La rosa mi è cara per molti motivi. E poesie
sulla rosa le custodisco nel cuore. In particolare un distico di Angelus Silesius («La rosa è senza
perché fiorisce perché fiorisce»). Alla lettura del romanzo di Eco ero riuscito
a “scampare” per molti anni dalla sua uscita. Come un asinello, dovetti
abbassare le orecchie per un’abilitazione riservata nel 2000, e leggere,
sperimentando la verità di una massima di Voltaire, e cioè che i libri più
utili per noi sono quelli che non ci piacciono. Proverò a spiegare il perché.
Chi è Umberto Eco?
Malgrado quello che ha scritto in un suo saggio (raccolto in Un altro Novecento, La Nuova Italia) il
mio professore di italiano Alberto Asor
Rosa, e che cioè Eco è «un medievale nato per sbaglio nel nostro tempo», io
credo che sia proprio l’opposto. Eco è un moderno (anzi un “novissimo”) che
applica al Medioevo categorie moderne. Non voglio dire che l’unica possibilità
di comprendere un’epoca sia quell’immedesimazione di cui parlava la scuola
storicista tedesca, ma mi sembra che la “vulgata” sul Medioevo che esca dal
romanzo dimostri un'incomprensione radicale di ciò che il Medioevo volle
essere. L’operazione di Eco, a livello contenutistico, è quella di vedere in
quel mondo ciò che ha anticipato il nostro, quello attuale, considerando il
resto retaggio da superare. La premessa non esplicitata è che il nostro sia,
comunque, il mondo migliore della storia dell’umanità, cosa ribadita in vari
scritti dal professore. In una prospettiva “evoluzionistica” il Medioevo appare
pieno di promesse mantenute dall’epoca successiva, in particolare da una
scienza libera da superstizione e al servizio dell’uomo. La posizione di Eco è
quella di Francesco Bacone e della sua utopia tecnologica. Se qualcosa, invece,
il secolo appena finito ci ha insegnato è che “il sogno della ragione genera mostri”. Non credo di dover
giustificare questa affermazione. È l’uomo prometeico che ha reso la
terra invivibile, minaccia di distruggerla, vive nella totale alienazione. Svevo nella straordinaria conclusione
del suo capolavoro parla di “occhialuto animale” per sottolineare che il
destino dell’uomo si è deciso nel momento in cui ha smesso di adattare il suo
organismo all’ambiente e ad agire “tecnicamente” (sarà un caso poi che
Guglielmo usa gli occhiali e li vanta come grande progresso dell’uomo?). Credo,
dunque, che il punto di vista, la prospettiva, sia decisiva nella lettura del Nome, come di ogni altro romanzo che
abbia un’ambizione enciclopedica e totalizzante (pur camuffandosi da raffinato
gioco letterario). E io rifiuto in toto quella prospettiva
neoilluministica, erede di quella cultura che ha “occidentalizzato” il
mondo, sottomettendo tutto ad un “centro” invisibile, la produzione, l’economia
sganciata da qualunque reale esigenza umana. Il destino dell’umanesimo e
dell’illuminismo (la sua “dialettica”, adornianamente) è quella non solo della
“strage delle illusioni” ma di una ben più concreta distruzione, delle terre,
degli uomini, dei rapporti, della psiche: «la
terra illuminata splende all’insegna di trionfale sventura»
(Horkheimer-Adorno). Il centro della civiltà medievale e di altre civiltà
“tradizionali” era di tipo spirituale. Non a caso Guglielmo si sente esonerato,
per svolgere le sue ricerche, dalla pratica rigorosa della preghiera comune.
Mi chiedo come un uomo
che non sappia pregare possa scrivere del Medioevo capendone qualcosa!
Un altro aspetto
rivelatore della personalità di Eco è la sua feticizzazione del libro: non è casuale che il suo romanzo maggiore
sia ambientato in un luogo in cui vive tra libri, con libri, per libri. In
un’intervista Eco ebbe a dire che la sua biblioteca personale era una sorta di
“coperta di Linus” da guardare in maniera rassicurante nei momenti di
smarrimento (in un passo rivelatore del libro Eco parla della biblioteca
dell’abbazia come di un «ventre»: ne possiamo dedurre una sorta di regressione
uterina!). Ben altra potenza troviamo, rispetto alla stessa questione,
nell’opera di Borges, a torto
banalizzato nella figura di Jorge nel Nome.
Basti leggere, oltre alla Biblioteca di
Babele, un testo meraviglioso come Poesia
dei doni. In ogni caso tanto Borges quanto Eco appartengono interamente a
quest’epoca, che, proprio perché non riesce più ad esperire il libro come vita, lo fa diventare un
feticcio da adorare. Si rilegga, al contrario, la lettera di Dante a Cangrande:
lì è presente la consapevolezza che la vera arte è sempre al servizio di qualcosa
che la trascende. Nel Paradiso non si leggono libri, per quanto posso
immaginare che Eco lo pensi e Borges l’abbia sognato.
Malgrado questo, nel
momento della sua scomparsa voglio rendere omaggio ad un uomo di vastissima
cultura, che ha avuto il merito di avvicinare l’alto e il basso. Un
appassionato di fumetti come me non può che essergli grato per aver sdoganato
nella cultura accademica un’arte “popolare”. Onore, dunque, ad Eco. Mi auguro
di sbagliare, dunque, e che nel suo paradiso esistano tutti i libri che sono
stati scritti e quelli che dovranno ancora essere scritti e i commenti a
ciascuno di essi, disposti su scaffalature disegnate da Cornelius Escher.
(Apparso già in «Economia & Diritto»)
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