In America il maialino
australiano Babe è ancora un fenomeno di costume che insidia gli evergreen di Disney. Perché parlare in
una rubrica che vuole scorgere i segni del “nascente” di un film per bambini,
privo di intenti allegorici tipici della favola antica di Esopo e Fedro e di
racconti moderni come quelli di Mandeville o Orwell? Perché credo che Noonan
abbia scelto una forma apparentemente giocosa e leggera per affrontare un
problema che ha a che fare con qualunque “nuova era” del mondo: il rapporto dell’uomo
con gli altri esseri della terra. Nella civiltà occidentale (diverso il
discorso per le culture orientali) tale rapporto è sempre stato condizionato
dall’idea, contenuta nella Bibbia
(«riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli
del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra», Gen, 1,28) del dominio e dello
sfruttamento, perpetuatosi senza mai entrare in crisi seriamente fino ad oggi,
se non per pochi individui. Questa realtà continua anche nella nostra epoca in
cui da una parte lo sviluppo tecnologico permette di non sfruttare più gli
animali per il lavoro, dall’altro la scoperta di nuove culture permetterebbe di
fare a meno di nutrirsi di carne animale. E non voglio parlare di episodi
clamorosi e drammatici come il recente caso della “mucca pazza”, o dei danni
ecologici dovuti al disboscamento di intere foreste per creare pascoli per
futuri hamburger. Risaputi sono i metodi di sfruttamento intensivo degli
animali, la violenza su quelli da pelliccia.
Il film di Noonan ci
introduce in un mondo conflittuale in cui, a differenza che nei film disneyani,
gli animali vivono con “timore e tremore” il rapporto con l’uomo (come la
figura del papero che fugge per evitare il suo destino a Natale). Bellissima la
prima scena, in cui la mamma-scrofa viene portata via, per il «Paradiso dei
maiali», crede il piccolo Babe, che, prescelto dal destino, diviene premio per
una gara, e, rapidamente, conquista l’attenzione del suo padrone, un rude e
onesto pastore, scegliendo come seconda madre una disponibile cagna da pastore.
Incredibilmente il piccolo porcellino, che si fa amare da tutti per la sua
cortesia, impara a “governare” il gregge, non con la violenza come i cani
(chiamati “lupi” dalle pecore) ma gentili richieste. Il padrone ha una
folgorante intuizione: far gareggiare il maialino nella gara che premierà il
migliore cane da pastore. La malvagia gatta, però, rivela al maialino che dorme
vicino al fuoco, il suo destino di carne da macello, facendolo entrare in una profonda
crisi. Ripresosi in extremis, e con l’aiuto del cane da pastore - che fino ad
allora l’aveva odiato come rivale -, Babe, suscitando prima l’ilarità
dell’intera Australia che assiste alla gara in diretta, prende poi il massimo
del punteggio, guidando in un perfetto percorso il gregge che dialoga con lui.
A parte l’happy end (necessario visto
il genere prescelto) in cui il diverso destino dell’animale è una sorta di
premio per la sua bravura, per il suo adeguamento ai desideri del padrone, il
film è straordinario perché fa vedere il mondo animale, non come un tutto armonico e solidale,
vivente di pulsioni, aspirazioni, attese.
Io ne sono uscito
scosso, costretto, pur vegetariano da undici anni, a guardare i miei animali
con uno sguardo nuovo. Ho ricordato con angoscia la prima volta che vidi
sgozzare un maiale, le sua grida strazianti. Non c’è idillio, lo so: nessuno
vuole negare che la natura ha in sé un elemento ineliminabile di ferocia e
sopraffazione, ma noi uomini del Duemila, a cui è data questa possibilità per
la prima volta nella storia del mondo, perché non salviamo i tanti Babe che
popolano il mondo? Perché il “silenzio degli agnelli” innocenti deve ancora
continuare a tormentarci? L’epoca, di cui siamo in attesa fervida, deve
accogliere, maternamente, anche loro.
(Articolo apparso su «Olis», 1997)
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