lunedì 29 febbraio 2016
domenica 28 febbraio 2016
Ricercare
Continua a
sognarli i nuovi inizi,
le palingenesi
cosmiche,
le adolescenze
di spiriti e corpi.
Eppure, con
misura e protervia,
abita la carne
precaria che sei,
miscela,
sapiente, il dolce e l’amaro,
con umiltà mai
doma, accetta
la creatura imperfetta
che sei,
da sempre.
6 febbraio 2014
sabato 27 febbraio 2016
intelligenza collettiva/connettiva e politica
Un recente inserto del Sole 24 Ore («Nòva.
Lezioni di futuro», n. 14) è dedicato alla intelligenza collettiva.
Sottotitolo: Come funzionano le reti di informazioni e che cosa ci possiamo
fare. Ne intreccio il contenuto con le riflessioni degli ultimi anni dedicate
al pensiero politico (e filosofico) di Hannah
Arendt. In America la pensatrice ebreo-tedesca ebbe l’ardire di coniugare
la ripresa heideggeriana della distinzione fra ποίησις (che il suo scopo fuori di sé, ad
esempio nel plasmare un manufatto) e πρᾶξις
(che ha il suo scopo in sé, ad esempio nel suonare il flauto), distinzione
presente in Aristotele, con una originale (e geniale) rilettura della Critica del Giudizio di Kant, secondo la
quale la facoltà del Giudizio sarebbe eminentemente “politica”, rendendo
possibile l’accordo (non fondato su giudizi “conoscitivi”, quelli che sono alla
base della scienza) fra gli uomini. Sia
in Vita activa che nelle lezioni
rimaste allo stato di frammento raccolte in Che
cos’è la politica? la Arendt ribadisce continuamente che la politica ha a
che fare con la pluralità degli uomini, con il fatto che non c’è l’Uomo ma gli
uomini. Ho sempre pensato che la filosofia della Arendt fosse l’unica in grado
di pensare il superamento del platonismo politico che, in forme diverse, domina
la tradizione occidentale. In senso lato, indico come platonismo politico ogni
filosofia politica che mira alla reductio ad unum della pluralità costitutiva
della sfera politica attraverso il principio della delega (ad un monarca o ad
un’assemblea) da una parte, dall’altra ogni filosofia politica che pensa la
politica come sfera riservata ad una schiera eletta di filosofi, specialisti,
tecnici.
Superare Platone, dunque, significherebbe da una parte
ritenere impropria ogni reductio ad unum, valorizzando la costitutiva pluralità
dell’umano, in ambito politico, dall’altro, recuperando la radice sana della
democrazia ateniese, iniziare a pensare che ogni cittadino, in quanto tale e a
prescindere dalle competenze di cui è portatore, debba essere chiamato a
decidere della cosa pubblica.
L’evoluzione dell’umanità, che ha avuto tappe decisive nell’invenzione
della scrittura e della stampa a caratteri mobili, oggi, grazie
alla connettività planetaria, rende possibile immaginare la concreta
realizzazione della teoria politica arendtiana, per altro prefigurata in ogni
esperienza (dalle assemblee rivoluzionare americane ai soviet del 1917 in
Russia) in cui gli uomini sono stati chiamati a partecipare senza delega e in
quanto cittadini alle decisioni che li riguardavano. L’intelligenza connettiva
può trasformarsi in intelligenza collettiva, in cui ciascuno, rimanendo se stesso,
contribuisce alla soluzione di problemi della collettività.
Il salto evolutivo
è vertiginoso. Val la pena pensarlo e prepararlo.
Guerra e pace
Alla
pace ineffabile non anelo
in
questa vita. Guarisco per crisi,
rivoluzioni
e scontri permanenti
campali
di cellule e batteri.
Che
il conflitto sia.
Forze
in tensione,
cavalco
una potenza buona e vitale.
Genero
con l’arco e la lira.
San Cumano, 9 agosto
2014
venerdì 26 febbraio 2016
ma ora verranno le stelle... * * * * *
Chi sono. La mia storia
Mi chiamo Nicola Sguera. Ho quarantotto anni.
Insegno storia e filosofia al Liceo Giannone di Benevento. Considero il mio il
lavoro più bello del mondo.
Ho sempre ritenuto doveroso impegnarmi per la
mia città. L’attivismo civico è un dovere cui nessuno dovrebbe sottrarsi. È un
“servizio civile” a tempo. Disertare la scena politica significa abbandonarla
nelle mani di professionisti della politica che asserviscono la cosa pubblica
alle proprie ambizioni, come è accaduto a Benevento e rischia ancora di
accadere.
Ho contributo, sin dagli anni Novanta, a
promuovere iniziative, soprattutto in campo culturale, con varie associazioni,
molte della quali da me fondate. Non si dà una politica nuova senza una cultura
nuova. Benevento ha bisogno di una rivoluzione che sia nello stesso tempo
politica, antropologica e culturale.
Nel 2001 fui candidato sindaco di una lista
civica, “Città Aperta”. I valori cui si ispirava erano la tutela del territorio
e dell’ambiente, la giustizia sociale e la solidarietà.
La mia storia
politica. Perché il M5S
Sono stato un uomo di sinistra perché ho
sempre creduto in questi tre grandi ideali (anche se un autorevole giornalista
scrisse un pezzo dal titolo: Perché Sguera è di destra). Non rinnego quello slancio ideale. Ho aderito al M5S
perché ritengo tramontata la dialettica novecentesca di destra e sinistra,
entrambe eterodirette da grandi potentati economici, e perché il M5S è l’unico
soggetto politico che porti avanti battaglie in cui mi identifico
completamente: elementi spinti di partecipazione e democrazia diretta,
ripristino della legalità, vita dignitosa per tutti, ripristino della sovranità
monetaria.
Andare verso il popolo
Il M5S incarna un sano spirito di rivolta
contro interessi e poteri cristallizzati, che bloccano l’Italia così come
Benevento, distinguendo “sommersi e salvati”, esclusi ed inclusi. Io rivendico
la radice “populistica” di questo impegno politico, come Dario Fo. Populismo
significa ascoltare i bisogni delle persone comuni. E rivendico la coralità del
mio impegno. «Mi rivolto dunque siamo».
Se dovessi scegliere uno slogan per
sintetizzare tutto ciò direi a ciascuno di voi e a ogni cittadino beneventano:
«You never walk alone». Questa città ha mostrato, proprio nella catastrofe
dell’alluvione, di avere ancora solide radici comunitarie, una preziosa risorsa
cui attingere.
Noi siamo una squadra
Marianna Farese, Vittorio Giangregorio e
Gerardo Mercurio godono della mia totale fiducia e stima. Abbiamo lavorato gomito
a gomito in questi mesi e in quelli precedenti, all’interno di un gruppo
plurale ma coeso. Abbiamo contribuito a redigere la Bozza di Programma che nelle prossime settimane tutti leggerete e
integrerete. Siamo lontanissimi dalle faide interne al PD, dalla lotta per il
potere senza esclusione di colpi proibiti a colpi di seggi unici. Se sarà uno
di loro a guidare la nostra lista alle amministrative io ci sarò con tutti il
mio entusiasmo, perché si vinca e si mandi via una casta di politici
professionisti che si è ingrassata su una città che andava in rovina.
Noi siamo una squadra. Insieme a tutte le
persone che sono alle mie spalle. Vedrete in questi giorni uomini soli al
comando: dall’usato sicuro (ma con un quarantennio di politica alle spalle non
sarebbe meglio parlare di politico “vintage”?) al giovane direttore d’orchestra
che stecca ad ogni esecuzione. Anche se accompagnati da frotte di cortigiani
plaudenti resteranno uomini soli. Noi qui ora siamo già una moltitudine coesa,
con un obiettivo comune, senza ambizioni personali.
Il mio impegno
Il mio impegno peculiare sarà quello di
ascoltare, in tutte le modalità possibili, le istanze che provengono “dal
basso”, di attuare una politica fortemente partecipata. Non abbiamo più bisogno
di “uomini della Provvidenza”, di special
one, ma di persone capaci di fare rete, di ascoltare, di cooperare.
Benevento rinascerà solo grazie ad uno sforzo collettivo e condiviso che metta
al centro poche cose essenziali: la tutela dell’ambiente, il corretto e
trasparente uso delle risorse pubbliche, la riduzione dei costi della politica,
l’aiuto sistematico alle famiglie e alle persone in difficoltà.
Non solo bisogna smettere di credere negli
uomini della Provvidenza con tutte le soluzioni in tasca, ma bisogna avere il
coraggio di affidarsi all’intelligenza collettiva e di trovare gli strumenti
perché essa si esprima. Se io sarò il candidato Sindaco sarò un Portavoce.
Portavoce di tre cerchi concentrici: il primo è quello degli attivisti del M5S,
cittadini attivi che condividono un programma che hanno contribuito a redigere,
il secondo è quello dei simpatizzanti del M5S, il terzo è quello di tutti i
cittadini beneventani. Se riusciremo in questi anni a sollecitare una
partecipazione attiva e critica dei cittadini, a prescindere dalle percentuali
di voto, avremo avuto un grande successo.
Concretezza e utopia
Il Comune di Benevento, gestito da
professionisti della politica pieni di ambizioni personali, versa in una
situazione disperata: il fallimento dell’Azienda dei Trasporti, AMTS, ne è
plastica dimostrazione, con le sue conseguenze drammatiche sui cittadini e sui
lavoratori dell’Azienda stessa. Dobbiamo essere onesti con noi stessi e con la
città, essere pragmatici e rimanere con i piedi per terra. Risanare non sarà né
facile né semplice. E quindi tutti noi siamo chiamati ad essere estremamente
realisti. Noi siamo capaci di riparare le buche e tenere le strade in ordine
perché non dobbiamo lucrare facendo la cresta sugli appalti.
Ma questo non basta. È necessario ricominciare
ad avere un sogno, che manca da troppi anni a Benevento. Gestire la mobilità
urbana non significa solo manutenere le strade ma ripensare daccapo tutto,
fornendo a ciascun cittadino la possibilità di spostarsi come meglio crede, a
piedi in bici, sui mezzi pubblici, solo in caso di necessità con la macchina
personale, e piantare alberi che depurino l’aria e molte altre cose ancora. Dobbiamo
essere, dunque, capaci di agire nell’immediato, con concretezza, ma anche di
aprire il futuro, senza paura. Lo dobbiamo ai nostri figli.
La rivoluzione gentile
Sono solito parlare di una “rivoluzione
gentile” che sta iniziando, qui ora. Un apparente contraddizione, un ossimoro?
No. Noi dobbiamo essere capaci di cambiare radicalmente questa città, dalle
fondamenta, ma farlo con la persuasione, invitando ciascuno ad assumersi le
proprie responsabilità, a reclamare diritti e a rispettare doveri.
Una rivoluzione gentile per persone concrete e
sognatrici, insomma: capaci di stare con la testa fra le nuvole ma con i piedi
ben piantati per terra.
Potremmo dire che Benevento ha vissuto una
notte buia e tempestosa.
Che il cielo era pieno di lampi...
ma ora, questa la mia certezza, verranno le
stelle.
(Hotel President, 21 febbraio 2016
Presentazione lista e programma M5S)
Ordine della vita
Alla
fine, quando tenti, per l’ennesima volta,
di
dar ordine alle cose della vita, ti accorgi
con
stupore che si tratta, in fondo, di pochi file,
qualche
foto veramente importante, due o tre date
imprescindibili.
Volendo basta una cartella per dir tutto,
anche
a caratteri grandi e interlinea uno e mezzo.
Benevento, 8 dicembre
2014
cultura, scuola e uomo nascente
La cultura della modernità tende a strutturarsi come luogo separato. La “castalia” (Hesse, Il
gioco delle perle di vetro) ne è fedele immagine, ma è solo un’impressione. In realtà la scuola stessa si sta adeguando rapidamente alle
richieste di una società che ha ben chiare le sue parole d’ordine. L’unità dei
saperi rischia di ridursi a al possesso di una grande capacità di adattamento,
quell’imparare ad imparare che
risulta fondamentale in un mondo che conosce repentine trasformazioni
produttive, e i cui presupposti di competenze e conoscenze i produttori non
vogliono accollarsi. Esistono esempi di sistemi formativi fondati sull’unità
dei saperi: penso all’Accademia platonica ma anche alle prime università. In
entrambi i casi si serviva la verità (nessuno risponda: quid est veritas? perché senza la tensione verso di essa crolla
l’idea stessa di sapere, di cultura). L’unica verità del nostro mondo, lo
ripeto fino alla nausea, è la produzione,
fondamento caduco il cui portato è sotto gli occhi di tutti. So che è vicino il tempo del tramonto della
“terra del tramonto”, l’Occidente mondializzato. Nel tramonto anche le
ombre dei nani sembrano quelle di giganti. Ma noi non vogliamo essere nani,
neanche sulle spalle dei giganti (immagine ricorrente nel Nome della rosa). Perché non essere giganti sulle spalle dei
giganti? Dare risposte forti ad un mondo che si accontenta di “pensiero
debole”, pensiero sfinito…
Il
mio compito non può che essere quello di additare i segni del tramonto necessario dell’Occidente e di ciò che
nasce di nuovo: «Porre fine a quell’eterno conflitto fra il nostro sé e il
mondo, ristabilire la pace delle paci che è più alta di ogni ragione,
congiungerci con la natura, con l’unità di un unico, infinito Tutto» (Hölderlin). Il Nascente solo può
costituire l’unità dei saperi, poiché la vita, nella sua potenza generatrice, è
olistica, organica. Contro il «fango delle cifre», il rapporto meccanico tra
“materie” morte al servizio della produzione della morte (psichica e fisica).
Perché il mondo non sia più la “terra desolata” di questo secolo:
Ciò che
chiamiamo il principio è spesso la fine
E finire è cominciare.
La fine è là donde
partiamo. E ogni frase
Ogni proposizione che
sia giusta (quando ogni parola è al suo
posto,
E fa la sua parte per
sostenere le altre,
La parola né diffidente né sgargiante,
Partecipe del vecchio
e del nuovo senza sforzo,
La parola comune
esatta senza esser volgare,
La parola formale
precisa ma non pedante,
In armonia perfetta, come compagni di
danza)
Ogni frase o
proposizione è una fine e un principio,
Ogni poema un
epitaffio. Ed ogni azione
È un passo verso il
patibolo, il fuoco, la gola del mare
O verso una pietra
illeggibile: e di lì incominciamo.
Noi moriamo con quelli
che muoiono:
Ecco, essi partono, e
noi andiamo con loro.
Noi nasciamo con i morti:
Ecco,
essi tornano, e ci portano con loro.
(T. S. Eliot Quattro quartetti)
[2000]
giovedì 25 febbraio 2016
Pater
Fui
un buon padre?
Solo
tu potrai dirlo: il resto
sarà
maldicenza o gloria vana,
inutile
orpello nel tempo finale,
quando
tutti saremo vagliati
per
pensieri, parole e omissioni.
Ma
so che in un luogo profondo di te
riverbera
ancora l’eco d’un canto
sgraziato,
assoluto, si spande l’odore
di
pelle che sposò la tua culla.
Sono
un uomo. La mia vita piena di sbagli.
Quando,
donna, li saprai uno ad uno,
giudica
con indulgenza,
e
cerca quella stanza dell’anima
dov’è
viva la voce che leniva
il
tuo pianto, ti guidava nel sonno
lungo
il mare della notte agitato.
Che
tanto di me rimanga.
Abbastanza.
San Cumano, 8 luglio
2014, al lume di candela
roma
Noi
abitiamo spazi creati per lo più dai romani e moltissime città italiane
conservano monumenti e tracce di quella Roma. Benevento è tra quelle città.
Ho
avuto la fortuna di ascoltare le lezioni (le ultime) di Santo Mazzarino e con lui di fare l’esame di storia romana. Ciò
nonostante continuo a nutrire fortissime resistenze nei confronti di questa
civiltà. Per la mia educazione cristiana? Per l’odio istintivo nei confronti
dei potenti? Non lo so, anche perché Roma, ad uno sguardo ravvicinato si frastaglia
nelle sue vicende e nei suoi usi. Continuo a credere che complessivamente la
cultura romana sia di gran lunga inferiore a quella greca. Anche quello che a
mio parere è il maggior autore latino, cioè Lucrezio, è debitore di Epicuro. Al di là di questo, ciò che mi
respinge della civiltà romana è il culto della forza che diventa imperialismo.
Certo, ho letto le Memorie di Adriano
della Yourcenar: grande libro che
apre molti squarci su quel mondo. Ma, ad esempio nella vicenda degli Ebrei, non
cogliamo quello spirito di conquista, pure magnanimo, ma comunque di conquista
che non tollera alcuna autonomia? Probabilmente è un mio limite, da superare
con studi approfonditi: forse se riuscissi a leggere quella romana come una civiltà tradizionale, a coglierne prioritariamente
la pietas che ne domina i
comportamenti, il senso del sacro che la pervade, potrei smettere di credere,
come Simone Weil, che quasi tutto
sia spregevole in quella civiltà («I romani erano un manipolo di fuggiaschi
conglomerato artificialmente in una città; ed essi hanno strappato alle
popolazioni mediterranee la loro vita, la loro patria, la loro tradizione» (La prima radice, p. 52). Fino ad ora non
ci sono riuscito. La mia impressione complessiva è comunque di una distorsione,
di cui io stesso sono stato vittima, dei valori di quella civiltà. So, però,
nei confronti di quale retaggio romano sarei critico: sicuramente la centralità
dell’organizzazione militare (giustificata inizialmente da guerre difensive ma
poi divenuta strumento di una politica imperialistica). Cosa valorizzare?
Sicuramente la percezione del romano antico di vivere in una città abitata dagli dei, poi la tolleranza nei confronti delle altre civiltà e il rigore nel codificare i rapporti, i valori tradizionali come la pietas esemplificata dall’Enea di
Virgilio «che in spalla / un passato che crolla tenta invano / di porre in
salvo, e al rullo d’un tamburo / ch’è uno schianto di mura, per la mano / ha
ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto» (Giorgio Caproni, Il passaggio
di Enea). Ancora e sempre, comunque, cercare ciò che può tornare a vivere,
abbandonando una prospettiva archeologica e antiquaria, la stessa che colpì
negativamente il giovane Leopardi nel suo soggiorno a Roma: vi cercava gli
antichi valori e la virtus degli eroi
e vi trovò discussioni di vecchi ammuffiti.
mercoledì 24 febbraio 2016
democrazia
«La razionalizzazione totale e la
modernizzazione in cui si incarna, esige, in particolare, una nuova
collocazione delle masse: una permanente mobilitazione che operi uno
sradicamento assoluto. Ogni individuo
deve essere strappato a ogni tradizione, a ogni consuetudine, a ogni forma di
vita consolidata e deve mettersi a disposizione del meccanismo della generale
permutabilità. La razionalizzazione deve essere integrale, deve
neutralizzare ogni significato che non sia la crescita della produzione e la
competizione per l’accesso a una quota di ricchezza [...]. La vita è trasformata in corsa, l’energia vitale in carburante per
conseguire il possesso e il consumo di oggetti nella maggior quantità
possibile. La meta è sempre oltre, il
desiderio non può mai essere saziato, il processo della razionalizzazione
deve strutturarsi come pura processualità sciolta da vincoli e da condizionamenti
passati o futuri: ciò che conta è che le
aspettative crescano, che non si fermi mai la corsa.
L’individuo è trascinato come da un fiume in
piena, dalla potenza della ratio
produttiva. Perciò debbono essere strappate le radici della individualità e
della socialità tradizionali: la tradizione, il passato debbono essere
distrutti. Ma anche il futuro non può essere oggetto di “rappresentazione”, di
progetto. La ratio produttiva non ha
tempo, o meglio ha il tempo astratto dell’attualità permanente, della precarietà
della moda».
Così scriveva alcuni anni fa Pietro Barcellona in Lo spazio della politica (Editori
Riuniti). Come può, mi dico la scuola, essere palestra di democrazia, stante
l’assolutezza di questo valore, che pure oggi potrebbe essere messo in discussione
(e penso alla dichiarazioni di Soros
sul “totalitarismo del capitale”)? Da questo punto di vista credo che solo
l’uso consapevole di una didattica
democratica possa essere utile come responsabilizzazione all’impegno politico.
Intendiamoci: non mi faccio illusioni. La società odierna non ha bisogno di
spiriti critici ma solo di cervelli brillanti, non di “tafani” ma di brillanti
sofisti, imbonitori politici e televisivi. Non credo che ci saranno molti spazi
operativi (anche perché il “micropotere” dà alla testa anche alle persone
apparentemente più sobrie: potrei ritrovarmi tra vent’anni ad essere un docente
autoritario!). Vorrei educare i ragazzi ad acquisire il punto di vista della Arendt, la cui proposta consiste in una riabilitazione del politico, inteso come
“spazio pubblico” di azione e di libertà. La politica non è da lei intesa più
come lotta per il potere, ma come “modo di espressione di sé” e della propria libertà.
E che cos’è la libertà? «Il miracolo della libertà è insito in questo
saper cominciare, che a sua volta è insito nel dato di fatto che ogni uomo, in
quanto per nascita è venuto al mondo che esisteva prima di lui, e che
continuerà dopo di lui, è a sua volta un
nuovo inizio». Questo vorrei insegnare
ai miei allievi: a non credere
nell’immutabilità del mondo (come la mia generazione credeva nell’eternità
dell’URSS). Ciascuno di loro dovrà sapere - proprio perché “neo-nato” - che ha
la potenzialità di dare nuova nascita al mondo: «Come vivere senza
ignoto dinanzi? Gli uomini d’oggi vogliono che il poema sia a immagine della
loro vita, fatta di così poco rispetto, di così poco spazio, e bruciata
d’intolleranza. Perché non è loro più lecito agire supremamente, nella
preoccupazione fatale di distruggersi distruggendo il prossimo, perché la loro
inerte ricchezza li frena e li incatena, gli uomini d’oggi, affievolitosi
l’istinto, perdono pur conservandosi vivi, persino la polvere del proprio nome.
Nato dal richiamo del divenire e dall’angoscia della ritenzione, il poema,
sorgendo dal suo pozzo di fango e di stelle, testimonierà, pressoché in silenzio,
che nulla era in lui che già non fosse esistito realmente altrove, in questo ribelle
e solitario mondo delle contraddizioni» (René Char).
Attraverso la bellezza
(che è verità) scopriranno di poter trasformare il mondo, temprando qualunque
tentazione demiurgica nella scoperta della vera
presenza dell’altro in una dimensione politica vissuta come libera scelta:
«Il suggerimento indistinto di una libertà
smarrita o da riconquistare - l’Arcadia dietro di noi, l’Utopia davanti a noi -
bussa alla soglia più remota della psiche umana. Questo pulsare fantomatico sta
al cuore delle nostre mitologie e concezioni politiche. Siamo creature
frustrate e consolate a un tempo dal richiamo di una libertà appena fuori della
nostra portata. C’è un campo in cui questa esperienza di libertà si dispiega.
C’è una sfera della condizione umana in cui essere significa essere liberi. È la sfera del nostro incontro con la
musica, con l’arte e la letteratura» (Steiner).
Simone Weil è probabilmente la pensatrice cui più mi sento vicino in
questi ultimi anni, per il suo percorso sempre aperto, per il suo sforzo di
coniugare un impegno politico mai dogmatico, scaturente dalla compassione per
la sofferenza degli esseri, con una tensione spirituale altissima, anch’essa
non dogmatica ma aperta ad ogni linfa vitale delle tradizioni religiose. Per
questo mi piace concludere con una sua citazione, che afferma la necessità di
un impegno individuale nel passaggio di millennio che stiamo attraversando:
«Viviamo in un’epoca che non ha precedenti, e nella situazione presente
l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve ora essere
totalmente esplicita. Il linguaggio e tutto il modo d’essere ne devono essere
impregnati.
Oggi non è sufficiente esser santo: è necessaria la
santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza
precedenti […].
Un nuovo tipo di santità è qualcosa che scaturisce
d’improvviso, una invenzione. Fatte le debite proporzioni, mantenendo ogni cosa
al proprio posto, è quasi un fatto analogo a una nuova rivelazione
dell’universo e del destino umano. Significa mettere a nudo una larga porzione
di verità e di bellezza sino ad ora
nascosta sotto uno spesso strato di polvere. Esige più genio di quanto sia
occorso ad Archimede per inventare la meccanica e la fisica: una santità nuova
è un’invenzione più prodigiosa».
martedì 23 febbraio 2016
Spiga di carne
La spiga
nutrita di sole
ritesse la
mano e i suoi solchi
bruniti.
Se
l’uomo e la donna
la
carne e la terra rilegano
lì
della semina è vera custodia.
Sepolta
speranza che un’umida
messa attende
dal cielo.
(Nel 2014 sono stato invitato a partecipare ad una suggestiva manifestazione in provincia di Avellino. Ho contributo con una poesia nata a partire da questa fotografia)
analisi del testo
Mi ha colpito che per
la preparazione del concorso [quello del
2000] si siano utilizzati testi scritti quindici, venti anni fa. Dieci anni
fa, quando ero alla facoltà di Lettere della Sapienza, circolavano per gli
esami di letteratura contemporanea i testi di Paul de Man, capofila del decostruzionismo
americano. Oggi, nel nuovo millennio, devo ritrovarmi il ciarpame prodotto
da menti sterili? Come direbbe il professor Keating, facendo strappare l’orrida
introduzione all’antologia letteraria dei suoi alunni in Dead poet’s society (L’attimo
fuggente di Peter Weir), «strutturalisti
e semiologi, andate con Dio». In ogni caso ho lavorato (ho dovuto lavorare!)
per acquisire tali strumenti, sapendo però che sono strumenti, utili come
altri, ma che se diventano fine
(questo è ciò che accade) degenerano. L’analisi o diventa uno sterile esercizio
di abilità o un divertente gioco. In ogni caso viene eluso l’incontro reale (nel senso steineriano),
che presuppone un “mettersi in gioco” radicale: «Sono il poeta, il compositore,
il pittore, sono il pensatore religioso e metafisico, quando danno ai loro
riscontri la persuasività della forma, a insegnarci che siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione.
Ci parlano del peso irriducibile dell’alterità e della clausura inerenti alla
materia e alla fenomenalità del mondo fisico» (G. Steiner, Vere presenze, p. 137). I poeti (e gli scrittori in genere, quelli
veri, non, dico, un Umberto Eco), vogliono essere presi sul serio, perché hanno
investito la vita nella propria opera. È
casuale che alcuni grandissimi scrittori siano impazziti? Non è vero che hanno
messo in moto forze psichiche che normalmente restano assopite? Allora, via
anche dalle scuole l’idea della letteratura come lusus, senza spirito totalitario. La poesia è un luogo rivelativo della verità, ma della verità non
come dato di cui potersi impadronire (a questo si avvicina invece l’idea di
un’analisi “rigorosa”, scientifica), bensì della verità come evento, che
presuppone un rapporto vivo nel gruppo-classe tra il maestro e gli allievi. E
prima di tutto, mi sia consentito, la verità della poesia (la promessa della
verità) è nella rottura del ritmo ordinario, “prosaico”. Ho conosciuto
pochissimi professori che sapessero leggere poesia. Io credo (e questo, per
fortuna, l’ho visto sottolineato nel documento sui Saperi di base) che la poesia debba essere prima di tutto eseguita come una partitura musicale. In
questo prima il docente deve essere bravo e poi deve saper spingere il suo
gruppo a seguirlo. Solo in questo modo il “significante” (!!!) diventa
significativo. Gli antichi ben conoscevano l’importanza di quello che Dante
chiama nel De vulgari «legame musaico».
La dissoluzione novecentesca del verso non ci autorizza a trascurare
quest’aspetto (così come la dodecafonia non è la fine della musica o
l’astrattismo della pittura). Dischiude un altro mondo. Ma a questo dobbiamo
educare: ad essere buoni lettori in un mondo in cui non esiste più un “canone”
(malgrado l’eroico tentativo di Harold
Bloom).
Tutto
questo presuppone un amore vitale per la letteratura (continuo a chiamarla così
per comodità) che spesso manca in chi dovrebbe trasmettere. La mia unica
ambizione è creare liberi lettori,
persone che fanno della lettura uno strumento di orientamento nelle proprie
vite, non eruditi o bibliofili. Anche una certa anarchia nella lettura, dunque,
come quella prospettata da Daniel Pennac
in Come un romanzo, può essere
strumento inizialmente utile. Sicuramente una didattica democratica deve
educare alla pluralità delle possibili interpretazioni senza cadere nella
deriva ermeneutica (Derrida e i decostruzionisti).
Marco Guzzi è un
poeta tra i maggiori di questi anni (anche se immagino, come tutti i poeti
italiani al di sotto dei settant’anni, conosciuto da pochissimi). Nel mio
percorso l’incontro con lui è stato senz’altro decisivo: ha avviato una
riflessione tuttora in atto. In particolare mi ha educato ad una nuova capacità
di ascolto di un pensiero poetante che abbia come fine la vita “antropocosmica”,
in una prospettiva davvero “olistica” (d’altronde «Olis» si chiamava la rivista
da lui diretta per un anno). Credo che in esperienze intellettuali e spirituali
come le sue stia nascendo qualcosa di nuovo in una cultura per lo più
putrescente. Concludo questa voce con le sue parole: «Il nostro pensare,
dunque, il nostro conoscere è creativo, e la gioia, come mistero spesso velato della nostra vita, suo
interiorissimo segreto, si manifesta in noi proprio come creatività libera,
come poeticità, se lasciamo
risuonare questa parola come non risuona da millenni, o forse, più
precisamente, come mai ha potuto risuonare finora.
L’uomo è l’essere che crea.
L’essenza dell’uomo è poetica.
L’uomo è l’essere che canta
la fioritura sempre nuova del creato.
L’uomo
è il cantore che cantando crea, procrea, e che conoscendo produce ciò che
conosce, come il musicista conosce la propria musica solo creandola, e la può
creare solo se la conosce, secondo una modalità però intuitivo-auditiva della conoscenza, che è essenzialmente ascolto poetico. Conoscere è creare, ma
questa conoscenza produttiva (Char) è in realtà un filtrare luce-vita-verità
nel più perfetto e puro ascolto, e cioè in un atteggiamento di ricezione. Non
c’è una libertà d’arbitrio nella conoscenza creatrice; ma una libertà d’amore,
che si realizza in un rapporto stringente, ma non costringente, con la sorgente
dei doni. La creatività di cui parlo non è arbitraria, è la modernità che a
volte si è illusa che l’uomo potesse creare dal nulla o a proprio piacimento.
L’uomo al contrario può creare soltanto in una grande fedeltà di ascolto,
proprio come l’atto poetico ci insegna» (2000).
lunedì 22 febbraio 2016
Ringraziamento
Rendere
grazie voglio per ogni nuovo inizio,
per
la casa che sorge dov’erano rovi,
per
l’ovulo da cui principia
il
miracolo di un’altra vita,
per
l’attimo in cui appare
nell’anima
al riparo dalla chiacchiera
la
decisione, ma come un accadere
dall’alto,
una svolta inattesa e sperata
che
purifichi la vista e l’ascolto.
L’uomo
antico ben dentro la carne permane.
Ma
gioisce nell’intimo, lo so,
attendendo
fremente la sua benedizione.
(Benevento,
27 aprile 2014)
sabato 20 febbraio 2016
come divenni un Cinque Stelle...
«Grillo e la rete da lui creata occupa un duplice
spazio.
Il primo è quello della denuncia della "democrazia
dimidiata" presente in Italia. Non ci si faccia ingannare dalle forme,
dai "vaffa...", scambiandoli per qualunquismo o populismo. Grillo è
rimasto l'unico, nella campagna elettorale soft, a gridare con la necessaria
indignazione che l'Italia non è un paese democratico, che in nessun paese del
mondo il padrone dei media in Italia potrebbe fare politica, che la legge
Gasparri è un'aberrazione intollerabile. La sinistra si è limitata a rimuovere
il problema, come un fastidio. La denuncia del Parlamento italiano come
ricettacolo di condannati è il secondo punto di forza della sua denuncia. Anche
qui, come si fa a non considerare questa una battaglia della sinistra? Come è
tollerabile che il Presidente del Consiglio sia il mandante della corruzione
che ha portato l'avvocato Cesare
Previti in galera? Per non
parlare delle battaglie ambientali contro inceneritori e nucleare, a favore di
energie alternative.
Il secondo
spazio occupato da Grillo, a
livello metodologico, è quell'immenso territorio disertato dalla sinistra
classica: la rete, con il suo blog. Grillo sta indicando una via
possibile di azione politica che utilizza il mezzo più avanzato della terza
rivoluzione industriale. Anche qui, come non capire che questo spazio va agito,
che rompe le forme classiche dell'aggregazione politica ma offre inaudite nuove
possibilità di agire collettivo? Perché tanta spocchia, tanto sprezzo per le
migliaia di persone che vanno ai "comizi-spettacolo" e, attraverso la
rete, agiscono, raccogliendo firme, organizzando campagne di boicottaggio o,
semplicemente, informandosi in maniera alternativa, costruendo informazione?
Non è scandaloso che l'oltre milione di firme raccolte il 25 aprile sia stato
relegato dal «Corriere» e da «Repubblica» in un trafiletto di dieci righi?»
(2008)
* * *
«Perché
non accettare che, come scriveva già diversi anni fa Marco Revelli, siamo
“oltre il Novecento”, le sue categorie politiche, le sue forme organizzative?
Da questo punto di vista il “grillismo” ha per primo intuito che la Rete
modifica radicalmente le pratiche politiche perché consente tre cose: 1)
informazione (anche “orizzontale”, quindi non filtrata da “agenzie” che spesso
sono espressione di potentati economici, ad esempio, Mediaset a destra e il
gruppo Espresso a “sinistra”); 2) trasparenza; 3) decisioni condivise. Dunque,
la rete – che Rifkin considera lo strumento “mediatico” della rivoluzione in
atto, rivoluzione energetica, politica e culturale nello stesso tempo –
costringe a ripensare la politica nei suoi contenuti e nelle sue forme
organizzative, rendendo possibile un inedito intreccio di democrazia “diretta”
(impraticabile nella sua forma pura, auspicata dalla Arendt, ad esempio, su
scala nazionale o transnazionale) e democrazia rappresentativa. Quando Grillo
rivendica, ricordando gli Stati Generali dell’89 francese, “una testa, un voto”
non sta forse dicendo che è finito il tempo delle deleghe in bianco? Che questo
tempo richiede cittadini consapevoli e attivamente partecipi della cosa
pubblica? Che si è esaurita l’illusione di presunti “tecnici”, filosofi-re,
esperti cui delegare le decisioni in campo energetico, economico, sociale? La
rete (che significa diffusione del sapere + interazione tra i soggetti, cioè
fine del monopolio dei saperi + verticalismo) sta plasmando nuovi cittadini.
Che c’entra il qualunquismo con tutto questo? Basta conoscere anche
superficialmente la storia del movimento di Giannini per capire che la comune
provenienza sua e di Grillo dal mondo del teatro non giustifica alcun
parallelismo. In un linguaggio spesso “basso” e stonato, Grillo dice da anni
cose innovative, avendo intuito non solo i mutamenti in atto nel mondo politico
ma anche l’incapacità strutturale del ceto politico italiano di
autoriformarsi.» («Messaggio
d’oggi», maggio 2012)
* * *
«Sono
convinto che in questa fase storica il M5S ha evitato una disastrosa deriva
neofascista in Italia (come, invece, accaduto con Alba dorata in Grecia).
Effettivamente il M5S ha dato rappresentanza al disagio spaventoso che percorre
la nostra penisola a causa della crisi economica europea e della sua scellerata
e colpevole gestione da parte delle classi dirigenti del continente, con
gravissime responsabilità dell’ultimo governo Berlusconi, nel caso dell’Italia»
(aprile 2013).
* * *
«Quali gli
elementi di novità che coglie nel Movimento?
Due in
particolare. Prima di tutto il superamento della forma classica, novecentesca
di organizzazione, in nome di una valorizzazione dell’attivismo civico (e,
dunque, il rifiuto del professionismo politico). Il Movimento non chiede delega
ma impegno diretto a partire da istanze territoriali. Poi un ecologismo
“radicale” ma capace anche di tradursi in scelte concrete (ieri c’era,
all’incontro, una macchina ibrida all’idrogeno... cose di cui Grillo parlava
nei suoi spettacoli già dieci anni fa)» (marzo 2014).
* * *
«Perché
voterò il Movimento 5 Stelle.
Risposta
complessa : a) (morale) perché è l’unico soggetto politico che fa della
“questione morale” una bandiera; b) (politica) perché è l’unico soggetto che si
sta ponendo seriamente il problema del rinnovamento delle forme della politica
e del superamento della forma-partito (e delle sue storture), coniugando
presenza sul territorio e uso innovativo del web; c) (economico-sociale) perché
è l’unico soggetto politico consapevole della drammaticità della crisi in atto,
che necessità di risposte radicali (ad es. il reddito di cittadinanza), e,
soprattutto, a livello europeo, della rinegoziazione della nostra permanenza
nell’UE; d) (economica) perché è l’unico soggetto politico in cui parole come
“decrescita conviviale” hanno cittadinanza» (maggio 2014).
venerdì 19 febbraio 2016
In/sorgente
[INSORGENTE
OGNI MATTINA
CONTRO IL NIENTE]
Sole/Padre, fendi le
pietre
dell’oscura prigione.
Acqua/Madre, scorri
nell’arido legno del
corpo.
L’orecchio sfibrato si
tenda
a ciò che deflagra,
lo sguardo sul punto
efesino in cui tutto
oscura-
mente si tiene.
[OGNI MATTINA
IN SORGENTE
ALLA NOTTE
IMMEMORE]
La legge
sottesa alla natura
rerum reclama anche te.
Amala
senza riserve.
pensiero meridiano
Siamo davanti ad un
vaso, della preziosa collezione di vasi del Museo. Ce ne parla Mario Rotili in questo libro che
custodisco gelosamente. Tracce dell’antico Sannio, molto esteso
geograficamente.
Sul vaso la
rappresentazione di un “simposio”. Se guardate lo schermo vedrete scorrere la
ricostruzione che ne ha fatto Marco
Ferreri nel 1988, con Irene Papas, tra gli altri.
Presso i Greci e i
Romani, il simposio era quella pratica conviviale, che faceva seguito al
banchetto, durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del
simposiarca, intonavano canti conviviali (skólia),
si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze,
conversazioni, giochi ecc.). La parola indica il bere (posin) insieme (syn).
Sarebbe interessante ripercorrere il nesso fra spiritualità, filosofia e
letteratura intorno alla tavola, da Platone ai Vangeli, da Dante a Caravaggio. George Steiner ci ha lasciato un
memorabile saggio (Due cene) di
raffronto fra il simposio descritto da Platone e l’ultima cena di Gesù. Ma io
vi parlerò, come avete capito dalla lettura di Valentina Gaudini, solo di Platone,
che stasera domina incontrastato.
Platone ci ha lasciato
un’opera intitolata Symposion,
tradotta talvolta anche, estensivamente, con il termine Convivio o Banchetto. In
realtà il termine greco è preciso e tecnico: nel simposio non si mangiava, si
beveva. Al centro vi era, dunque, una bevanda non solo sacra a Dioniso, dio del
vino, ma fulcro, insieme al pane e all’olio, della civiltà alimentare
mediterranea, come insegna Massimo
Montanari in La fame e l’abbondanza.
Quest’opera è davvero
strana. Malgrado abbia avuto un enorme influsso su tutta la cultura occidentale
e sia impensabile l’intero Rinascimento e il cosiddetto neoplatonismo (da
Ficino a Pico della Mirandola, passando per Botticelli) senza di essa, appare
difficilmente integrabile in un eventuale “sistema” platonico.
Lasciatemi, almeno di
passaggio, omaggiare stasera, a nome di tutta la Libera Scuola di Filosofia del
Sannio, uno studioso che ha dedicato tutta la sua vita alla filosofia, in
particolare a quella platonica e in particolare all’opera di cui parleremo
stasera. Parlo di Giovanni Reale,
scomparso l’altro ieri. Possiamo non essere d’accordo con lui, e non lo siamo
su molte cose. Ma fino all’ultimo giorno egli si è dedicato con amore a quello
che Dante chiama nel Convivio “pane
degli angeli”. Un modello per tutti coloro che amano questa disciplina.
Consentitemi una
parentesi. Platone è l’oggetto “perfetto” per l’esercizio dell’attitudine
ermeneutica (termine che deriva dal nome di un’altra divinità, dopo
Atena/Minerva, Hermes). Il corpus platonico si presta alle più svariate
interpretazioni per le sue incredibili ambiguità, esattamente come la figura di
Socrate ci pone, al pari di quella di Jehosua, una “vita” da interpretare e
reinterpretare continuamente. Non entrerò in questo ginepraio. Diciamo che la
tendenza scolastica è quella di “ridurre” Platone a sistema mettendo al centro
la cosiddetta “teoria delle idee”, degli archetipi. Ebbene, in questo sistema
il Simposio appare poco integrabile.
Mentre il Platone che potremmo definire “maior”, sistematico (ripeto: si tratta
di una semplificazione storiografica ma è quella che molti di voi hanno
introiettato) definirebbe una via maestra alla conoscenza, alla liberazione
dalle tenebre della caverna, che passa attraverso una ridefinizione della
“filosofia” (amore per il sapere) in vero è proprio sapere (la conoscenza delle
idee perfette e immutabili), via aristocratica, percorribile da pochi, lunga e
faticosa, bisognosa di una scuola diremmo oggi di specializzazione che fu l’Accademia,
il Simposio, al contrario,
democraticamente, immagina che esista una via aperta a tutti per elevarsi alla
dimensione ideale. Ma questa via, ed è elemento fascinoso del libro, viene
spiegato ad un Socrate letteralmente “ignorante” da una donna, l’unica donna
della filosofia greca, fatta salva l’austera e tragica figura di Ipazia di
Alessandria, neoplatonica barbaramente uccisa e fatta a pezzi (fu scorticata fino alle ossa, forse usando
gusci di ostriche) dalla
comunità cristiana aizzata dal vescovo, san Cirillo... La filosofia,
permettetemi l’ennesima breve digressione (ma stasera sarò digriediente) è tutta maschile. Luce Iragaray ci ha illuminato
sulla dimensione “fallica” del pensiero filosofico che sarebbe, proprio con il
Platone “maior” e il suo mito della caverna, volontà di emanciparsi, per
sempre, dall’utero, dal grembo materno andando verso il cielo, verso il sole,
verso l’Iperuranio...
Torniamo a Diotima...
sacerdotessa di Mantinea che introduce uno sprovveduto Socrate agli ultimi
misteri d’amore... La sacerdotessa prima di tutto ribalta la visione
tradizionale dell’Eros, che, con una serie di varianti, troviamo nei discorsi
raccontati da Platone (quelli di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane e
Agatone). Eros non è un dio ma un demone. La parola evoca, giustamente, nel
nostro cervello “cristianizzato” fiamme infere, forconi, Cagnaccio,
Barbariccia, a qualcuno Geppo o Spawn... Invece per i Greci il “daimon” è un «essere divino» che si pone a metà strada
fra ciò che è Divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediare tra
queste due dimensioni, per questo rappresentato con le ali. Diotima insegna a
Socrate che tale natura ibrida deriva ad Eros dall’essere figlio di due
divinità con caratteri antagonisti. Dai genitori Eros ha ereditato un anelito a
qualcosa che non ha... Alla bellezza...
Se Eros non è un dio a lui non dobbiamo
obbedienza o venerazione, come voleva la tradizione. Esso, fuor di metafora,
non è qualcosa che ci domina dall’esterno facendo di noi dei burattini nelle
sue mani, come l’Elena descritta nel famoso Encomio
di Elena del sofista Gorgia. «Amor vincit omnia e nos cedamus amori», come
scrive amaramente il Virgilio delle Bucoliche.
No, Eros è una forza che ci abita e che può spingersi alle più alte vette della
conoscenza, ai più intimi segreti del mondo. Questa conoscenza amorosa è
raccordo fra cielo e terra, fra umani e divini, come direbbe Martin Heidegger.
E sì, alla fine potrà portarci all’idea, alla somma idea, ma partendo sempre
dal mondo dalla sua sensuale bellezza...
Ma nel passo che Valentina ha letto c’è
un passaggio delicato e prezioso su cui vorrei riflettere con voi... Vi si dice
che Eros passa tutta la vita ad amare la sapienza. Il testo greco dice,
ovviamente, “philosophos”. Eros è filosofo... Che significa questa sconcertante
affermazione? Non siamo abituati a pensare, forse distorcendo lo stesso
messaggio gesuano in un cristianesimo ascetico, sessuofobico e dualistico
(quindi in fondo gnostico) che l’eros e la filosofia non possono andare
d’accordo? Che la filosofia è liberazione dalle passioni? Quello che vorrei
comunicarvi stasera, in fondo, ha molto a che fare con il mio lavoro, con il
nostro lavoro, se Amerigo mi consente, avendo con lui un rapporto che trascende
l’amicizia e la condivisione quotidiana nella scuola. Io e Amerigo abbiamo
sempre concepito la nostra attività, il nostro insegnamento, sulla scorta di
questo Platone simposiaco, diotimeo,
come un’attività, e spero di scandalizzare i benpensanti, “erotica”. Il motore
della paideia può essere solo l’amore. Possiamo illuderci, ogni giorno daccapo,
di avviare i ragazzi che ci vengono affidati lungo la via del sapere solo se li
amiamo nella loro fragilità, nella loro ignoranza spesso abissale. E questo è
il motore della paideia perché, nel profondo, è la radice stessa della
philosophia. Eros, dice Platone, è filosofo perché ama la sapienza, e la ama
perché non la possiede. Solo gli dèi sono sapienti e non hanno bisogno di
conoscere null’altro. Il filosofo, mosso dall’eros, è colui che sempre sa di
non sapere e dunque anela a sapere, sapendo che non potrà mai sapere una volta
per sempre. Questa è l’unica “sapienza” che possiamo sperare di inoculare,
eroticamente (dunque attraverso l’esempio e la presenza: per questo la scuola
non può essere semplicemente sostituita dalla tecnica), nei nostri allievi. Che
la ricerca non avrà mai fine, ma che, nello stesso tempo, il desiderare stesso
la sapienza mai raggiungibile (altrimenti diventeremmo dei... non è forse il
sogno prometeico e faustiano della scienza moderna?) è bello e godibile in sé.
Il vero sapere, come anelito al sapere, è un fine in sé.
Il vaso, il simposio, Platone, Eros, la
filosofia, la paideia... Massimo Recalcati ha pubblicato un libro la cui
lettura vi consiglio vivamente... Io l’ho preso nella versione digitale. Se la
tradizione e la rivoluzione, come scrive Cassano ne Il pensiero meridiano
devono essere coniugate, noi per primi dobbiamo imparare a far incontrare
nuzialmente questo manufatto in cui affondano le nostre radici e quest’altro,
in cui ci sono le chiome... Il libro si chiama L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. Leggiamo:
«Nell’epoca
dell’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica è ancora possibile
una parola degna di rispetto? Cosa può restare della parola di un insegnante o
di un padre nel tempo della loro evaporazione? La pratica dell’insegnamento può
accontentarsi di essere ridotta alla trasmissione di informazioni – o, come si
preferisce dire, di competenze – o deve mantenere vivo il rapporto erotico del
soggetto con il sapere?
È un bivio
culturale con il quale siamo confrontati. Ma per scegliere la via
dell’erotizzazione del sapere occorre che l’insegnante sappia preservare il
giusto posto dell’impossibile. È il tratto che contrassegna ogni trasmissione
autentica: la trasmissione del sapere di cui la Scuola si incarica a ogni
livello, dalle scuole elementari sino a quelle post-universitarie, non è la
chiarificazione dell’esistenza o la riduzione della verità a una somma di
informazioni, ma la messa in evidenza di come ruoti attorno a un impossibile da
trasmettere. Il maestro non è colui che possiede il sapere, ma colui che sa
entrare in un rapporto singolare con l’impossibilità che attraversa il sapere,
che è l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Non perché non esista una
Biblioteca delle Biblioteche capace di raccogliere tutto il sapere, ma perché,
anche se esistesse e se leggessimo ogni suo libro, non avremmo affatto risolto
il limite che attraversa il sapere come tale. Il sapere non si può mai sapere
tutto perché è per sua struttura bucato, non-tutto, impossibile. Uno scarto
irriducibile lo separa dal reale della vita. Si deve dire allora che un
insegnamento ha come tratto distintivo il confronto con il limite del sapere
attraverso il sapere, mentre il maestro che mostra di possedere il sapere può essere
solo una caricatura risibile del sapere».
Chiudo questa breve riflessione andando
all’inizio del testo letto...
Vi si dice, ricordate, che Eros svolge
una doppia funzione di intermediario, di “pontefice”. Fa da tramite fra gli
uomini e gli dèi e lega le due regione del mondo, quella celeste e quella
terrena, «cosicché il tutto risulta collegato con se stesso». Ebbene, in queste
due brevi notazioni possiamo trovare preziose tracce per la nostra ricerca e
per il nostro agire. Da una parte dobbiamo sempre ricordare che una parte di
noi è connessa con il divino, attraverso forze mediatrici. Lo stesso Socrate
evocava spesso il “daimon” che abitava in lui e gli suggeriva cosa non fare.
Dall’altra il Platone “minore” e sublime del Simposio ci dice, in questo tempo
rischioso di distruzione sistemica dell’habitat naturale, che il tutto è
collegato. Eros, dunque, oltre ad essere possibile traccia delle nostre
filosofie e delle nostre pedagogie può essere la guida celeste per le nostre
etiche e per le nostre politiche.
(Intervento tenuto nel Museo del Sannio il 17 ottobre 2014 all'interno del Festival filosofico "Sophia" organizzato dalla Libera Scuola di Filosofia del Sannio)
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