(immagine generata con Ideogram)
Ho provato a resistere. Ma, come Roger Rabbit, non ce l’ho fatta.
Eppure, ero stato buono, in silenzio durante e dopo l’incontro. Niente, devo esternare, devo cantare il mio "flit", malgrado le mie comunicazione urbi et orbi sulla fine (suona roboante, visto il poco che ho fatto) del mio impegno “civile e politico”, che mi sta spingendo a disertare piazze (di cui pure condivido integralmente lo spirito) per una idiosincrasia sempre più forte per un certo tipo di comunicazione.
I fatti (che poi quasi sempre si limitano ai comunicati quando l’evento non diventa trend) li trovate qui.
Presentazione di un libro dedicato al federalismo di un giovane e brillante studioso. Un entusiasta nato nell’anno in cui la mia generazione assisteva sgomenta al crollo della più grande utopia novecentesca.
Confesso spudoratamente che ero lì per affetto nei confronti di uno degli amici più cari della mia maturità, Amerigo Ciervo, e poi perché l’evento aveva il logo dell’ANPI, di cui (malgrado il mio disimpegno di cui sopra) sono orgogliosamente parte. Imparo sempre ascoltando Amerigo, mi piace la sua capacità di tenere insieme tante cose, di legare al presente ciò di cui parla, di mescolare sapientemente il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà.
Infatti, già nel suo intervento erano presenti elementi critici nei confronti dello stato dell’arte, particolarmente evidenti quando ha evocato uno degli studiosi che più ammiro per il rigore e la coerenza (anche umana), Emiliano Brancaccio (e sarebbe utile andare a rileggersi i suoi articoli sull’euro, moneta “tedesca” degli ultimi dieci anni e quelli sull’UE “franco-tedesca”, carolingia). Amerigo ha chiuso, però, con un richiamo alla necessità dell’utopia (che io stesso avevo evocato in altro contesto, la poesia di Celan e Il meridiano, di cui ha scritto Daniela Piesco).
Dovremmo, però, intenderci sul senso di questa parola. C’è utopia e utopia. Come c’è Europa ed Europa, in fondo. Una stessa parola può significare tante cose diverse e, dunque, può diventare un alibi. E se so che Amerigo, che rivendica sempre la sua formazione (e la tesi) sull’opera di Ernst Bloch, la intende in un modo affine al mio, ho dubbi sull’intervento di Giulio Saputo, di cui pure ho apprezzato la passione e la cultura vasta.
Sintetizzo: da anni io, fieramente europeo anche in virtù di quello che in età matura mi appare un vero e proprio lavaggio del cervello subito in gioventù sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’Europa unita, sono diventato scettico tanto sull’euro come moneta unica tanto su questa Europa “liberale” (e che ha imposto il pareggio di bilancio in Costituzione), Europa delle banche che mi pare assai lontana da quella (socialista!) evocata nel Documento di Ventotene.
Nelle riflessioni vaste di Saputo (per altro originario del nostro Sannio) ho colto almeno due “falsificatori” potenziali delle sue stesse tesi a difesa del federalismo: i limiti della democrazia attuali nell’UE e la gestione delle crisi migratorie. Insomma, il giovane studioso pretende, come tutti i paladini di “più Europa” un atto di fede (ecco la dimensione utopica), pur (per onestà intellettuale) avendo ben chiari gli elementi assolutamente (e dire inemendabilmente…) critici. Potremmo, però seguirlo nella sua esortazione “utopica”: superiamo le barriere nazionalistiche, uniamoci sempre più, costruiamo un mondo senza guerre. Insomma, la bellissima (ancora una volta) utopia kantiana della “pace perpetua”, del grande Illuminismo europeo, di cui, in fondo, il federalismo è prosecutore.
Mi appello ad un libro meraviglioso, e invito tutti a leggerlo.
Per me è stato illuminante. L’Europa attuale nasce come meccanismo di “spoliticizzazione” delle masse (perché ci lamentiamo che la gente non va a votare: è quello che si voleva!), di disinnesco degli elementi troppo “socialisti” (sic!) di alcune Costituzioni (in primis quella italiana). Inoltre, è questa l’obiezione sostanziale, Streeck mostra come la democrazia vera possa darsi solo su scala “piccola” o media (d’altronde, ce lo aveva già insegnato Rousseau). Così come la difesa dei diritti sociali. Ecco, io credo che il “sogno europeo”, metamorfico (i diritti, il green deal, ora la “difesa” contro la minaccia russa), sia la carota posta davanti all’asino per farlo andare avanti, la promessa che non sarà mai mantenuta (“fate questo e finalmente raggiungeremo la tanto ambita meta”). Siamo difronte ad un “cattivo infinito”.
Ma allora bisogna tornare al nazionalismo? Come “utopia” o “Europa” nazionalismo è parola che si può declinare in molti modi. La nazione è, ad oggi, l’unico organismo politico in cui sono stati realmente plasmati e tutelati i diritti sociali e in cui il “popolo” ha esercitato la sovranità (nei limiti…). Di gran lunga, dunque, preferibile alla “tecnocrazia” che ci governa, al “pilota automatico” (al servizio di potentati economici capaci di fare pesantemente lobbying).Io non vedo alcuna contraddizione tra un “nazionalismo democratico” l’inter-nazionalismo (che presuppone, a mio avviso lo Stato-nazionale). Il libro di Streeck è una contestazione radicale anche della globalizzazione, ovviamente, decisione politica (non “evento naturale”!), che ora mostra la corda.
Stiamo entrando, d’altronde, come ricorda Brancaccio, nel “momento Lenin”. Con queste cose dobbiamo fare i conti.
L’evento è stato organizzato da giovani federalisti entusiasti. Ed è giusto alla loro età sognare senza voler fare i conti con la “realtà fattuale”. Sono diventato uno spietato “realista” machiavellico? No. Resto un fiero alfiere dell’utopia e anche della “rivoluzione”. Ma nel modo in cui ne scriveva Paul Celan nel 1968.




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