

Un caro saluto (partigiano!)

Nicola


lunedì 24 aprile 2023

A Gianluigi Panarese sulla Resistenza [𝕙𝕚𝕤𝕥𝕠𝕣𝕚𝕒]

 


Caro Gianluigi, amico, ottimo collega, scrivi sulla tua bacheca Facebook in prossimità della festa della Liberazione:


«A proposito  della prevedibile canea di voci, sulla celebrazione del 25 aprile, che si accavallano in tv, sui giornali, sui social, si può notare che sono voci sempre identiche a se stesse da decenni, che ripropongono le solite frasi di circostanza,  la solita retorica dei soliti sacerdoti della mistica partigiana. 

In tutta questa celebrazione è rarissimo però ascoltare qualcuno che ricordi chi effettivamente  ci porto “la liberazione”. 

È stupefacente osservare come quasi nessuno  ricordi il sacrificio degli eserciti Alleati che lasciarono solo  sul suolo italiano circa 300.000 soldati tra morti, feriti e dispersi. Di questi più di 90.000 (novantamila!) furono americani,  i quali per fortuna  rifornirono di armi pure i nostri partigiani (quelli veri), altrimenti non ci sarebbe stata alcuna resistenza».


Provo a fare esegesi del tuo testo.

«Canea»: «inseguimento della selvaggina da parte dei cani da caccia, canizza, clamoroso contrasto di suoni, chiasso, strepito».

Non credi che mai come in questi anni, in questi giorni, in cui si tenta una “revisione” della memoria di ciò che fu sia necessario far sentire le proprie voci plurali ma egualmente antifasciste? Io non credo sia una “canea”. E mi spiace che quanto alcuni di noi fanno, scrivono, dicono sia valutato come vacuo strepito.

Accusi tali voci di essere sempre identiche. Probabilmente è vero. Come sempre identiche sono le voci dei docenti che, anno dopo anno, ripetono le stesse parole. Ma, evidentemente, è il contesto che cambia. L’Italia del 2023, che ha eletto, con una minoranza, a guidarla una coalizione che in alcuni suoi esponenti non si riconosce nel 25 aprile, evidentemente ha bisogno che queste parole vengano ripetute, perché non passi l’idea che a via Rasella fu sterminata un’innocua banda di riservisti o che la Costituzione italiana non sia antifascista. 

Parli, poi, di “sacerdoti” e di “mistica” resistenziale, anche qui, mi pare, con tono sprezzante. Dissento ovviamente anche in questo caso. Dall’interno dell’ANPI ti posso garantire che è fatica, lavoro, tempo sottratto ad impegni più ameni custodire (sì, religiosamente!) una memoria che rischia di diventare evanescente, di farsi anch’essa liquida come il tempo che abitiamo (per venire, dunque, liquidata). I “sacerdoti”, che reputi detentori di privilegi, sono umili custodi di una fiamma che rischia di spegnersi, e che invece deve essere consegnata alle generazioni future.

Infine, ti stupisci che non si ricordi il sacrificio degli Alleati. Ma ciò che si celebra, caro Gianluigi, è la Resistenza. Quella di inglesi e americani fu guerra, cui dobbiamo in parte la nostra libertà dal nazifascismo. Ovviamente potrei obiettarti che non si ricorda adeguatamente quanto tale libertà europea debba al sacrificio del popolo (bada bene: il popolo!) russo che pagò un mostruoso tributo di sangue. Ma il punto, ovviamente, non è questo, bensì tenere desta l’attenzione su quella virtuosa minoranza di italiani che salvarono l’onore della Patria, morta l’8 settembre, e crearono i presupposti per la nuova Italia che sarebbe nata nel dopoguerra.

Come uomo di scuola ritengo che ora più che in passato sia necessario che l’antifascismo sia denominatore comune della comunità educante, nella pluralità delle sue espressioni. Mi auguro, dunque, amico mio, che anche tu partecipi a questo sforzo collettivo, piuttosto che polemizzare. L’invito è ad esserci, dunque, domani alla manifestazione e al concerto, a partecipare, portando il tuo contributo di intelligenza e cultura, alle iniziative dell’Officina “Maria Penna”, contribuendo a rendere l’ANPI quel luogo plurale e aperto che da sempre ha inteso essere.


giovedì 6 aprile 2023

Su Ferraris e Rousseau [φιλοσοφία]

 


Dopo la condivisione social del mio pezzo su Ferraris e la sua interpretazione di Rousseau, ne è sorto un interessante dibattito con colleghi, molti dei quali insegnano o hanno insegnato, come me, al Giannone di Benevento. Li riporto, riservandomi il privilegio, con altro post nei prossimi giorni, di chiudere il cerchio.

Dolores Morra, con la poesia connaturata al suo animo, invita a leggere la seconda delle Passeggiate del Ginevrino come «come antidoto», definendolo «un capolavoro “politico” ed “ecosistemico”».

L’amico e magister Amerigo Ciervo, invece, mi scrive questo.

«Caro Nicola,  [...]  non ho ascoltato Ferraris, mi fido della tua sintesi e condivido le tue critiche, Mi limito ad aggiungere un modesto contributo avendo seguito, nel lontano 1973, universitario alla Federico II, un seminario durato tre mesi e guidato dal compianto Giulio Gentile, assistente di Carbonara alla cattedra di Storia della filosofia, sul Rousseau e Marx di Galvano della Volpe, libro pubblicato da Editori Riuniti se ricordo bene a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Il saggio chiudeva un rigoroso lavoro teorico, dal coté marxista, sulle possibili relazioni tra il Ginevrino e Marx. Quale la tesi? Se per Rousseau l'uomo è il soggetto depositario di diritti originari, la società che egli immagina nel Contratto sociale, assume i caratteri con cui, nell'età moderna, si afferma la libertà borghese. E, dunque, all'individuo atomistico e astorico (perché analizzato al di fuori delle condizioni economico-sociali reali che Rousseau propone, sarebbe necessario contrapporre la visione dell'uomo soggetto sociale, così come Marx lo presenta nei Manoscritti del 1844). Ma fin qui non ci sarebbe nessuna novità rispetto alla tradizionale concezione marxista del pensiero rousseauiano. della Volpe, però, si interroga sul valore politico non ancora «storicamente esaurito» del filosofo ginevrino, sostenendo la necessità di distinguere radicalmente gli esiti politici dai principi ideologici di Rousseau. In tal modo il filosofo di Ginevra prospetterebbe una società che esce fuori dai parametri storici e ideologici della borghesia. È l’idea di una società egualitaria non livellatrice: una società in grado di realizzare un’eguaglianza e una giustizia fondate sul rapporto proporzionale di differenze sociali e personali basate sul merito. Un rapporto di “proporzionalità universale” assicurata dalla “forza comune” del “corpo sociale”. In tal modo, per della Volpe, il progetto politico di Rousseau non sarebbe esaurito, ma andrebbe oltre la rivoluzione borghese, fortemente contribuendo a sviluppare in avanti l'idea di democrazia. Ora è chiaro che per approfondire tali temi siano necessari tempi non brevi e, probabilmente, modalità differenti. L’incontro con Emiliano Brancaccio, per dire, è durato tre ore. In ogni caso, concordo: non lamentiamoci eccessivamente e prendiamoci tutto il buono possibile».

La carissima Carmen Caggiano scrive: «Mi sento molto vicina alle tesi formulate da Ferraris che sta facendo i conti, com'è giusto che sia in filosofia, non solo con Heidegger, ma anche con Rousseau e Kant per un nuovo realismo che ripensi il rapporto tra essere umano e tecnologia». Poi articola questo accenno in una più approfondita riflessione che riporto, supportata da alcune pagine tratte da un libro recente di Ferraris (Documanità, Laterza, 2021) dedicate all’autore del Contratto sociale.

«Provo a dire la mia opinione a proposito della lezione di Ferraris. A me pare che la lettura del pensiero di Rousseau da parte di Ferraris prescinda da quella in chiave marxista e vada a recuperare la visione propriamente roussoiana per cui l'essere umano è considerato in uno stato di natura ideale anteriore alla costruzione della società. Per parafrasare Nicola Sguera, ogni studente di quarta liceo sa che lo stato di natura viene usato dal filosofo ginevrino in senso strumentale come correttivo della società a lui contemporanea e sa che lo stato di natura è al di fuori del tempo storico. E, allora, se lo stato di natura è una condizione ideale, una condizione verso cui tendere, una condizione che non è già data, se tale condizione non è intesa come condizione di partenza, in quale modo l'essere umano di Rousseau potrebbe nascere libero? A me pare evidente uno slittamento dal piano ideale a quello storico, da quello teorico a quello della prassi, della realtà concreta (Kant direbbe dal piano del pensiero a quello ontologico) senza che vi sia, però, una giustificazione della libertà in senso storico. La libertà di cui parla Rousseau, quindi, è una libertà ideale, che appartiene al dover essere dell´uomo. È una libertà da costruire, proiettata nel futuro, non un dato di partenza. 

Per quanto riguarda il pensiero ecologico, questo non è affatto svalutato da Ferraris, ma è considerato da un altro punto di vista: per Ferraris non ha senso l'espressione “salviamo il pianeta” perché noi non siamo essenziali all'esistenza del pianeta, il quale è esistito, come ci ricorda anche Telmo Pievani, prima di noi ed esisterà anche dopo la nostra scomparsa. Vista la inessenzialità nostra in relazione al pianeta, dove sarebbe l'interpretazione antropocentrica? La conclusione di Ferraris, come quella di Pievani, ci ricorda che la nostra attenzione deve concentrarsi sulle condizioni che rendono possibile la nostra esistenza completamente inserita nella natura. Noi dobbiamo salvare noi stessi e per farlo dobbiamo partire dal riconoscimento che siamo parte della natura.

Aggiungo, inoltre, che chiedersi retoricamente se si stia consapevolmente stravolgendo il pensiero di Rousseau in quanto ancora oggi rivoluzionario a me appare una domanda dal sapore complottista.

A me convince la proposta di Ferraris che non condivide l´idea per cui l'essere umano è schiavo della tecnica: dal suo punto di vista, le macchine non hanno senso senza la nostra vita, i nostri desideri e, kantianamente, tale concezione ha lo scopo di non farci uscire dalla “minorità” e di evitare di assumerci le nostre responsabilità.

Il discorso a questo punto potrebbe andare avanti, ma chiudo qui questo mio breve contributo. Mi sento molto legata ai colleghi del Giannone verso i quali nutro stima e affetto e con i quali condivido molte idee e mi sento legata da stima, affetto e profonda riconoscenza anche verso chi ha dato vita e sta portando avanti tra innumerevoli difficoltà il Festival della Filosofia del Sannio, la professoressa Carmela D´Aronzo che sta offrendo a Benevento, e non solo a Benevento, la possibilità di un confronto diretto con intellettuali conosciuti finora solo attraverso la parola scritta».

Annalisa Cervone, finissima ricercatrice, oltre che collega, scrive: «I grandi maestri sono fatti per essere smontati, decostruiti, e a volte addirittura fraintesi e traditi. Credo ci siano molteplici progetti ermeneutici e possibilità di lettura ricavabili dall'archetipo libertario e dal profilo democratico-rivoluzionario del pensiero di Rousseau (se così non fosse saremmo di fronte all'ennesima deriva ideologica sempre sottesa a un certo epigonismo di scuola); così come penso che per provare a controbattere la tesi di Ferraris avremmo bisogno (tutti noi, e anche i nostri alunni) di un convegno efficacemente congegnato, della durata di qualche giorno, e non più di un luogo ibrido, come può essere quello di un festival della filosofia che, quand'anche didatticamente meritorio (ma solo dal punto di vista della divulgazione culturale), costituisce pur sempre un dispositivo che per sua stessa natura manifesta grossi limiti proprio di tipo epistemico e procedurale (di creazione concettuale, per dirla con Deleuze)».

Teresa Simeone, infine, molto presente in questo blog come privilegiata interlocutrice in un polemos sorretto da vigorosa philia, scrive un lungo intervento. Eccolo.

«Caro Nicola, scusa se ti rispondo solo ora. Voglio innanzitutto ringraziarti perché poni sempre questioni che aprono dibattiti, stimolano al confronto e cercano di scuoterci dal torpore a cui a volte, vuoi per pigrizia, vuoi per umiltà intellettuale, vuoi per disimpegno, finiamo per cedere.

Devo riconoscere, onestamente, che condivido molte delle tesi di Ferraris: sono una progressista, confessione che so non ti sorprende, ma, mi permetto di aggiungere, del tipo critico. Non mi ha mai appassionato il mito di un’età dell’oro in cui l’umanità vivesse felice e in armonia con la natura da cui ci saremmo drammaticamente separati. Credo che il lavoro, alla cui base c’è il possesso di una mano capace di forgiare strumenti con cui intervenire sull’ambiente, matrix dell’intelligenza (Anassagora e Bruno l’hanno scritto molto chiaramente) e del suo sforzo di emanciparsi dal dominio di un pianeta non benevolo né malevolo ma certamente indifferente alle sue sorti, sia il fondamento dell’impegno a non subire, quanto a porsi come soggetto attivo di crescita. Non rimpiangerò mai il tempo in cui si era costretti a vivere in sporche e fredde casupole di paglia e fango, a non avere sistemi fognari per liberarle dal ristagno mefitico di umori ed escrementi, a dover mettere al mondo sette, otto figli per sopportarne la morte della metà, in cui i libri erano privilegi di pochi, in cui chi aveva problemi di vista era destinato alla cecità anche culturale, in cui le donne morivano di parto e si amputavano arti senza anestesia, giusto per fare qualche esempio, sicuramente banale, ma comunque concreto che rimanda a uno sviluppo che ci ha liberato da dolori e bisogni. Naturalmente, condivido la necessità di aver sempre chiaro, come un faro che ci dovrebbe orientare, il senso del limite che solo può consentire uno sviluppo razionalmente ordinato e controllato nei suoi eccessi. Anders, che tu hai giustamente nominato, ci ha messo in guardia da un uso smodato della tecnica, i cui effetti, soprattutto in riferimento all’atomica, aveva denunciato, così come il nostro caro Jonas che, nel ribadire la necessità di un’etica nuova che desse all’umanità paradigmi per preservare non solo i presenti ma gli “ancora non nati”, ha posto l’accento sul rispetto dell’ambiente. L’enciclica Laudato sì, a cui ho dedicato, come sai, numerose pagine nel 2016, rimane un documento importante nel proporre la lettura teologica di un’ecologia integrale che, in qualche modo, si affianca a quella laica di Latouche.

Ti ringrazio per aver ricordato la mia semplice domanda sul fatto che la decrescita, che per me non ha senso se assolutizzata, ha avuto il merito di focalizzare l’attenzione sugli effetti negativi di uno sfruttamento sfrenato dell’ambiente e di averne indicato, in qualche modo aiutando, forse, attraverso la circolazione delle idee e il pluralismo delle posizioni, a correggerne le storture consumistiche. Almeno a livello di dibattito culturale. Un po’ come ha fatto Rousseau che, nel riportare l’individuo alla natura e nell’utilizzare l’espressione classica della bontà originaria dell’uomo che la società renderebbe “mechant”, non vuole, sono d’accordo con te, un ritorno a una condizione precivile, impossibile da realizzare, ma ribadire il ruolo dell’educazione nel processo di formazione dell’individuo, un’educazione che si pone come naturale, negativa (nel senso che interviene quanto meno possibile) e indiretta: fortunati, sicuramente, quei bambini che hanno potuto vivere la loro infanzia in campagna, a esperire ed esplorare un ambiente ricchissimo di stimoli! L’Emile ha rivoluzionato in modo decisivo il mondo dell’educazione e offerto nuove, preziose chiavi di lettura e di approccio pedagogico. E, ciononostante, Rousseau, cui va altresì il merito di aver proposto nel Contract social un modello politico anch’esso per noi imprescindibile, nel Discorso sulle scienze e le arti, intervenne in maniera tranchant nel contesto illuministico, attribuendo al progresso scientifico la responsabilità della corruzione dei costumi. Come poteva Voltaire non contestarlo? Come si poteva non criticarne la miopia nell’aver allontanato il pensiero dalla funzione democratica di un’operazione divulgativa come, ad esempio, l’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di Diderot e d’Alembert? Nella diatriba classica tra Voltaire e Rousseau, non voglio e non posso, date le mie limitate capacità, entrare: sono due grandissime figure del pensiero, entrambe fondamentali per ciò che ci hanno regalato, sia pure da angolazioni diverse. Per tornare a Ferraris, di cui forse si sarebbe potuto rilevare la perentorietà di alcune affermazioni (penso a quelle sui terremoti), credo che abbia voluto, con il richiamo a Rousseau, piuttosto assumerne la tesi più nota e controcorrente, quella di un uomo che allo stato di natura è libero e buono, per criticarne il senso e le implicazioni. Per lui, e anche per me, lo stato, sia pure “idealtipico”, di una libertà e bontà originarie che la società avrebbe inquinato, confligge con la realtà di una condizione che di umano ha poco, nel senso che l’uomo è cultura nella misura in cui riesce a emanciparsi dall’asservimento a un ambiente esterno da cui la sua esistenza è minacciata. L’uomo primitivo non era libero, perché incapace di contrastarne gli effetti devastanti, e non poteva essere buono, dal momento che la bontà è un valore che attiene all’etica e che, per sua necessità, implica l’alterità: io sono buono o cattivo in relazione a un altro, non se vivo in un eremo. La società è incontro, confronto e scontro, conflittualità e corruzione ma anche il campo in cui far emergere bellezza, sensibilità e intelligenza: è la cultura che mi impedisce di risolvere tutto con la forza bruta. Ed è all’interno delle sue dinamiche che mi pongo come buono o come malvagio. Il “bestione“ di vichiana memoria, che “sente senza avvertire”, che vive in uno stato ferino e in una realtà ostile da cui deve difendersi, cosa che può fare con la fantasia e con la ragione, caratteristiche peculiarmente umane, avvia un percorso di incivilimento che lo porta ad allontanarsi dalla sua condizione originaria. Come può essere libero in tale schiavitù? Lo è potenzialmente, perché possiede in sé le qualità per avviare tale processo, ma per “attualizzarle” deve uscire da un immobilismo conservatore e slatentizzarle e ciò è possibile grazie alla sua intelligenza pratica che lo spinge, attraverso il lavoro e dunque la tecnica, a vincere le difficoltà. Ovviamente è un cammino impervio, in cui i successi della ragione si affiancano ai suoi fallimenti, in cui il male può prevalere sul bene, in un alternarsi di corsi e ricorsi storici che richiedono vigilanza e senso del limite. Ma è necessario».