martedì 2 febbraio 2016

"Peregrin d'amore" di Eraldo Affinati



1. Uno scrittore, una città

Permettetemi di partire sempre dalla vita, essendo uno dei due poli dialettici, in tensione continua, dell’opera di Eraldo.
Io lo conobbi nel 1997. Era nella decina finale del Premio Strega, ospite la mattina alla Libreria Masone. Portai da lui alcune alunne di una scuola privata, cui avevo parlato di Campo del sangue, un libro per me fondamentale della letteratura italiana recente. Eraldo è tornato a Benevento per presentare la bellissima biografia dedicata a una figura a mio avviso chiave della cultura contemporanea, Dietrich Bonhoeffer nel 2002, e poi nel 2005, sempre con Maria Cristina, per discutere di Secoli di gioventù. Due anni fa (2009), infine, venne a presentare La città dei ragazzi. Si tratta, dunque, anche grazie a Maria Cristina, di un rapporto privilegiato con la città di Benevento, di cui lo ringraziamo. Speriamo che Benevento possa entrare in qualche modo nella sua narrazione prima o poi, pur avendo poche glorie letterarie da vantare.
Permettetemi di dire che l’affinità maggiore che sento con Eraldo è di tipo caratteriale. Lo dico con le parole di Ottiero Ottieri: «Tu sei antimondano» (p. 56). La mondanità, e Benevento è città che ama, ahimé, soprattutto nella dimensione letteraria, il mondano, è «l’orrore».
Infine, una piccola divagazione personale: nel libro (p. 390) è citato un grande musicista contemporaneo: Nick Cave. Ebbene, credo che Eraldo l’abbia ascoltato per la prima volta su un cd che gli donai proprio in occasione di una delle sue trasferte beneventane.

2. Canone “atipico” della letteratura italiana?

È possibile vedere in Peregrin d’amore? (nel titolo torna, evidentemente, quello che è l’essenza stessa della vita e dell’opera di Affinati: la sua dimensione itinerante, di cui ha parlato Maria Cristina Donnarumma) un canone, per quanto personalizzato, della letteratura italiana? Ne emergerebbe un quadro di questo tipo: 15 auctores dalle origini della letteratura nel 1200 al 1800 (fino a Verga) e ben 18 del XX secolo (da Pascoli), con digressioni delicate di autori novissimi come Milo De Angelis o il compianto Rocco Carbone. La chiusa ideale è dedicata, nel 150 anniversario dell’unità, a Mazzini e Garibaldi, padri della patria politica. Mi pare un contributo di rilievo a quella formazione di un canone, soprattutto novecentesco, che si inizia a strutturare. Non è poca cosa, ad esempio, l’assenza di un Calvino e la presenza di D’Arzo o Bassani. Mi spiace ovviamente l’assenza di per me grandissimi come Luzi o Caproni. Non sarebbe stato più opportuno, chiedo ad Eraldo, pensare ad un lavoro in due tomi, uno dei quali esclusivamente dedicato alla letteratura del XX secolo?
Le assenze più evidenti, rispetto allo standard cui è abituato uno studente delle Superiori sono gli Stilnovisti, Boiardo, Poliziano e l’umanesimo fiorentino, Bembo, Marino, gli illuministi, Carducci. In assoluto, però, l’assenza più evidente (prima domanda ad Eraldo) è quella di scrittrici. Soprattutto nel suo ampio canone novecentesco, accanto a “minori” di lusso come D’Arzo, non potevano trovare spazio Elsa Morante o Amelia Rosselli, per dire solo le maggiori a mio avviso?

 3. Insegnare la letteratura

Nel libro c’è una dimensione pedagogica, molto delicata, mai ostentata, in cui la pagina diventa vita e si pratica un metodo “attivo” di rapporto col testo (si veda, ad esempio, il capitolo su Ungaretti). Non dimentichiamo mai che Eraldo, scrittore, viaggiatore, è anche un insegnante, e questo traspare sempre nello sforzo di calare la letteratura nel vissuto dei suoi allievi, visti sempre nella loro assoluta singolarità.

4. Che cos’è la letteratura italiana?

Eraldo risponde a questa domanda con un correlativo oggettivo: Castel del Monte, centro della corte di Federico II, significa plasticamente la condizione irrelata, solitaria, della letteratura italiana, il filo rosso che ne lega quasi tutte le esperienze: «corpo amputato». Uno dei problemi cui il libro cerca di dare risposta concreta, cioè nella scrittura, in corpore vili direi, riunificate le due polarità che troppo spesso nella nostra cultura si sono scisse, autonomizzandosi l’una dall’altra. Rimettere, metaforicamente, Castel del Monte al centro di relazioni vitali.
L’altro emblema della letteratura italiana sono gli affreschi del Tiepolo, evocati più volte, in particolare, le figure del vecchio vigoroso e della fanciulla: la vecchia Italia e la sua tradizione letteraria, e la fanciulla che rappresentata il mondo giovane, pieno di vigore, soprattutto dei migranti. Per evitare il rischio della decrepitezza.
Eraldo parla di «secolare condizione minoritaria» (p. 65). Volevo chiedere, seconda domanda, cosa significa precisamente?

5. Da dove proviene il discorso?

È evidente che la scrittura di Eraldo non proviene da un luogo “altro”, rispetto all’oggetto della sua quete, come accade, quasi sempre, per la critica letteraria. È interno ad esso: Eraldo si sente, giustamente, erede senza testamento (diciamo che è il libro è la sua accettazione d’eredità) di una lunga catena di libri e di individui (p. 387), che vengono letteralmente evocati, chiamati alla presenza. A scrivere è uno scrittore, che cerca la sua personale “tradizione”, da ricevere e donare a sua volta in eredità, malgrado egli stesso senta in sé una polarità dialettica: quella nomadico, l’istinto del viaggio che sembra recidere le radici.

6. I morti

Perché ciò accada è necessario, appunto invocare ed evocare i morti. Diciamo che tutta l’opera di Affinati mira a raggiungere quegli attimi epifanici in cui il passato rivive, o meglio si crea un cortocircuito tra il presente del homo viator e un passato che sopravvive soprattutto nei luoghi del pellegrinaggio, sia esso Auschwitz sia esso un cimitero. Dunque, in qualche modo vengono riattualizzati dei topoi letterari, risignificati: la discesa agli inferi, il colloqui con i morti (Machiavelli e Foscolo, letteralmente, parlano). La tecnica narrativa mette in contatto due tempi: uno reale e uno “fantastico”. Affinati le chiama “visioni”. «Senti le voci dei vivi e dei morti» (p. 131).
La più toccante di queste visioni, in pagine veramente altissime, è quello con il padre, nel capitolo dedicato a Belli, esperimento linguistico, psicologico, letterario finissimo e potente, reso possibile dalla mediazione “bassa” del dialetto romanesco, che permette di dire l’altrimenti indicibile, senza cadere nel più vieto sentimentalismo.


7. Passato/presente

L’altro cortocircuito che avviene lungo tutto il libro è quello tra il passato che vive nelle opere letterarie e il brulicante presente delle nostre vite, con un’attenzione privilegiata, che fa onore ad Eraldo e lo rende tra gli scrittori più lungimiranti della nostra letteratura contemporanea (frutto anche della sua esperienza di docente a La città dei ragazzi), al mondo degli immigrati… Da questo punto di vista, ad esempio, il capitolo su Goldoni, dove il mondo dei “rusteghi” e i complessi rapporti generazionali illuminano un matrimonio imposto tra bengalesi, è emblematico (p. 152). Oppure il clamoroso “scontro” tra la cornice del Decameron e Uomini e donne… O il prete (credo) che diventa un Orlando che anziché uccidere i Mori se ne prende cura.

8. Metamorfosi dell’Italia e del mondo

La letteratura diventa anche la pietra di paragone per misurare le trasformazioni subite dal paesaggio urbano e rurale dell’Italia (e non solo, visto le puntate in Francia, Russia ecc.). Il voyage in Italie racconta una metamorfosi orrorifica. Soprattutto nel brano dedicato a Manzoni: la città diventa «un predatore famelico» (p. 198); le cascine che fanno da sfondo ai Promessi sposi diventano «villette blindate» (p. 197); «La campagna pascoliana è ormai soltanto un osso rosicchiato dai cani» (p. 257).
Una metamorfosi non solo paesaggistica (che porta ad una vera e propria «perdita del paesaggio», p. 253) ma anche antropologica. Dice il padre di Eraldo: «Bianchi, rossi, neri e gialli… Ma è Roma, sì? Si’n ce stavi te, manco ’a riconoscevo» (p. 213). L’Italia, la cui letteratura e la cui lingua è per lo più emblema di purezza, è divenuto paese compiutamente multietnico. Come comunicare a questo nuovo mondo di “italiani” il nostro patrimonio “puro”, se non contaminandolo?

9. Siamo liberi?

Un’altra domanda che percorre carsicamente il libro è quella sulla nostra libertà. Immagino che sia un vecchio tarlo di Eraldo, che ha a che fare con la sua stessa biografia di uomo che ha scelto la letteratura, senza esservi predestinato dall’ambiente in cui è cresciuto, e poi si è interrogato su quanto invece sia “destinale” la nostra vicenda umana (come il suo amico Milo De Angelis). «Che nella vita devi fare una scelta, anche sbagliata, senza illuderti che sia veramente tu a compierla» (p. 395). Alla fine, nelle bellissime pagine su Pavese, c’è l’epifania sul tema: «Quel che prima era scelta diventa destino» (p. 350).

10. Auctores

Mi pare che gli autori che più intrigano Eraldo siano quelli in cui lo scarto tra vita e letteratura appare ridotto, in cui c’è una tensione costante a risolvere, non estetisticamente, la letteratura nella vita e viceversa, dico, dunque, Dante e Foscolo, che a me pare, anche per la scelta di farlo parlare senza mediazione, direttamente, spirito magno evocato dal mondo ctonio, autore centralissimo, in una corrispondenza di amorosi sensi molto suggestiva.

11. Conclusione


Come sintetizzare tutto questo? La letteratura deve calarsi nella vita, nelle nostre vite, e in quelle degli altri; deve essere strumento euristico di comprensione di un presente che cambia, nell’accoglienza dell’altro, del diverso, dello straniero; deve essere pietoso esercizio di ascolto di una tradizione in cui esercitare però scelta, non solo su una base di perfezione stilistica e formale ma di potenza conoscitiva della scrittura stessa. Dobbiamo continuare ad esplorare, con inesausta passione di viaggiatori/scrittori.

(Intervento tenuto alla Biblioteca Provinciale di Benevento il 20 maggio 2011)

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