1. Uno scrittore, una
città
Permettetemi di
partire sempre dalla vita, essendo uno dei due poli dialettici, in tensione
continua, dell’opera di Eraldo.
Io lo conobbi nel 1997. Era nella decina finale del
Premio Strega, ospite la mattina alla Libreria Masone. Portai da lui alcune
alunne di una scuola privata, cui avevo parlato di Campo del sangue, un libro per me fondamentale della letteratura
italiana recente. Eraldo è tornato a Benevento per presentare la bellissima
biografia dedicata a una figura a mio avviso chiave della cultura contemporanea,
Dietrich Bonhoeffer nel 2002, e poi nel 2005, sempre con Maria Cristina, per discutere di Secoli di gioventù. Due anni fa (2009), infine, venne a presentare La città dei ragazzi. Si tratta, dunque,
anche grazie a Maria Cristina, di un rapporto privilegiato con la città di
Benevento, di cui lo ringraziamo. Speriamo che Benevento possa entrare in
qualche modo nella sua narrazione prima o poi, pur avendo poche glorie
letterarie da vantare.
Permettetemi di dire
che l’affinità maggiore che sento
con Eraldo è di tipo caratteriale. Lo dico con le parole di Ottiero Ottieri:
«Tu sei antimondano» (p. 56). La mondanità, e Benevento è città che ama, ahimé,
soprattutto nella dimensione letteraria, il mondano, è «l’orrore».
Infine, una piccola
divagazione personale: nel libro (p. 390) è citato un grande musicista contemporaneo:
Nick Cave. Ebbene, credo che Eraldo
l’abbia ascoltato per la prima volta su un cd che gli donai proprio in occasione
di una delle sue trasferte beneventane.
2. Canone “atipico” della
letteratura italiana?
È possibile vedere in Peregrin d’amore? (nel titolo torna,
evidentemente, quello che è l’essenza stessa della vita e dell’opera di
Affinati: la sua dimensione itinerante, di cui ha parlato Maria Cristina
Donnarumma) un canone, per quanto personalizzato, della letteratura italiana?
Ne emergerebbe un quadro di questo tipo: 15 auctores
dalle origini della letteratura nel 1200 al 1800 (fino a Verga) e ben 18 del XX
secolo (da Pascoli), con digressioni delicate di autori novissimi come Milo De Angelis o il compianto Rocco Carbone.
La chiusa ideale è dedicata, nel 150 anniversario dell’unità, a Mazzini e
Garibaldi, padri della patria politica. Mi pare un contributo di rilievo a
quella formazione di un canone, soprattutto novecentesco, che si inizia a
strutturare. Non è poca cosa, ad esempio, l’assenza di un Calvino e la presenza
di D’Arzo o Bassani. Mi spiace ovviamente l’assenza di per me grandissimi come
Luzi o Caproni. Non sarebbe stato più opportuno, chiedo ad Eraldo, pensare ad un lavoro in due tomi, uno dei quali
esclusivamente dedicato alla letteratura del XX secolo?
Le assenze più
evidenti, rispetto allo standard cui
è abituato uno studente delle Superiori sono gli Stilnovisti, Boiardo,
Poliziano e l’umanesimo fiorentino, Bembo, Marino, gli illuministi, Carducci.
In assoluto, però, l’assenza più evidente (prima
domanda ad Eraldo) è quella di scrittrici.
Soprattutto nel suo ampio canone novecentesco, accanto a “minori” di lusso come
D’Arzo, non potevano trovare spazio Elsa
Morante o Amelia Rosselli, per
dire solo le maggiori a mio avviso?
3. Insegnare la letteratura
Nel libro c’è una dimensione pedagogica, molto delicata,
mai ostentata, in cui la pagina diventa vita e si pratica un metodo “attivo” di
rapporto col testo (si veda, ad esempio, il capitolo su Ungaretti). Non dimentichiamo
mai che Eraldo, scrittore, viaggiatore, è anche un insegnante, e questo
traspare sempre nello sforzo di calare la letteratura nel vissuto dei suoi
allievi, visti sempre nella loro assoluta singolarità.
4. Che cos’è la
letteratura italiana?
Eraldo risponde a
questa domanda con un correlativo oggettivo: Castel del Monte, centro della corte di Federico II, significa
plasticamente la condizione irrelata,
solitaria, della letteratura italiana, il filo rosso che ne lega quasi tutte le
esperienze: «corpo amputato». Uno dei problemi cui il libro cerca di dare
risposta concreta, cioè nella scrittura, in
corpore vili direi, riunificate le due polarità che troppo spesso nella
nostra cultura si sono scisse, autonomizzandosi l’una dall’altra. Rimettere,
metaforicamente, Castel del Monte al centro di relazioni vitali.
L’altro emblema della
letteratura italiana sono gli affreschi
del Tiepolo, evocati più volte, in particolare, le figure del vecchio
vigoroso e della fanciulla: la vecchia Italia e la sua tradizione letteraria, e
la fanciulla che rappresentata il mondo giovane, pieno di vigore, soprattutto
dei migranti. Per evitare il rischio della decrepitezza.
Eraldo parla di «secolare condizione minoritaria» (p.
65). Volevo chiedere, seconda domanda,
cosa significa precisamente?
5. Da dove proviene il
discorso?
È evidente che la
scrittura di Eraldo non proviene da un luogo “altro”, rispetto all’oggetto
della sua quete, come accade, quasi
sempre, per la critica letteraria. È interno ad esso: Eraldo si sente,
giustamente, erede senza testamento (diciamo che è il libro è la sua
accettazione d’eredità) di una lunga catena di libri e di individui (p.
387), che vengono letteralmente evocati, chiamati alla presenza. A scrivere è
uno scrittore, che cerca la sua personale
“tradizione”, da ricevere e donare a sua volta in eredità, malgrado
egli stesso senta in sé una polarità dialettica: quella nomadico, l’istinto del
viaggio che sembra recidere le radici.
6. I morti
Perché ciò accada è
necessario, appunto invocare ed evocare
i morti. Diciamo che tutta l’opera di Affinati mira a raggiungere quegli attimi epifanici in cui il passato
rivive, o meglio si crea un cortocircuito tra il presente del homo viator e un passato che sopravvive
soprattutto nei luoghi del pellegrinaggio, sia esso Auschwitz sia esso un
cimitero. Dunque, in qualche modo vengono riattualizzati dei topoi letterari, risignificati: la discesa agli inferi, il colloqui con i morti (Machiavelli e
Foscolo, letteralmente, parlano). La tecnica narrativa mette in contatto due
tempi: uno reale e uno “fantastico”. Affinati le chiama “visioni”. «Senti le voci dei vivi e dei morti» (p. 131).
La più toccante di
queste visioni, in pagine veramente altissime, è quello con il padre, nel capitolo dedicato a Belli, esperimento linguistico,
psicologico, letterario finissimo e potente, reso possibile dalla mediazione
“bassa” del dialetto romanesco, che permette di dire l’altrimenti indicibile,
senza cadere nel più vieto sentimentalismo.
7. Passato/presente
L’altro cortocircuito
che avviene lungo tutto il libro è quello tra il passato che vive nelle opere letterarie e il brulicante presente delle nostre vite, con un’attenzione
privilegiata, che fa onore ad Eraldo e lo rende tra gli scrittori più
lungimiranti della nostra letteratura contemporanea (frutto anche della sua
esperienza di docente a La città dei ragazzi), al mondo degli immigrati… Da
questo punto di vista, ad esempio, il capitolo su Goldoni, dove il mondo dei “rusteghi” e i complessi rapporti generazionali
illuminano un matrimonio imposto tra bengalesi, è emblematico (p. 152). Oppure
il clamoroso “scontro” tra la cornice del Decameron
e Uomini e donne… O il prete (credo)
che diventa un Orlando che anziché uccidere i Mori se ne prende cura.
8. Metamorfosi
dell’Italia e del mondo
La letteratura diventa
anche la pietra di paragone per misurare le trasformazioni subite dal paesaggio
urbano e rurale dell’Italia (e non solo, visto le puntate in Francia, Russia
ecc.). Il voyage in Italie racconta
una metamorfosi orrorifica. Soprattutto nel brano dedicato a Manzoni: la città
diventa «un predatore famelico» (p. 198); le cascine che fanno da sfondo ai Promessi sposi diventano «villette
blindate» (p. 197); «La campagna pascoliana è ormai soltanto un osso
rosicchiato dai cani» (p. 257).
Una metamorfosi non
solo paesaggistica (che porta ad una vera e propria «perdita del paesaggio», p.
253) ma anche antropologica. Dice il padre di Eraldo: «Bianchi, rossi, neri e
gialli… Ma è Roma, sì? Si’n ce stavi te, manco ’a riconoscevo» (p. 213).
L’Italia, la cui letteratura e la cui lingua è per lo più emblema di purezza, è
divenuto paese compiutamente multietnico. Come comunicare a questo nuovo mondo
di “italiani” il nostro patrimonio “puro”, se non contaminandolo?
9. Siamo liberi?
Un’altra domanda che
percorre carsicamente il libro è quella sulla nostra libertà. Immagino che sia un vecchio tarlo di Eraldo, che ha a che
fare con la sua stessa biografia di uomo che ha scelto la letteratura, senza
esservi predestinato dall’ambiente in cui è cresciuto, e poi si è interrogato
su quanto invece sia “destinale” la nostra vicenda umana (come il suo amico
Milo De Angelis). «Che nella vita devi fare una scelta, anche sbagliata, senza
illuderti che sia veramente tu a compierla» (p. 395). Alla fine, nelle
bellissime pagine su Pavese, c’è l’epifania sul tema: «Quel che prima era
scelta diventa destino» (p. 350).
10. Auctores
Mi pare che gli autori
che più intrigano Eraldo siano quelli in cui lo scarto tra vita e letteratura
appare ridotto, in cui c’è una tensione costante a risolvere, non
estetisticamente, la letteratura nella vita e viceversa, dico, dunque, Dante e Foscolo, che a me pare, anche per la
scelta di farlo parlare senza mediazione, direttamente, spirito magno evocato
dal mondo ctonio, autore centralissimo, in una corrispondenza di amorosi sensi
molto suggestiva.
11. Conclusione
Come sintetizzare
tutto questo? La letteratura deve calarsi nella vita, nelle nostre vite, e in
quelle degli altri; deve essere strumento euristico di comprensione di un
presente che cambia, nell’accoglienza dell’altro, del diverso, dello straniero;
deve essere pietoso esercizio di ascolto di una tradizione in cui esercitare
però scelta, non solo su una base di perfezione stilistica e formale ma di
potenza conoscitiva della scrittura stessa. Dobbiamo continuare ad esplorare,
con inesausta passione di viaggiatori/scrittori.
(Intervento tenuto alla Biblioteca Provinciale di Benevento il 20 maggio 2011)
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