lunedì 26 dicembre 2022

Guelfo Margherita tra Odisseo ed Enea alla ricerca dell'America

 


1.     Ringraziamenti [ITACA]

 

Grazie a Loredana Vecchi, che mi ha chiesto di esserci nel confronto con un "maestro" come Guelfo Margherita.

Ho bisogno di “situare” il mio intervento. Per me un dialogo, una presentazione sono sempre una messa in discussione. Credo nella “sincronicità” e nella non casualità degli accadimenti.

Da quale “differenza” proviene la mia interlocuzione con Guelfo. Siamo coppie di opposti: 

mare/terra, 

inquietudine/quiete, 

poligamia/monogamia, 

Oriente/Occidente. 

Ad unirci la ricerca di un dire che superi gli steccati disciplinari, che è volontà profonda di abbattere mura, prigionie.

Guelfo è Odisseo, l’inquieto Odisseo di Dante e Tennyson.

E invece io resto sul molo a guardare

lo sfondo del mare più in là

e affido ai gabbiani i paesi lontani

e il profumo di una vita che non sarà.

Ah! La mia vela candida.

In un corpo a corpo fecondo e complesso, ho lottato con un testo, di genere indefinibile, a metà, stante quanto scrive l’autore, tra il flusso di coscienza di joyciana memoria (nell’anno del centenario dell’uscita dell’Ulisse) e il Bildungsroman di pre-formazione più che di formazione, testo che il cui simbolo retorico potrebbe essere la metafora, o anche la metonimia, in cui colpisce innanzitutto la scelta prosimetrica, dove il verso diventa emersione di altre voci possibili in una “polifonia” già di per sé estremamente spinta.

L’opera nasce dall’assunto che non esista esistenza senza una traccia, ed essa è, dunque, la traccia di un’intera esistenza trasfigurata alla luce del mito, in particolare ma non esclusivamente quello di Odisseo (chiamato alla greca, tranne che nel titolo). Anche in questo caso, dunque, tutto l’universo mitologico è chiamato a raccolta con un fare barocco (oltre che intimamente post-moderno) che mi pare altra cifra caratteristica dell’opera. E il barocco, il grande barocco, non quello, ahimè assai mediocre prodotto in Italia, ma quello spagnolo o inglese, con la sua voluttuosa mescolanza di eros e thanatos, mi pare essere modello mai esplicitato ma sempre segretamente operante nel laboratorio dell’autore.

Nelle intenzioni di Guelfo il libro dovrebbe essere il viaggio di ritorno, il nostos, che lui, novello Odisseo, compie (e che talvolta sembra, invece, una fuga). Quello che chiederei all’autore è proprio di articolare meglio le metafore (o i simboli o le allegorie?) utilizzate. Che rapporto c’è tra Itaca, che è dentro il “mare nostrum”, il lago semichiuso del Mediterraneo, e la America, per raggiungere la quale nel pericoloso oceano è necessario varcare le colonne d’Ercole? Infatti, la America domina il titolo del libro ma senza mai divenire oggetto (o soggetto!) di una riflessione, a differenza di Itaca. Per altro, ma di questo dopo, sono convinto che, partito nell’ideazione del libro con un obiettivo, Guelfo, esattamente come Colombo, sia giunto in tutt’altra destinazione…

 



2.     [NAUSICAA]

 

Oltre a darci suggestive autointerpretazioni, per cui il libro spesso diventa un meta-libro, dunque, che vorrebbe contenere in una pulsione “borgesiana”, la totalità delle vite possibili e dei libri possibili, ad esempio «zibaldone di appunti di viaggio» (che è una simpatica duplicazione essendo lo zibaldone già di per sé «scartafaccio in cui si annotano, senza ordine e man mano che capitano, notizie, appunti, riflessioni, estratti di letture, schemi, abbozzi»), Nausicaa esplicita il senso della quête, dovuta all’impossibilità di tornare all’origine (unificante) senza un lungo e doloroso percorso separante. E, dunque, scopriamo che l’uomo, direi provocatoriamente, il maschio (e, mi chiedo, se questo fosse un libro “per soli uomini”?) si trova, dopo aver vissuto beatamente nell’acqua dell’amnios, a navigare il periglioso mare “fuori”. Noto, di sfuggita, che amnios era per il greco il vaso in cui si raccoglie il sangue delle vittime. E il sangue è, insieme all’acqua, il simbolo più ricorrente dell’intero libro (la parola ricorre ben 36 volte). Dunque, l’uomo, il maschio vuole disperatamente, incestuosamente, come ci ricorda il sottotitolo, tornare nel corpo materno, mosso da una passione epistemofilica destinata alla scacco. E tutti i miti marini di cui è intramata la cultura, occidentale e orientale, racconterebbero, alla fine, il medesimo viaggio. Ma Nausicaa è parte importante del libro anche perché ci dice della convinzione dell’autore secondo cui la famiglia è «sentina di tutte le nequizie». La famiglia espropria «l’individuo del suo diritto all’indipendenza». Anche qui noto, di sfuggita, che Guelfo, figlio del suo tempo, alla fine fine, è legato all’idea dell’individuo e dei suoi diritti, è figlio legittimo della modernità cartesiana e lockiana. O almeno questo è il suo punto di partenza, la sua Palos, consapevole. E tutte queste cose vengono dette con continui cortocircuiti di senso, slittamenti, passaggi di piano che non esitano a mettere insieme il sublime e la canzone pop. A proposito, parte integrante di questo “caleidoscopio postmoderno” sono ovviamente le copiose note, l’indice analitico di autori e personaggi citati, la bibliografia, la discografia, la filmografia, le opere d’arte e la sitografia (un po’ scarna a dire il vero per un’opera così “reticolare”). Mancano i fumetti, se non citazioni scolastiche della Valentina di Crepax e di Corto Maltese di Pratt. Peccato!

 

3.     [FEMMINICIDIO]

 

Il mito si confonde inestricabilmente con una storia trasfigurata. A me colpisce di queste pagine l’emergere vorrei dire inconsapevole di una radicale alterità tra il maschio e la femmina, di un ineluttabile e distruttivo polemos. Odisseo vuole disperatamente tornare nel corpo di sua madre e, nel suo viaggio, lotta con tutte le donne che incontra per possedere, attraverso di loro, l’oggetto del suo desiderio. Dunque, il femminicidio non sarebbe altro che lo sbocco patologico di un desiderio fisiologico e universale di ogni maschio di possedere ogni femmina? Guelfo/Odisseo parla di una «tardiva autocritica» di questo punto di vista, ma tutto il suo Zibaldone parla d’altro. E non a caso il viatico al raggiungimento della meta non sarà (come avrebbe potuto?) una donna ma un maschio, un alter ego, essendo la donna un alter alter, irrimediabilmente destinato a rimanere tale.

 

4.     [TROIA]

 

Tutti avrete riconosciuto uno dei momenti più alti della storia delle liberazioni in Italia, con il doveroso omaggio a Franco Basaglia, partigiano liberatore. Nelle poche note biografiche che trovate in rete leggiamo che Guelfo «nel ’72 viene allontanato nell’Università di Napoli, dal reparto e dalla ricerca perché, con altri colleghi, cerca di aprire (in termini reali e mentali) il reparto e la cultura psichiatrica dell’istituto, entrambi allora ostinatamente chiusi sull’organicismo, con l’introduzione delle liberalizzazioni basagliane e della psicoanalisi» e che «la sua equipe conduce dal ’76 la prima esperienza Campana di apertura di reparto psichiatrico in sinergia con le istituzioni locali (sociali, religiose, politiche, della formazione) individuate nel territorio». All’esperienza ha dedicato un suo libro (Manicomio, addio!) di qualche anno fa.

Vorrei cercare di attualizzare, se possibile, la questione, evocando una figura bella e tragica del nostro tempo, quella di Mark Fisher, morto suicida, geniale interprete, anch’egli capace di andare oltre gli steccati disciplinari. Nel suo capolavoro, che già a partire dal titolo meriterebbe di essere studiato nelle scuole, Realismo capitalista, scrive: «Già negli anni Sessanta e Settanta, teorici e politici radicali come Laing, Foucault, Deleuze, Guattari e altri, si concentrarono su condizioni mentali estreme come la schizofrenia, suggerendo che, per esempio, la pazzia fosse una categoria più politica che naturale. Quello di cui però abbiamo bisogno ora è una politicizzazione di disordini assai più comuni; anzi, è proprio il fatto che questi disordini siano diventati comuni che vale da solo la nostra attenzione». E aggiunge: «Ritengo che il crescente problema dello stress (e dell’angoscia) nelle società capitaliste vada reinquadrato; 1anziché scaricare sugli individui la risoluzione dei loro problemi psicologici – vale a dire, anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi trent’anni – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La “piaga della malattia mentale” che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l’impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto».

Lasciatemi dire, come docente, che mai ho visto, come quest’anno casi di depressione o ansia tra i nostri giovani studenti che non credo siano solo strascichi del Covid. Siamo dentro una “crisi sistemica e paradigmatica” che richiede, probabilmente, essendo estrema e terminale, risposte estreme e risolutive.

È evidente, per altro, che un universo “schizofrenico” e “psicotico”, secondo l’autore, può essere narrato solo da un’opera che si fa essa stessa “schizofasica”.

 

5.     [CIRCE]

 

Inutile dire che per gran parte del libro l’eros la fa da padrone. Sembrano risuonare le parole virgiliane, spesso pronunziate senza la consapevolezza di quanto tragica fosse tale divinità per l’autore delle Bucoliche e delle Georgiche, oltre che dell’Eneide. «Amor vincit omnia et nos cedamus amori». E in particolare in alcune pagine, come La ballata delle puerpere antropofaghe e quelle appena lette, che reinterpretano il mito, emerge il nesso indissolubile da eros e violenza, che assume simbolicamente spesso la forma dell’antropofagia. La sessualità evocata è sempre espansa, femminile, se mi passate il termine rudimentale, quasi come se lo scrivente volesse trascendere la sua dimensione ineluttabilmente e monocordemente fallica, trasformando il corpo intero, a partire dal cervello, in un’unica zona erogena espansa. Per questo, aggiungo, l’altra figura retorica che potrebbe simboleggiare il libro è la sinestesia. Memore del progetto sognato da Arthur Rimbaud, Guelfo in una deragliamento di tutti i sensi vuole giungere all’Ignoto.

Circe rappresenta l’archetipo del femminile che reclama ciò che le è stato separato da lei col taglio del cordone ombelicale. La donna, nella sua dimensione più pura, è incarnazione di una potenza ctonia che, se lasciata libera, minaccerebbe la stessa coesistenza umana. Circe è la promessa di un ritorno alle origine, in cui l’uomo possa riscoprire la sua natura animale o, ancora più indietro, il ritorno all’Uno primordiale, che mi pare una delle pulsioni segrete del libro, uno dei non detti esoterici che lo animano. Libro gnostico, dunque, in cui un neoplatonismo intriso di “nolana filosofia”, che si manifesta in un mondo “panpsichico”, torna a quella segreta scaturigine di ogni “odio per il mondo”, per il molteplice: «il dolore di non essere più nell’unità». Gnosticismo che mi pare molto più diffuso di quanto si pensi se, per esempio, l’opera stessa di un maestro profondamente diverso da Guelfo, può essere anch’essa inscritta in tale tradizione. E parlo di Franco Battiato. Per fortuna, questa ricerca inesausta dell’Uno finirà in maniera diversa…

 

6.     [Perseo e Medusa]

 

I corpi si avvinghiano in un abbraccio mortale e generatore. Il bambino, quando arriva alla consapevolezza, si chiede se è possibile che sia stato concepito in tale violenza. «Violenza e sesso, aggrovigliati in un inscindibile abbraccio, vorticano per sempre creando la turbina che produce le uniche altissime energie veramente necessarie al funzionamento della mente del mondo».

Ma davvero l’amore è solo questo, chiedo a Guelfo, davvero è, schopenahuerianamente, solo l’ammanto per consentire la continuazione sociale della specie?

  

7.     [L’urna degli avi]

 

Nell’ultima parte questo libro imprevedibile, a mio avviso, partito per raggiungere l’India, tocca un continente sconosciuto e nuovo, di cui a mio avviso l’autore non era a conoscenza, scoperto per una tragica fatalità, legata alla terribile pandemia che abbiamo tutti vissuto ma che ad alcuni ha strappato, in maniera inattesa, affetti cari. E, a mio avviso, qui avviene una clamorosa metamorfosi in cui Odisseo diviene Enea. È Enea, infatti, che scende nell’Ade, e si fa carico, per citare un grande poeta, Giorgio Caproni, del passato e del futuro:

 

Nel pulsare del sangue del tuo Enea

solo nella catastrofe, cui sgalla

il piede ossuto la rossa fumea

bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla

un passato che crolla tenta invano

di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo

ch’è uno schianto di mura, per la mano

ha ancora così gracile un futuro

da non reggersi ritto.

 

L’entronauta, l’Elfo Gu nella Margherita, tutto ricurvo sul suo ego, talvolta ipertrofico, fallito il sogno fusionale, scoperta l’inaccessibilità del corpo femminile, avvia un toccante confronto con gli Avi. La fusione tanto invocata, dunque, avviene con il suo albero genealogico, che trascende il sangue, la genetica. E queste bellissime, toccanti pagine si chiudono degnamente con un Requiem per il fratello Lucio, anche lui «guerriero che cerca la giustizia». È come se la discesa all’Ade, negli inferi della propria zona più oscura, preluda alla riscoperta della luce.

 

9.       [Acknowledgment]



(Intervento tenuto in occasione della presentazione del libro di Guelfo Margherita, Toccare la "America" - Mulino Pacifico, 17 dicembre 2022, ore 15.30)






sabato 3 dicembre 2022

Pensiero in sorgente VI (Leandro Pisano)

 


Al fondo del pensiero “in sorgente” di Nicola Sguera, si può intravedere il tentativo costante di lavorare a un’opera di connessione tra due elementi in tensione coesistente tra loro: la poesia e la filosofia. Nicola Sguera insegna dal 2001 storia e filosofia nei licei, ma è profondamente legato all’universo della letteratura e della poesia contemporanea, fin dai tempi in cui si laurea in lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi su Franco Fortini.

Il testo che presentiamo in questa sede, oggi, raccoglie in maniera libera pensieri, analisi, confessioni, riflessioni più o meno brevi. Si tratta di un lavoro autobiografico, introspettivo: ogni passo di questo libro racconta del suo autore, della sua personalità, del suo multiforme ingegno di uomo di cultura e di lettere, del pluriverso di interessi che ha maturato nel corso della sua esistenza. Ci narra dell’irresistibile spinta che guida l’autore a immergersi nella profondità delle questioni che affronta, per portarne alla luce gli elementi vivi, pulsanti con un’urgenza che dal piano personale si riverbera su quello comunitario e collettivo, generando una risonanza di pensiero che si moltiplica tra la dimensione individuale e quella condivisa.

Teresa Simeone ha scritto di questo testo leggendo tra le sue righe un costante, spietato attacco alla filosofia, in cui l’autore non perderebbe l’occasione, “da Talete a Platone, da Cartesio a Bacone, arrivando all’illuminismo e all’idealismo, di considerarli i responsabili del male nel mondo, di aver creato la metafisica, aver gettato le basi di un prometeismo tracotante e pericoloso e di aver consentito un progresso che confligge con la sua visione naturocentrica.”[1]

Eppure, l’analisi di Nicola a mio modo di vedere precede non per antinomie, ma seguendo un pensiero in cui convivono, in maniera talvolta irrimediabilmente conflittuale, in una tensione costante che è produttiva, elementi differenti: l’umano e il non umano, la natura e la cultura[2], la poesia e la filosofia. Elementi che sono sempre già implicati l’uno nell’altro, inseparabilmente coesistenti. Quando questa ‘coesistenza’ si configura in maniera conflittuale, sembrano emergere tra le pieghe della scrittura delle zone ‘grigie’, ‘oscure’, per parafrasare il concetto ecosistemico di “dark ecology” introdotto da Timothy Morton[3], generate da una serie di attriti epistemologici e ontologici tra opposti, che finiscono per mettere produttivamente in discussione ciascuno di essi. Questo processo trova passaggi illuminanti in queste pagine, come quando Nicola scrive:

 

Oggi ci troviamo nel momento del massimo pericolo, quando si decide della perdizione dell’umanità o della sua possibile salvezza. Le menti più illuminate del XX secolo hanno percepito questa sfida epocale e ci hanno dato gli strumenti per vincerla, rimettendo in discussione i miti fondanti della modernità (il progresso illimitato, il dominio tecnico della realtà). [...] La Natura non può essere, come troppo spesso accade, il sogno di una Wilderness (terra selvaggia) incontaminata, che rischia di diventare un’insana utopia.[4]

 

È un processo, questo, alimentato da un filosofare che procede per giustapposizione di immagini - la “luce” dei volti cari, le foto dei defunti e l’estetica cimiteriale, le visioni cinematografiche come quella di Blade Runner, a proposito della profonda critica alla tecnoscienza - per interrogarsi su questioni esistenziali irrisolte, per aprire squarci profondi nella coscienza di una ricerca che si fa cognizione del dolore, specie nelle pagine dedicate al rapporto con il padre, alla relazione irrisolta con gli aneliti religiosi, all’amara constatazione che lo studio di Platone, Cartesio, Bacone, Hegel innesca un meccanismo razionalistico che, più che restituire il senso di una visione disincantata e serena della realtà, serve a decostruire le proprie certezze alimentando quella condizione di strenua inertia, come scriveva Orazio, e cioè un’inquietudine esistenziale, la propria.

Questa irrequietezza si costruisce sul crinale di un utopico eppure invocato riequilibrio nei rapporti tra uomo e natura, tra spiritualismo e scienza, tra filosofia e politica. In questi frangenti, la scrittura di Nicola Sguera si propone come un dispositivo che catalizza punti di ascolto profondo, sui quali costruire e immaginare ulteriori approdi linguistici, di pensiero, di senso. È un riequilibrio che passa anche attraverso la messa in discussione del primato della visione sull’udito, in un rapporto sensoriale con il mondo che possa preludere a un nuovo rapporto anche con il sapere, seguendo il fil rouge della critica alla metafisica post-socratica di matrice visualistica intessuto dall’analisi heideggeriana.

 

Si deve dunque tornare al silenzio e, dunque, all’ascolto. L’aspetto più importante è che il primato della visione porta necessariamente alla deriva antropocentrica che poi è ciò che Heidegger chiama “oblio dell’essere” [...] Avviarsi sulla strada della guarigione significa, allora, anche mettere in crisi, nella pratica quotidiana, il primato della visione [...] e ripristinare il primato ebraico dell’ascolto.[5]

 

Perché la poesia possa farsi atto di affermazione o di ribellione, è inevitabile che si innervi della componente filosofica, diventando essa stessa un pensiero poetante, una poesia pensante, in cui la dialettica, il rigore logico, il procedimento teoretico e speculativo si dispongono in tensione elastica e coesistente con la suggestione, l’evocazione, la scomposizione delle parole e il loro aprirsi a una pura dimensione lirica in senso pienamente heideggeriano. Quella di Heidegger è una presenza immanente, nelle pagine di questo libro: l’incontro e il confronto con il filosofo tedesco e con la sua “kehre”, la sua svolta, è per l’autore un nodo ineludibile, a partire dalla questione dell’essere nel suo rapporto con il linguaggio.

Se Heidegger ha scritto che "la poesia è negata come sterile nostalgia, svolazzante nell'irreale, e rifiutata come fuga in un sogno sentimentale [...] la poesia non può che apparire come letteratura"[6], la mia sensazione è che Nicola abbia tenuto bene in mente, scrivendo questo libro, la messa in evidenza di una dimensione post-metafisica del linguaggio, in cui esso, da elemento dichiarativo o assertivo, diventa innesco rivelativo. La poesia è poiesis, nel senso erodoteo del termine, e cioè un atto fondato sul creare, produrre poesia portando alla luce ciò che è nascosto. Per giungere, parafrasando ancora le parole del filosofo tedesco in “Che cos’è la metafisica”, ad affermare che mentre il pensatore dice di esserlo il poeta invece dice il “sacro”[7].

 

Abbandonare l’umanismo, l’antropocentrismo, restituisce all’uomo un compito grande. Perché, e anche in questo sono debitore ad Heidegger, resto convinto della differenza “ontologica” dell’uomo, per me testimoniata non dalla ragione o dal linguaggio bensì dalla capacità, credo di poter dire senza tema di smentita unica, di trascendere le leggi del mondo, la “pesantezza” la chiamava Simone Weil, in virtù della “grazia”. È per questo che noi siamo “custodi”, “pastori”.[8]

 

Nel suo rimestare continuo e irrequieto, nel suo flusso di coscienza legato alle fasi dell’esistenza vissute nel posizionarsi come padre, docente, figlio, semplice osservatore o viandante, Nicola trova la ragion d’essere delle sue riflessioni in una serie di temi che tornano costantemente e che tendono a mettere in discussione l’assolutismo antropocentrico di una visione appiattita sulla tecnocrazia e sulle leopardiane ‘magnifiche sorti e progressive’. Così vengono in evidenza l’uno dopo l’altro, o sovrapponendosi, riflessioni sull’anti-umanesimo, l’anti-progressismo, la democrazia diretta, la scuola, la tecnocrazia, il veganesimo, ora attraverso lo scandaglio critico-filosofico ora risalendo la corrente della memoria, talora rileggendo i racconti letterari dell’antichità in chiave mitopoietica, come nel racconto di sapore esiodeo su Epimeteo e Prometeo.

In questo fluttuare tra oggetti, storie, ricordi, paesaggi, la scrittura di Nicola Sguera sembra affidare a noi lettori, in ultima istanza, l’urgenza di una questione ineludibile, definitiva: un’interrogazione meravigliata sul permanere della poesia nel nostro mondo, nonostante tutto. E tutto questo può avvenire, ci pare di avvertire nelle parole dell’autore, ricollegandoci al presente attraverso un viaggio a ritroso verso il passato non perché gli antichi semplicemente sono un valore o perché ci offrono un insegnamento, ma perché è nella tradizione che gli antichi hanno costituito nei secoli che risiedono le ragioni e le forze che, come ha scritto Gian Mario Villalta in un recente illuminante saggio[9] “hanno opposto il perdurare all’effimero, ciò che rinnova la creazione a ciò che la oblitera in una vuota rincorsa verso l’etichettatura dell’istante. Il nostro tempo ha insidiato e pervertito il senso dell’effimero e di ciò che dura”[10].

Proprio per questo occorre cercare “quel sostare inquieto che interroga il sentire e ridà voce al corpo, al percepire la nostra più vera collocazione sul lembo di terra che calchiamo, al pensare dentro le corrispondenze che ci legano a tutte le forme dell’esistere”[11].


Introduzione a “Pensiero in sorgente”, in occasione della presentazione del testo tenutasi a San Martino Valle Caudina (AV) il 02/11/2022.

Una sintesi dell'incontro.

 


 

 

 

 

 

 

 



[2] Bruno Latour, "Non siamo mai stati moderni. Saggio d'antropologia simmetrica", ed. Elèuthera, 2009.

[3] Nicola Sguera, “Il Pensiero Insorgente”, p. 72.

[4] Nicola Sguera, op. cit., pagg. 135-136.

[6] Martin Heidegger, “Che cos’è la metafisica? e altri scritti”, ed. goWare, 2018. A cura di F. Sollazzo.

[7] Nicola Sguera, op. cit, pag. 30.

[9] Ivi.

[10] Gian Mario Villalta, "La poesia, ancora?", ed. Mimesis, 2021.

[11] Timothy Morton, “Dark Ecology”, Columbia University Press, 2016.


domenica 24 aprile 2022

Pensiero in sorgente V: la risposta di Teresa Simeone

 

Carissimo Nicola, rispondo (perché non vorrei far passare nell’indifferenza le obiezioni impegnative che hai fatto ai miei commenti) brevemente. Mi dispiace che tu abbia letto come una nota “velenosa” la definizione di «ultima fatica letteraria»: non credevo che potessi prenderla come una critica, conoscendo il tuo amore per le lettere.  

Per quanto riguarda l’affermazione che la filosofia è razionalità, affermazione impegnativa, come dici, è stata in risposta ai tuoi attacchi a Platone, ai pitagorici, fino al primo filosofo: «è necessario riannodare quel filo che forse Talete stesso, da cui siamo partiti, iniziò a lacerare, il filo che unisce poesia e pensiero, mythos e logos, auspicando una nuova alleanza fra la tecnica e l’arte». Ovvio che la filosofia implichi anche altro, e cioè la critica della stessa razionalità di cui si nutre e sulle cui basi è nata ma sempre con l’utilizzazione di strumenti razionali: un conto è dire che l’uomo non è solo ragione (verità talmente ovvia da non dover essere dimostrata) e un altro che si possa arrivare a tale conclusione senza utilizzare il ragionamento. E questo che noi esseri umani facciamo: ragionare, anche quando dobbiamo dimostrare che non tutto è ragione. In questo senso non si può, aristotelicamente, non filosofare. 

Quando, insieme a quel filosofo (Heidegger), che non oserei mai «espungere da una storia ‘della filosofia’» e che abbiamo amato un po’ tutti e io molto, decreti la fine della filosofia, pregustandone il funerale, lo stai facendo anche grazie a quella razionalità che contesti come essenza del filosofare e che ha permesso il passaggio dal mythos, in cui avresti voluto fissare il sapere umano, al logos. Poi è ovvio che ci siano posizioni irrazionali e che grandi filosofi, da te citati, a cui aggiungerei Hume che svegliò Kant dal suo sonno dogmatico, abbiano contestato la prepotenza di una ragione che si pensa illimitata e che, ne abbiamo discusso tante volte, non è affatto infinita. «C’è pensiero oltre la filosofia» mi ribatti: e certo che c’è! E che cos’è questo pensiero se non filosofia? D’altronde, come hai definito Kierkegaard o Nietzsche, il cui “filosofare” è un continuo decostruire un mondo logicizzato e razionale? Li hai definiti filosofi, perché è questo che sono: non “oltre pensatori”, ma filosofi. 

Per quanto riguarda il tuo “naturocentrismo” è qualcosa che ti fa onore: l’amore per la natura, il rispetto per tutto ciò che è e ci dà generosamente è da me condiviso, pienamente, come scritto in più occasioni. Non è uno scontro tra chi ama il pianeta e chi lo vorrebbe deturpato dall’arroganza umana: ciò che mi ha intristito è l’espressione di Latouche che tu riporti. Perché lo fai? Perché la condividi e leggere (a p. 31) che «l’uomo è divenuto il tumore di quella Terra-Madrepatria che dovrebbe custodire» è stato forte, ti assicuro. Quella parola rimanda a sofferenze indicibili, a un male che deve essere estirpato. Capisco che è di effetto, ma le frasi a effetto poi vanno analizzate in quello che significano e tumore significa dolore, angoscia, nel caso estremo morte. L’essere umano non può essere un tumore da estirpare. 

Evito di tornare sul rapporto poesia- filosofia: nel tentativo di contestarmi il giudizio per cui tu, per me, ma anche per tua orgogliosa ammissione, sei soprattutto un poeta (giudizio che non mette assolutamente in discussione le tue capacità dialettiche, eccellenti ed esercitate con padronanza), finisci, ancora una volta, per decretare la morte della filosofia. Ti servi della filosofia per ucciderla ma, non soddisfatto, vuoi che si suicidi, felice di farlo, riconoscendo la superiorità della poesia. Scrivi: «Io, invece, in Char o Celan, in Luzi o Bonnefoy trovo uno sguardo sul mondo che trascende l’individuo ed è capace di cogliere ciò che sfugge al pensiero “calcolante”, che lascia “accadere la verità». Appunto!

In riferimento al tuo antiprogressismo, anche in questo caso non capisco perché, quando analizzi i mali del progresso e in particolare ciò che ne farebbe intravedere una presenza deterministica nella storia, poi dichiari che non sei contro il progresso. Perdonami ma è una vita che lo scrivi! Poi che nella pratica tu non solo lo accolga ma in qualche caso, come nell’uso della tecnologia digitale, lo abbia addirittura anticipato (penso alle tue lezioni alternative e anticonvenzionali che hai potuto fare grazie ai mezzi della modernità) è qualcosa che dimostra come un conto è la critica teorica e un altro la vita reale. 

Ti confessi “agonistico”: nelle relazioni interpersonali sei, invece, ecumenico, mediatore, irenico, oserei dire. Lo so bene, perché la tua generosità nel riconoscere le qualità dell’altro (virtù rarissima e perciò nobile in un mondo in cui invidie e gelosie, tossiche, sono costantemente presenti), nel tentare di comporre fratture di rapporti che inevitabilmente si creano tra esseri umani adulti e strutturati, nell’applicare ogni giorno una lealtà instancabile nell’affrontare questioni difficili vis à vis, senza filtri ipocriti e farisaici, è il suggello quotidiano al nostro vivere come amici e come colleghi.

Su Heidegger non ritorno perché ne abbiamo parlato talmente tante volte e sai perfettamente che non lo liquido tout court perché coinvolto col nazismo, benché, comunque, dubbi sugli esiti inevitabilmente e potenzialmente eversivi del suo pensiero permangano al di là di un’indiscussa e incommensurabile potenza filosofica. Come ha scritto in un pezzo Richard Wolin, dichiarando guerra all’«umanismo», Heidegger ha dischiarato guerra anche ai principi di «dignità umana», «diritti umani», «autodeterminazione» e «democrazia». In sostanza, alle «idee del 1789», considerate «antitedesche». È il pensiero di Karl Löwith e di Emmanuel Lévinas, secondo i quali il suo antiumanismo è in relazione con l’elaborazione di un’ideologia totalitaria e negatrice dei diritti umani come quella nazista. Non è, dunque, il distintivo sul bavero della giacca l’elemento più pericoloso del suo percorso, ma l’essenza stessa della sua filosofia. Il che, ovviamente, e lo ripeterò fino alla nausea, non ne sminuisce di un grammo lo straordinario peso speculativo.

Per quanto riguarda le tue ultime affermazioni sull’intreccio di pensiero e vita, sul “sogno” di una ragione algida e arrogante quando pretende di andare al di là della finitudine, sulla necessaria relazione tra cuore e mente, non posso che essere d’accordo. In maniera chiara e senza alcuna riserva.

  


giovedì 21 aprile 2022

Pensiero in sorgente IV: alcuni chiarimenti a partire dalle parole (profonde) di Teresa Simeone

 

Cara Teresa, le parole che hai voluto dedicare al mio ultimo libro portano prima di tutto il segno di una oramai antica amicizia. Ci conoscemmo, credo, al pranzo di fine anno di una classe di Colle Sannita dove tu eri arrivata e che io avevo lasciato. Ci siamo, da allora in poi, incrociati in varie iniziative (ricordo in particolare la Notte Bianca della scuola pubblica sannita che organizzammo al Convitto Nazionale giusto dieci anni fa) e, finalmente, siamo divenuti colleghi. Ci legano amicizia e stima che rendono possibile, in maniera atipica, uno “scontro” di idee per me assai proficuo (e mi auguro anche per te!). E di questo ti ringrazio: come ho avuto modo di dire nella presentazione del 4 aprile, chi scrive ha bisogno di lettori critici. E tu, che per altro leggesti per prima già due anni fa il manoscritto, lo sei in maniera profonda. Per questo sento il dovere di rispondere ad alcune questioni che hai sollevato.

1. In cauda venenum, dicevano gli antichi. Invece, tu lo hai messo in capite, quando scrivi dell’«ultima fatica letteraria»! Non accetti, ed è comprensibile dal tuo punto di vista, che la mia possa essere un’opera di “pensiero”. Convinta che io sia soprattutto un poeta e che tra poesia e pensiero (volutamente non scrivo filosofia perché ritengo che essa sia specie rispetto al genere) non ci sia alcune correlazione, così come tra cuore e ragione.  «La filosofia è razionalità». Un’affermazione assai impegnativa! Però, ti dico, se questo è vero, perché insegniamo ai nostri allievi il “pensiero” di autori come Kierkegaard o Nietzsche (faccio due esempi che mi sono particolarmente cari) che davvero hanno ben poca razionalità nei loro non-sistemi? Non ti pare che questa definizione “illuministico-idealistica” sia figlia di una ricostruzione tendenziosa (di parte, come lo sono tutte) della storia del pensiero? La distinzione pensiero-filosofia l’ho appresa da quel “pensatore” (che tu espungeresti da una storia “della filosofia”?) su cui abbiamo duellato spesso in passato, cioè Martin Heidegger. Egli scrive in Fine della filosofia e il compito del pensiero (conferenza del 1964, raccolta in Tempo ed Essere): «La fine della filosofia si mostra come il trionfo dell’organizzazione pianificabile del mondo su basi tecnico-scientifiche e dell’ordinamento sociale adeguato a questo mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione del mondo fondata sul pensiero dell’occidente europeo. 

Ma allora la fine della filosofia nel senso del diramarsi nelle scienze è anche già la compiuta realizzazione di tutte le possibilità, in cui il pensiero che si è realizzato come filosofia è stato posto? O c’è per il pensiero oltre l’ultima possibilità così definita la risoluzione della filosofia nelle scienze tecnicizzate una prima possibilità, da cui il pensiero filosofico dovette certamente partire, ma che proprio in quanto filosofia non fu in grado di esperire ed intraprendere?»

Dunque, c’è pensiero oltre la filosofia! E non è nostalgia del mito ma di quella prima possibilità del “pensiero filosofico” che la filosofia (da Platone in poi) non è stata in grado di esperire, facendosi prima metafisica, poi tecnoscienza.

2. Parli di «visione naturocentrica». Su questo mi permetti un chiarimento importante. Non ho mai pensato che l’uomo debba essere cancellato dal pianeta! E non so quali mie parole possano averti indotto a pensarlo. La metafora del tumore mi è suggerita da Latouche, il quale scrive spesso che l’unica cosa che cresce in maniera indefinita in natura è, appunto, il tumore. Tutto il resto, raggiunto un limite, si ferma. Come dovrebbe fare e non riesce a fare l’uomo, mettendo a repentaglio la sopravvivenza del tutto. Malgrado la fascinazione che alcuni panteismi e la loro incarnazione contemporanea (l’ecologia “profonda”), non ho una visione “orizzontale” dell’universo. L’uomo, straordinario mistero, non è un “animale” come gli altri. Egli è capace di scelta, è libero, ha “responsabilità”. E uno dei compiti di un “pensiero poetante”, riconciliato con la Natura, è proprio un’assunzione di responsabilità, lontana sia dal “terrore sacro” (che essa infondeva negli uomini premoderni) sia dal prometeismo distruttivo dell’uomo moderno.

3. Quando ho letto le tue parole su poesia e filosofia mi è parso di sentire Croce, come se non ci fosse stato tutto il Novecento (ma anche il tardo Ottocento)! La filosofia, scrivi, è «rigore logico». Perché insegniamo ai ragazzi il contenuto dello Zarathustra di Nietzsche? La poesia, scrivi, è «una sensibilità». Io, invece, in Char o Celan, in Luzi o Bonnefoy trovo uno sguardo sul mondo che trascende l’individuo ed è capace di cogliere ciò che sfugge al pensiero “calcolante”, che lascia “accadere la verità”.

4. Cara Teresa, non sono contro il progresso! Lo sai, lo vedi nel nostro lavoro quotidiano a scuola. Al contrario. Nessuna nostalgia per mondi rurali e arcadie. Non sono una «forza del passato», malgrado il pensiero tradizionale mi sia servito come strumento di comprensione del mio tempo. Vorrei sentirmi parte di un’avanguardia che prefigura un rapporto armonico con la creazione, in cui la tecnica non sia la dominatrice dell’uomo, ma realmente al servizio non dell’uomo ma della creazione stessa e di tutti gli esseri che la attraversano.

5. «Non è un mistero, d’altronde, che a Nicola piaccia provocare. Lo fa continuamente e sapientemente. Usa espressioni forti, acuminate, a volte dando l’impressione che sia innamorato del suono delle belle parole che riesce a costruire/decostruire senza preoccuparsi di come possa essere interpretato». Non amo lo “scandalo” di per sé. Anche in questo mi conosci nella quotidianità. Sono “agonistico”. Ancor di più nel tempo eracliteo che anche personalmente credo di vivere in questa fase della vita. 

6. «Le analisi spietate di Heidegger sulla presunzione dell’ente, l’invito a immergersi suggestivamente nella natura di Thoreau, l’appello alla lentezza e alla decrescita di Latouche sono state importanti nel mettere in guardia dalle distorsioni ma non sarebbe il caso di iniziare a proporre soluzioni più concrete e meno utopistiche?» Certo! E tu sai bene che ho deciso, per diversi anni della mia vita di confrontarmi con problemi assai pratici da consigliere comunale (dove collocare, ad esempio, il depuratore cittadino), ma sempre nutrito da un’utopia “concreta”. Nessuna pragmaticità diversa da quella distruttiva che continuiamo ad esperire si dà senza un “anders denken” (un pensiero “straniero”, altro). 

7. Su Heidegger ci siamo confrontati già in passato. Aggiungo semplicemente che la discussione animatasi con la pubblicazione dei Quaderni neri (illeggibili anche per me) mi pare funzionale alla liquidazione tout court di un pensiero che, invece, ha ancora una straordinaria carica “insorgente”.

Per il resto, non posso che ringraziarti delle parole profonde che scrivi, soprattutto sull’ultima parte del libro, quella con cui sicuramente ti sei trovata più a tuo agio, più “letteraria”, per usare una categoria a te cara e che io considero, invece, inutilizzabile. 

Non amo le partizioni disciplinari. Pensiero è vita, vita è pensiero, che nutre il nostro agire come esseri in relazione nel mondo con altri uomini e altri esseri viventi, che ci interpellano con i loro volti. Sono un homo, sapiens e demens, come mi ha insegnato Morin, fatto di cuore e ragione inestricabilmente legati. Non mi appartiene il sogno di una razionalità algida che riesce a guidare le azioni dell'uomo. E credo che troppe volte il sogno della ragione abbia generato mostri. Il sogno, bada, non il suo uso corretto, consapevole del limite, che è cosa doverosa e essa sì degna di uomo che riconosce, in generale, la sua finitudine e la sua creaturalità. Quando, dunque, penso e agisco lo faccio nella totalità di ciò che sono: in relazione (stabilendo connessioni fra cuore e ragione, fra «il calcedonio e l’inverno pungente»), in sorgente, insorgente.


domenica 10 aprile 2022

Pensiero in sorgente III: Antonio Esposito

 

"Dobbiamo tornare a pensare, per insorgere contro la pesantezza del mondo, il trionfo della forza, le potenze diaboliche, il nichilismo. Ora sono come un "viator" che cerca una spiritualità libera. Mi definisco diversamente credente. Non sono nella disperazione giovanile, quando tutto mi appariva oscuro e senza senso. La mia attuale fede è una speranza”. Questo il fulcro delle riflessioni di Nicola Sguera, condensate con agile andamento nel suo libro dal titolo intrigante Pensiero in sorgente,  pubblicato per le edizioni Delta 3 di Grottaminarda e presentato nell’Auditorium dell’ex Seminario.

Il suo approdo è il frutto di una lunga meditazione sulle principali tappe della sua vita. Dall’infanzia all’adolescenza, dall’esperienza scolastica al ruolo di padre. L’autore, che insegna storia e filosofia al Liceo Classico di Benevento, “dialoga” coi filosofi che più ama, da Platone ad Heidegger, scrive lettere ai giovani per contrastare il pessimismo, parla di Dio, arrivando alla conclusione che la “fede non ha nulla a che fare col fondamentalismo”. E qui lancia una frecciata alla propria città. “Essa cambierà -afferma- quando  cambierà il suo modo di vivere il cristianesimo, senza derive magiche o piolatre”.

Un suo ex alunno, oggi docente, Davide De Rei, ha ricordato i tratti salienti del suo metodo scolastico. “Al mio ultimo anno di liceo -ha raccontato- ero uno studente in crisi. Con l’arrivo di Sguera le cose cambiarono, la materia fu ravvivata da cinema, musica e fumetti. Mi ha insegnato l’esercizio del dubbio. Dietro di me risuona ancora l’eco del suo messaggio: “Non ti disunire”. La concezione della scuola “come estensione dell’ambiente familiare” è presente anche nel libro. “La scuola deve essere il luogo -sottolinea l’autore- in cui impariamo a diventare uomini. Pensarla come un’azienda è stata la sua rovina”.

Il dialogo sui contenuti del testo è stato animato da Amerigo Ciervo, amico e collega di Sguera, che ha elogiato il suo sincero approccio nell’affrontare tematiche ardue e intimistiche. ”Nicola continua la sua inquieta ricerca -ha sottolineato Ciervo- questa volta mette a nudo il suo cuore. Per me è come una sorta di sentinella che sorveglia sulla notte ed è pronto ad annunciare l’alba”. Alla presentazione ha portato il proprio contributo anche l’arcivescovo di Benevento, Felice Accrocca.

“Io tutto sono tranne che filosofo - ha detto il prelato - vedo che l’autore ha una grande empatia col creato. Si capisce che l’ateismo non è cosa per lui. Oggi egli è un cristiano senza chiesa, ma si augura un nuovo inizio in cui l’ascolto prenda il posto del dominio. Apprezzo molto la sua concezione della poesia come salvezza e il riconoscimento della funzione benefica del sogno e dell’utopia”.

Quando ha preso la parola, Sguera ha squadernato tutta la sua “esigenza esistenziale”, che lo ha spinto a raccogliere questi scritti occasionali, ha descritto la bellezza dell’immagine di copertina, che riporta un’opera di Mimmo Paladino, installata sull’acquedotto di Solopaca, e rappresenta un rabdomante che cerca la sorgente, la fonte, l’acqua “principio del pensiero occidentale”. Nel libro spiega per la prima volta il difficile rapporto col padre e perché è diventato vegetariano e poi vegano.

La parte autobiografica è molto intensa e sentimentale. Lo fa capire con dolcezza nella serata della presentazione. “Resto attaccato –ammette- come una pianta a questa città, innamorato di ogni sua singola pietra. Qualunque cosa sia, poeta, intellettuale o professore, io sono di provincia". Quando, nel testo, si confronta col divino e la famiglia, allora apre tutte le porte dell'anima. “Ascolto Dio che mi parla - rileva - e gli rispondo, ascolto mia moglie e i suoi bisogni, ascolto mia figlia che piange e le rispondo con un’azione, ascolto i bisogni dei miei studenti e agisco di conseguenza. Ascolto il mondo: questo forse è la poesia. Non sguardo, ma ascolto”.

Nelle prime pagine c’è un breve accenno alla militanza nel Movimento Cinque Stelle, nelle cui file, nel 2016, fu eletto al consiglio comunale di Benevento. “Ero persuaso che davvero –scrive – fosse possibile quella che definivo una “rivoluzione gentile”. La sconfitta è stata dolorosa. L’esperienza è stata stroncata dallo scellerato accordo di governo con la Lega”. Nonostante ciò non bisogna tirare i remi in barca. “Siamo soldati di una lunga guerra -aggiunge- che si combatte anche con le parole. Abbiamo perso molte battaglie. Altre ci attendono. La guerra è lunga. Non avrà mai fine”.

Sulla scia di Machiavelli, che spronava gli italiani a liberarsi dei barbari,  Sguera si domanda se anche oggi non sia il momento di un nuovo slancio. “E oggi l’Italia non ha raggiunto il punto più basso della sua parabola con una classe dirigente, a partire dal nostro territorio per arrivare ai grandi decisori politici, priva non solo di autorevolezza, ma anche di credibilità minima?”. Il libro è ricco di pensieri lunghi. L’autore vorrebbe che diventasse un pretesto per un incontro con chi l’avrà letto.

Per scacciare le fosche nubi della crisi economica ed ecologica che stiamo vivendo, Sguera insomma immagina una possibile rigenerazione dell’uomo, da padrone e misura di tutte le cose a custode e pastore della terra. “Qualcosa -avverte- in qualche luogo che ancora non sappiamo sta nascendo per portare al mondo una rivoluzione che ci ridoni la nostra “umanità” spodestata dalla Tecnica. E’ tempo di tornare ad abitare poeticamente la nostra Terra-Patria, con umile e riconoscente atteggiamento filiale. Il mio auspicio è contribuire in questa piccola provincia dell’Italia, alla salute dell’uomo, alla sua rinascita”.

(pubblicato in La Voce sannita)

giovedì 7 aprile 2022

Pensiero in sorgente II: Amerigo Ciervo

 

È dal concetto di amicizia  che devo partire, perché è in esso che s’innerva tutto ciò che dirò su Nicola Sguera.  Il che non significa convergere su idee e analisi o fare scelte comuni. Anzi. Posso dire, per esempio, che sulle analisi politiche e sulle scelte conseguenti  non ci siamo quasi mai trovati d’accordo. Nelle ultime  elezioni, lui non ha votato per me. 

Ovviamente ha fatto bene, perché le mie possibilità di elezione alla Camera dei deputati, dovendo vedermela con una serie di mostri sacri del nostro mondo politico,  erano anche più remote della possibilità di essere scelto come astronauta per una spedizione su Marte. E, tuttavia, se avessi votato a Benevento, viceversa, avrei votato sicuramente per Sguera sindaco. Che poi lui non fosse stato scelto lo considerai un’ulteriore conferma  della verità del mio assunto - che cioè gli eletti sono lo specchio più fedele della comunità che li esprime e che i partiti (o movimenti) spesso seguono vie molto misteriose nella selezione dei gruppi dirigenti. 

Non perderò la speranza che per il prossimo futuro potremmo finalmente ritrovarci anche d’accordo sul coté politico. Ma, conoscendoci bene entrambi,  non ci giurerei. E così togliamo subito dal tavolo un aspetto importante del problema: Nel libro Nicola non parla delle sue esperienze politiche. Se qualcuno volesse leggerlo in tal senso, ecco, diciamolo subito, non troverebbe nulla a riguardo.   Il  racconto si sarebbe conquistato il proscenio, spedendo tra le quinte  la molla fondamentale che è alla base dello scritto: il  bisogno di mettere “a nudo il proprio cuore”, un bisogno che nasce dalla sua coscienza etica di essere, con se stesso e con il lettore, onesto e trasparente, fino in fondo.                 

Dunque, affermo  che Nicola è uno dei miei amici più cari. Lui ha voluto che scrivessi qualche pagina introduttiva. Avevo del resto, con lui, un debito. Avendogli chiesto di vergare una prefazione al mio. Nicola non si limitò a questo. Svolse quasi la funzione di editor. 

Ho scritto che il suo  è un libro importante e impegnativo. Con il consueto gioco di parole che è solo in apparenza  una forma di divertissement  Nicola le parole le ama e le coltiva, con impegno e rigore, anche perché, per uno dei suoi maestri di riferimento è il linguaggio   la casa dell’Essere. I titoli esprimono veri e propri programmi di lavoro. L’agenda della ricerca, l’ordine dei temi su cui riflettere.  Con un pensiero che non è mai quieto, sereno – Filosofare non è mai comodo, ricorda Bruno, e il pensatore nolano  lo sperimentò ben direttamente  sul suo corpo vivo. Il filosofare,  sempre,   nel suo farsi, deve fare i conti con il conflitto, con la lotta, con la durezza, con l’affanno, con l’angoscia, con il tragico.  “Devo assumere che ci sia qualcosa in comune tra tragedia e filosofia, scrive Agnes Heller nell’opera con cui conclude la sua vita. La filosofia appare, infatti, quando la tragedia scompare. Come se la prima veicolasse un messaggio  simile a quello della tragedia, quasi a prendere, in un certo senso, il suo posto.  Così, mentre si  tenta di cogliere e bloccare il pensiero nel suo arché,  se ne minano radicalmente, utilizzando la dinamite nietzscheana, ma soprattutto la profondità hedeggeriana,  i pilastri più profondi.   Nicola ricostruisce il “suo”  percorso in-sorgente,  avvalendosi di pensatori a lui molto cari. In verità alcuni molto cari anche a me: penso a Ernst Bloch del principio-speranza (“Sono un filosofo che abita la propria costruzione filosofica”  e che respinge una vita da cane (Hundeleben) che si sente solo passivamente gettata nel mondo, in una situazione incomprensibile”,  alla  Simone Weil – l’imperativo categorico in gonnella secondo la definizione del suo preside – della prima radice  e, più di tutti,  al Dietrich Bonhoeffer di Resistenza e resa, del pastore che ci invita ad essere davanti a Dio come se Dio non ci fosse, a rifiutare la visione del dio tappabuchi.  

Nicola affranca Eraclito dal mantra liceale del “panta rei”. E, ovviamente, fa continuamente i conti con lo sciamano di Messkirck, Heidegger, il grande amore,  sulla cui vita non esemplare  e sulle cui opzioni naziste  Nicola non tace, insistendo sempre  sulla necessità che   lectio e mores non dovrebbero mai scindersi. E tuttavia, nonostante le colpe egli mostra come  non si possa fare a meno del  pensiero di Heidegger per comprendere a fondo i problemi della “terra del tramonto”. Sarà necessario raccontare una storia diversa dell’Occidente per salvare l’Occidente”, affidandoci, appunto, all’antica sapienza, quella  dei presocratici  – si badi bene, non la filosofia, di cui si annuncia la fine – che deve tornare ad abitare l’oikos, su cui costruiamo da sempre  versi anche stupefacenti, ma che continuiamo sconsideratamente a  depredare. L’oikos  non ci appartiene, essendo “la terra di Dio”, come nel titolo di un straordinaria lettera  di Giovanni Franzoni, l’abate  di san Paolo fuori le Mura combattuto dalla gerarchia, negli anni Settanta, e che  noi leggemmo con grande intensità. Dopo cinquant’anni che gioia ritrovare alcuni elementi  delle analisi di quel cattolico marginale – come Franzoni si definisce nella  sua autobiografia – in alcuni passaggi dell’enciclica di papa Francesco. Occorre non perdere la speranza: “guardavo il bel Cielo azzurro e mi meravigliavo che il sole potesse risplendere con tanto fulgore quando l’anima mia era inondata dalla tristezza”. Scrive Teresa di Lisieux in una pagina della Storia di un’anima.  Il libro è scandito da capitoli (logos, fusis-tecnè).

Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, in cui la ricchezza del vocabolario fa sì che  ogni parola affermi un contatto diretto e vario della realtà, l'ho amata perché quasi tutto quello che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco. Scrive Marguerite Yourcenar in Le memorie di Adriano

I capitoli raccontano le vicende della sua “in-quieta” ricerca.  Con cui   fornisce, a se stesso e al lettore, il portolano per navigare nel gran mare dell’Essere, come i sassolini bianchi di Hansel e Gretel  per affrontare  la complessità della foresta.  Ma in verità i capitoli  tra di loro dialogano,   rimandano, stabiliscono connessioni. Arrivati a questo punto, dovremmo porci la domanda fondamentale. A che serve un libro come questo? Che poi, tradotto è: Qual è il ruolo? Qual è la funzione di un intellettuale, oggi? In questi giorni tristi, dopo la pandemia,  che  ci ha ricordato la nostra finitezza?  Insieme al  cambiamento climatico,  essa ci sta mostrando come non sia la politica a intervenire sulla natura ma  che è la natura a decidere come debba essere la politica. Ci siamo illusi anche che si potessero creare le condizioni per  trasformare la crisi in   potenziale rinascita. Poi c’è la guerra. E la guerra è un’altra cosa.  È un evento che ci riporta ai principi, all’articolo 11,  che ci  spinge a interrogarci sui valori fondanti, non solo su quelli civili o politici, ma proprio  sulle grandi questioni etiche. Questo tempo c’impone l’obbligo di mettere in campo una nuova visione del mondo, una nuova prospettiva circa il futuro del nostro paese e dell’intero pianeta. Si avverte l’esigenza di un cambiamento radicale di paradigma. Ed il ruolo di  un intellettuale è proprio quello di uscire dalle secche del pensiero unico, dall’informazione univoca,  dalla   linea binaria dei social. Dalle rappresentazioni  dei  cosiddetti talk, dove si ritrovano sempre le medesime compagnie di giro che, deposto ormai, nell’armadio della loro camera,  lo scatolone del “piccolo epidemiologo”, lo hanno sostituito con quello del “piccolo Machiavelli”.  Spuntano analisti e  politologi e storici improvvisati come funghi. E quando Francesco  ha trovato che sia scandaloso – e io, nella mia piccolità, come diceva mia nonna, concordo con lui – spendere tanti soldi in armi, senza pensare ai primi bisogni concrete delle persone, anche Francesco è stato oscurato. Le domande sgorgano,   come attraverso una polla, e tutte ci riguardano. Ne citerei solo una che e riguarda il nostro lavoro, quella relativa al     senso perduto di una scuola che ha smarrito, dietro le sirene dell’economicismo neoliberista, la sua funzione primaria (una società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima scrive Nicola: Non insegnate ai bambini Non insegnate la vostra morale «è così stanca e malata / Potrebbe far male», canta Giorgio Gaber. 

Nicola è convinto che  la poesia sia lo spazio privilegiato per costruire l’alternativa migliore alla mera logica dell’utile. Ma io che poeta non sono, preferisco parlare in prosa. E qui, davanti a voi, sento il bisogno di denunciare la terribile condizione in cui si trova la scuola italiana, tutta imbracata in schematismi burocratici e, prima di tutto, lontanissima dal secondo comma dell’articolo 3 che è la declinazione dell’Utopia -  nel senso più alto del termine -  dei nostri padri e delle nostre madri costituenti. Saprete che in questi giorni si stanno svolgendo i famigerati concorsi a cattedra. Che illusione pensare che chi dovrà contribuire all’educazione di giovani uomini e di giovani donne possa essere scelto da una macchina muta, crudele  e spietata, come se si trattasse di conseguire una patente di guida; che illusione giudicare non in grado di entrare a scuola chi già ci lavora  da molto tempo contribuendo a tenere in piedi una delle poche istituzioni in grado mantenere unito il paese; che illusione pensare alla falsa narrazione della meritocrazia che serve alla società per giustificare le proprie disuguaglianze. Ogni comunità ha bisogno di giustificare le proprie disuguaglianze, scrive Piketty in Capitale e ideologia. Così le seducenti narrazioni  dei cantori indefessi delle scelte politico-economiche degli ultimi decenni non riescono più a coprire l’impoverimento generalizzato. Non   hanno perso i vecchi e hanno guadagnato i giovani. Hanno perso tutti.  Deserto, macerie e arretramento sul campo dei diritti, sociali e civili. A utilizzare  la distinzione pasoliniana: uno “sviluppo” pari a zero e un  “progresso”  diventato un oggettivo  regresso.  La scuola ha cessato da molto tempo di superare le disuguaglianze, contribuendo, viceversa, ad accentuarle.  Siamo  stati muti testimoni di azioni malvagie. Le esperienze della vita ci hanno resi sempre più diffidenti e indifferenti. Sovente siamo stati in debito di parole di verità e di libertà. Negli anni Settanta portavamo gli operai a scuola, oggi portiamo giovanissimi studenti a morire di lavoro.   Sarebbe il caso di chiedere scusa per aver creduto e diffuso a piene mani questa cosiddetta scuola delle competenze in cui si passa la vita ad acquisire crediti e a saldare debiti, come dei qualsiasi clienti di una banca, a costruire  fantasmagorie ed effetti speciali, che spesso non nascondono che il vuoto, facendoci strada tra acronimi orrendi ed espressioni inglesi per essere a la page   e, infine, quando è il tempo, a sistemare i banchetti degli open day, per magnificare la merce e acquisire così i pochi clienti rimasti. La scuola deve ritornare ad essere  uno dei pilastri per  un  mondo pluralistico e democratico. Il libro di Nicola ci invita così a  “restare fedeli al nocciolo più autentico del nostro approccio alla realtà”,  ben consci del fatto che,  quando abbiamo costruito  un pensiero che sembra elevarsi  come un blocco compatto, sappiamo  già che ci stiamo muovendo in un altri mari e in altri boschi. Chiudo con una citazione di Isaia. 

“Sentinella, quanto resta della notte?

Sentinella, quanto resta della notte?”

“La sentinella risponde:

«Viene la mattina, e viene anche la notte.

Se volete interrogare, interrogate pure;

tornate un'altra volta».

Con la sua ricerca, Nicola è una sorta di sentinella. L’intellettuale svolge  il compito della sentinella che deve  avvistare carri, cavalli, cavalieri. È la sentinella  che vede la caduta di Babilonia. Un compito non semplice. Occorre restare svegli, desti. Continuare ad interrogarsi e ad interrogare. Sono certo che lui continuerà a farlo. Con dignità e intelligenza, Per se stesso e per noi.