sabato 5 marzo 2016

Umberto Eco e "Il nome della rosa"



La rosa mi è cara per molti motivi. E poesie sulla rosa le custodisco nel cuore. In particolare un distico di Angelus Silesius («La rosa è senza perché fiorisce perché fiorisce»). Alla lettura del romanzo di Eco ero riuscito a “scampare” per molti anni dalla sua uscita. Come un asinello, dovetti abbassare le orecchie per un’abilitazione riservata nel 2000, e leggere, sperimentando la verità di una massima di Voltaire, e cioè che i libri più utili per noi sono quelli che non ci piacciono. Proverò a spiegare il perché.
Chi è Umberto Eco? Malgrado quello che ha scritto in un suo saggio (raccolto in Un altro Novecento, La Nuova Italia) il mio professore di italiano Alberto Asor Rosa, e che cioè Eco è «un medievale nato per sbaglio nel nostro tempo», io credo che sia proprio l’opposto. Eco è un moderno (anzi un “novissimo”) che applica al Medioevo categorie moderne. Non voglio dire che l’unica possibilità di comprendere un’epoca sia quell’immedesimazione di cui parlava la scuola storicista tedesca, ma mi sembra che la “vulgata” sul Medioevo che esca dal romanzo dimostri un'incomprensione radicale di ciò che il Medioevo volle essere. L’operazione di Eco, a livello contenutistico, è quella di vedere in quel mondo ciò che ha anticipato il nostro, quello attuale, considerando il resto retaggio da superare. La premessa non esplicitata è che il nostro sia, comunque, il mondo migliore della storia dell’umanità, cosa ribadita in vari scritti dal professore. In una prospettiva “evoluzionistica” il Medioevo appare pieno di promesse mantenute dall’epoca successiva, in particolare da una scienza libera da superstizione e al servizio dell’uomo. La posizione di Eco è quella di Francesco Bacone e della sua utopia tecnologica. Se qualcosa, invece, il secolo appena finito ci ha insegnato è che “il sogno della ragione genera mostri”. Non credo di dover giustificare questa affermazione. È l’uomo prometeico che ha reso la terra invivibile, minaccia di distruggerla, vive nella totale alienazione. Svevo nella straordinaria conclusione del suo capolavoro parla di “occhialuto animale” per sottolineare che il destino dell’uomo si è deciso nel momento in cui ha smesso di adattare il suo organismo all’ambiente e ad agire “tecnicamente” (sarà un caso poi che Guglielmo usa gli occhiali e li vanta come grande progresso dell’uomo?). Credo, dunque, che il punto di vista, la prospettiva, sia decisiva nella lettura del Nome, come di ogni altro romanzo che abbia un’ambizione enciclopedica e totalizzante (pur camuffandosi da raffinato gioco letterario). E io rifiuto in toto quella prospettiva neoilluministica, erede di quella cultura che ha “occidentalizzato” il mondo, sottomettendo tutto ad un “centro” invisibile, la produzione, l’economia sganciata da qualunque reale esigenza umana. Il destino dell’umanesimo e dell’illuminismo (la sua “dialettica”, adornianamente) è quella non solo della “strage delle illusioni” ma di una ben più concreta distruzione, delle terre, degli uomini, dei rapporti, della psiche: «la terra illuminata splende all’insegna di trionfale sventura» (Horkheimer-Adorno). Il centro della civiltà medievale e di altre civiltà “tradizionali” era di tipo spirituale. Non a caso Guglielmo si sente esonerato, per svolgere le sue ricerche, dalla pratica rigorosa della preghiera comune.
Mi chiedo come un uomo che non sappia pregare possa scrivere del Medioevo capendone qualcosa!
Un altro aspetto rivelatore della personalità di Eco è la sua feticizzazione del libro: non è casuale che il suo romanzo maggiore sia ambientato in un luogo in cui vive tra libri, con libri, per libri. In un’intervista Eco ebbe a dire che la sua biblioteca personale era una sorta di “coperta di Linus” da guardare in maniera rassicurante nei momenti di smarrimento (in un passo rivelatore del libro Eco parla della biblioteca dell’abbazia come di un «ventre»: ne possiamo dedurre una sorta di regressione uterina!). Ben altra potenza troviamo, rispetto alla stessa questione, nell’opera di Borges, a torto banalizzato nella figura di Jorge nel Nome. Basti leggere, oltre alla Biblioteca di Babele, un testo meraviglioso come Poesia dei doni. In ogni caso tanto Borges quanto Eco appartengono interamente a quest’epoca, che, proprio perché non riesce più ad esperire il libro come vita, lo fa diventare un feticcio da adorare. Si rilegga, al contrario, la lettera di Dante a Cangrande: lì è presente la consapevolezza che la vera arte è sempre al servizio di qualcosa che la trascende. Nel Paradiso non si leggono libri, per quanto posso immaginare che Eco lo pensi e Borges l’abbia sognato. 
Malgrado questo, nel momento della sua scomparsa voglio rendere omaggio ad un uomo di vastissima cultura, che ha avuto il merito di avvicinare l’alto e il basso. Un appassionato di fumetti come me non può che essergli grato per aver sdoganato nella cultura accademica un’arte “popolare”. Onore, dunque, ad Eco. Mi auguro di sbagliare, dunque, e che nel suo paradiso esistano tutti i libri che sono stati scritti e quelli che dovranno ancora essere scritti e i commenti a ciascuno di essi, disposti su scaffalature disegnate da Cornelius Escher.

(Apparso già in «Economia & Diritto»)

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