giovedì 10 marzo 2016

oltre l'umanismo, l'uomo



 1.     Perché quest’incontro?

Com’è nato il tema del presente incontro? Da un articolo apparso su «Liberal» di Giancristiano Desiderio, L’homo tecnologicus, postato sul gruppo Facebook. Giancristiano prendeva spunto da un pensatore poco noto ai più, Günther Anders, a me molto caro. Non illustro l’articolo perché qui abbiamo l’autore in carne ed ossa che potrà intervenire.
Il post ha avuto ben 93 commenti, molti dei quali miei, di Nicola De Ieso, di Dolores Morra, di Mario Fragnito, Antonio Furno. L’oggetto del contendere era, diciamo rozzamente, la “tecnica”. Di qui l’idea lanciata di dedicare quest’incontro al superamento di ogni “umanismo”, poiché l’assunto dei miei interventi è che sia questa la radice malata da curare del nostro tempo, con una scaturigine “greca” e una realizzazione moderna, che data, a mio avviso, a partire dalla filosofia di Cartesio e Bacone, senza la quale non si sarebbe potuto realizzare la rivoluzione industriale così come si è realizzata, fondata da una parte sulla concezione meccanicistica dell’universo e dell’uomo (di matrice cartesiana), dall’altra sull’idea che il sapere sia funzionale al potere, al dominio sulla totalità dell’ente (di matrice baconiana).
Le cose che dirò oggi, nel mio percorso personale, si integrano con quanto discusso il 23 scorso all’interno di Paradoxa, in cui ho letto e commentato Fine della filosofia e compito del pensiero di Martin Heidegger. Riflessione quanto mai provocatoria nel momento che ad invocare il superamento della “filosofia” è chi ha avuto l’ardire insieme ad altri, cioè tutti voi presenti, di immaginare una Scuola di filosofia… Ma de hoc satis… Teoricamente questo dittico andrebbe integrato con un terzo momento di riflessione che dovrebbe indagare gli ambiti operativi di un pensiero post-filosofico e post-metafisico e le sue possibili applicazioni. In poche parole: è possibile abitare poeticamente la dimora che ci è stata data, la Terra-Patria?

2.     Anders e l’uomo “antiquato”

Dicevamo di Anders. Pensatore anomalo, d’occasione, come volle definirsi. Allievo di Heidegger, costretto, come la sua futura moglie, Hannah Arendt, a fuggire in America in quanto ebreo tedesco. Il suo capolavoro è L’uomo è antiquato, in due volumi di epoche diverse. Il secondo è dedicato a La terza rivoluzione industriale. Il retro di copertina recita: «Una filosofia della tecnica». Dove il genitivo, evidentemente, è tanto oggettivo quanto soggettivo, per quanto possa apparire scandaloso. Per Anders, infatti, l’uomo non è più il soggetto della storia. Le sua ossessione fu la bomba atomica e i problemi ontologici, etici e politici che essa pone.
Premessa doverosa: la rivoluzione industriale, dopo la rivoluzione del neolitico, è la più grande rivoluzione della storia dell’umanità, al cospetto della quale le cosiddette rivoluzioni politiche (americana, francese, russa) diventano insignificanti. Essa divide la storia dell’umanità, modifica le strutture antropologiche, sociali, etiche, politiche. Noi ci siamo dentro. La stiamo vivendo e per questo è difficile comprenderla. Eppure dobbiamo fare questo sforzo.
Nel saggio “La storia I” scrive Anders a mo’ di epigrafe:

La politica è il nostro destino     (1815)
L’economia è il nostro destino    (1845)
La tecnica è il nostro destino      (1945)

L’uomo viene descritto, in una contrifigurazione parodistica di una celebre affermazione heideggeriana, “pastore dei prodotti”, i quali esigono di essere consumati, ossia distrutti. La funzione dell’uomo è divenuta esclusivamente questa. Le cose sono divenute “beni di consumo”, il cui prototipo sono le armi. Anche qui con una citazione leopardiana, Anders assimila moda e guerra. Anders formula allora l’imperativo categorico dell’era tecnica:

«Agisci in modo che la massima della tua azione possa coincidere con quella dell’apparato, di cui sei o sarai parte».

La terza rivoluzione industriale presenta il solo apparente paradosso di uomini che, lungi dal voler distruggere le macchine, come i luddisti all’alba della prima rivoluzione industriale settecentesca, vogliono essere sicut machinae.
La conseguenza dell’era tecnica rispetto alla storia è che diventiamo tutti “astorici”. La nostra storia si è tramutata in una ininterrotta storia della cancellazione istantanea del presente, vale a dire in una storia che non diventerà mai consapevole di sé. Per cui non c’è neanche più bisogno di dimenticare.
L’atteggiamento di Anders è stato definito da Bobbio “principio-disperazione”. Ma in realtà il fascino di questo pensatore è di aver alternato nel corso della sua vita azione, militanza e pensiero. Dimostrando, nella prassi, di non essere “disperato”, o meglio di esercitare quello che Gramsci chiamava “ottimismo della volontà”. Ma proprio per questo gli appariva urgente “pensare”. Scrive nell’epigrafe del libro (e vorrei che questa fosse anche la mia risposta all’interrogativo che si sono posti Giancristiano e Amerigo sul senso del pensare oggi):

«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E in larga misura questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».

3.     La Lettera sull’umanismo di Heidegger

Nel 1946, Martin Heidegger, privato della cattedra per la sua iscrizione al Partito Nazionalsocialista, risponde alla lettera di un suo ammiratore francese, Jean Beaufret, in relazione all’eco suscitata dalle posizioni espresse da Jean-Paul Sartre in L’essere e il nulla, ispirate, a detta del filosofo francese, a Essere e tempo di Heidegger. La posizione sartriana andava evolvendosi verso un esistenzialismo “impegnato”, assolutamente “umanistico”, come l’autore stesso disse in una celebre conferenza. Heidegger ha modo, dunque, di chiarire l’equivoco sulla sua opera del 1927. Essa non è un’opera “esistenziale”, poiché l’indagine sull’esistenza era propedeutica all’unica indagine che interessasse il pensatore tedesco, quella sull’essere. Ovviamente non posso seguire tutta l’argomentazione della Lettera. Heidegger vi afferma però risolutamente che qualunque “umanismo”, dall’Umanesimo in senso stretto alla filosofia di Marx oblia l’essere e pensa solo l’ente, e l’essere stesso in base all’ente, arrivando a pensarsi come “padrone” dell’ente. Tutta la filosofia occidentale, metafisica, da Platone a Nietzsche dispiega un soggettivismo metafisico il cui esito estremo è la “volontà di potenza” nicciana e la sua concreta realizzazione il dominio tecnoscientifico del mondo, ivi compreso l’uomo stesso, ridotto, alla stregua del resto, a “giacimento”, “fondo”.
Non ripeterò per l’ennesima volta il celebre verso di Hölderlin, ma anche in Heidegger, come in Anders, è evidente che, accanto ad una visione “apocalittica”, scorre una filamento stellare di speranza: «L’inarrestabilità dell’impiegare e il ritenimento di ciò che salva si passano accanto come, nel corso degli astri, le traiettorie di due stelle».
Prima di avviare la seconda parte della discussione, vorrei ricordare che, dopo il mio intervento alla Luidig, Luigi Furno scrisse un pezzo sulfureo su «BMagazine», in cui tra le altre cose intelligenti, cui ho cercato di rispondere, riteneva che proprio il nazismo di Heidegger, da me tenuto fuori dalla discussione ma evocato, fosse uno dei centri del problema. Non credo sia opportuno discuterne in questa sede, ovviamente. La mia posizione, andersiana, è sempre stata chiara: Anders scrisse, senza neanche citarlo, di un pensatore tanto grande dal punto di vista speculativo quando mediocre da quello umano. Era un uomo ambizioso, che fece patti col demonio pur di raggiungere, lui di famiglia umile, una posizione prestigiosa. Ma il suo pensiero rivoluzionario, eversivo, l’unico vero pensiero “anarchico” mai prodotto, come ha scritto Schürmann, nulla ha a che fare con la follia nazista. La controprova? A chiamarlo in Francia, a “sdogarnarlo” nel dopoguerra fu un grande capo partigiano, un leader del “maquis” francese, il capitano Alexandre, ovvero il poeta, immenso, René Char, incarnazione di ciò che può essere un pensiero poetante all’altezza del tempo.

4.     Oltre l’umanismo

Raccontare un’altra storia dell’Occidente diventa decisivo per poter “sperare” un altro Occidente, dopo il tramonto della sua configurazione che ha il fondamento del pensiero greco, nella prassi romana, nella svolta “scientifica” del XVII secolo (Cartesio e Bacone), il suo compimento nella rivoluzione industriale ancora in corsa.
Appare necessario, dunque, mettere in discussione l’umanismo, l’νθρωπος μέτρον che è il vero fondamento occulto dell’Occidente. Per andare verso l’inumano o l’esaltazione della barbara brutalità? No, certamente. Ma per “pensare” (attraverso un pensiero non più filosofico, non più metafisico) in maniera più essenziale l’uomo e la sua vicinanza all’essere, la sua esistenza così peculiare.
Io credo che molte delle cose annunziate da Heidegger siano divenute pratiche di molte persone, inconsapevoli di essere “avanguardie” di un altro mondo possibile, di un “nuovo inizio”. Ma sono anche convinto che, allo stesso modo in cui non sarebbe avvenuta la rivoluzione industriale senza quella rottura che radicalizzava antichissime intuizioni, realizzata da Cartesio e Bacone, così la possibilità avvenire di un altro mondo non ci sarebbe senza pensatori dell’abisso e della rinascita come Heidegger.
Vedete, il rischio maggiore, ripete continuamente Heidegger, la “distruzione” del mondo, per dirla in parole povere, sia nelle forme per tanti anni temute del conflitto nucleare che della quotidiana distruzione di risorse a causa degli stili di vita occidentali, oramai planetarizzati. Ciò che da tempo minaccia l’uomo di morte – e di una morte che concerne la sua stessa essenza – «è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione  e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana» (“Perché i poeti?”). In termini non solo heideggeriani, potremmo dire che l’umanismo è perdita dell’essenza (Wesen, si dice in tedesco, essentia o quidditas in latino). E qual è l’essenza dell’uomo?

«Se tale destino, l’im-posizione, è il pericolo estremo non solo per l’essenza dell’uomo ma per ogni disvelamento come tale, un tale mandare potrà ancora chiamarsi un concedere? Certo e pienamente, nel caso che in questo destino abbia a crescere anche ciò che salva. Ogni destino di un disvelamento accade a partire dal concedere e in quanto concedere […]. In quanto così adoperato e salvaguardato l’uomo è traspropriato all’evento (Ereignis) della verità. Ciò che concede, quello che invia nel disvelamento in questo o quel modo, è come tale ciò che salva. Questo infatti fa sì che l’uomo guardi alla dignità suprema della sua essenza e vi ritorni. Questa dignità consiste nel custodire la disvelatezza e con essa sempre anzitutto l’esser-nascosto di ogni essenza su questa terra» (“La questione della tecnica”)

Che cosa sta accadendo, che cosa potrebbe accadere nella deposizione di ogni “umanismo”? Che l’uomo si scopre “custode” della totalità dell’ente, scoprendo in questo modo la sua vera essenza. Non c’è nulla di astratto in tutto questo, ma un mutamento radicale, essenziale appunto, di pratiche quotidiane. Lo dirò con i versi di un grande e sconosciuto poeta in Italia, Arsenij Tarkovskij:

Dirò di più: tu che ascolti hai ragione,
io sentivo un quarto di suono, vedevo in penombra,
ma non umiliai né uomini né erbe,
non offesi con l’indifferenza la terra avita;
mentre sulla terra lavoravo, accogliendo
il dono dell’acqua gelida e del pane fragrante,
su di me il cielo infinito indugiava,
sulle mie maniche cadevano stelle.

Ho dedicato, come molti di voi, la mia estate rigenerante non solo a rimettermi in connessione con la creazione, con la terra, l’aria, l’acqua, gli alberi, le stelle, ma anche a proseguire nel mio percorso di comprensione, che oramai da molti anni gira intorno a poche, decisive questioni. Tra i libri letti, uno mi ha consentito di fare la sintesi di tante riflessioni. Si intitola Dall’ecologia all’ecosofia. Lo ha scritto Luciano Valle. Ecco, io credo che il tempo sia maturo perché un’antica saggezza, cancellata dalla “filosofia”, una sophia torni ad incontrare la dimora, l’oikos di tutti noi, che da secoli non “abitiamo poeticamente” ma deprediamo con istinto suicida.
In questo libro trovo una visione che posso condividere senza il rischio di cadere da un eccesso all’altro. Non nascondo che, infatti, alcune impostazioni ecologiche radicali vogliono passare da un antropocentrismo, in cui l’uomo è centro e scopo del creato, ad un ecocentrismo, oserei dire “leopardiano”, in cui l’uomo è o uno dei tanti elementi dell’ambiente o addirittura un danno di cui si auspica la sparizione. No, io sono convinto che abbandonare l’umanismo, l’antropocentrismo, restituisca all’uomo un compito grande. Perché, e anche in questo sono debitore ad Heidegger, resto convinto della differenza “ontologica” dell’uomo, per me testimoniata non dalla ragione o dal linguaggio bensì dalla capacità, credo di poter dire senza tema di smentita unica, di trascendere le leggi del mondo, la “pesantezza”, la chiamava Simone Weil, in virtù della “grazia”. E per questo che noi siamo “custodi”, “pastori”.
L’ecosofia, come possibile sintesi, di un nuovo pensiero poetante e di un nuovo ethos radicale, è prima di tutto un nuovo modo di “vedere” o, meglio, di porsi in ascolto della realtà nella quale siamo immersi, con le sue zone d’ombra e di mistero che vanno gelosamente tutelate, senza lasciarsi divorare da quel demone faustiano del “fare” che pare invece reggere le sorti dell’Occidente e le nostre vite spesso devastate. Il silenzio, la lentezza, il raccoglimento, l’abbandono… Per una “mistica” che non sia rinunzia al “mondo” ma vita compiuta. L’uomo “nuovo”, l’uomo del post-umanismo, l’uomo capace di custodia, troverebbe naturale elaborare anche una nuova “tecnica” che non sia “pro-vocazione” che violenta la Natura ma ampliamento organico delle sue capacità. Amo fare, con Illich, l’esempio di una tecnica “umana” sconfitta da una in-umana: la bicicletta nei confronti della macchina.
L’uomo del  post-umanismo, ed è altro argomento di polemiche sempre proficue sul gruppo, troverebbe naturale “de-crescere”. Vedete, c’è una frase terribile di Friedrich Nietzsche. Nel pensare la sua scoperta più abissale, la “volontà di potenza”, vera essenza del mondo, scrive: «Avere e voler avere di più, in una parola la crescita – ciò è la vita stessa». In realtà, Nietzsche e tutti gli apologeti della “crescita” ininterrotta confondono la vita con la volontà di potenza, cioè compiono quella “soggettivizzazione” dell’esperienza che Heidegger ha genialmente riconosciuto tratto caratteristico dell’Occidente metafisico che si compie, appunto in Nietzsche. In realtà, l’unica cosa che cresce indefinitamente, caro Giancristiano, è il tumore. Noi cresciamo, poi la crescita si ferma, ed inizia l’invecchiamento e la morte. Siamo creature, per fortuna, «docili fibre» dell’Universo. L’uomo è divenuto il “tumore” di quella Terra-Madrepatria che dovrebbe custodire.
Il mio amico e maestro Marco Guzzi ama ripetere che questo che stiamo vivendo è un tempo apocalittico. Nel duplice senso della fine possibile e del disvelamento. Qualcosa in qualche luogo che ancora non sappiamo sta nascendo per portare al mondo una rivoluzione che ci ridoni la nostra “umanità” spodestata dalla Tecnica. Dove cercare gli annunzi di questa “lieta novella”? Heidegger è molto chiaro su questo. Nella poesia… Liberata dalla lettura tardoromantica, essa, nelle sue vette, è capace di sprigionare la potenza di un altro sguardo sul reale, non rapace, non dominatore. «Poeticamente abita l’uomo…». Ecco, il mio auspicio è contribuire in questa piccola provincia della Palestina, dell’Italia, alla salute dell’uomo, alla sua rinascita.  

(Rielaborazione dell’intervento tenuto per la Libera Scuola di Filosofia del Sannio l’11 Aprile 2012 presso il Convitto Nazionale P. Giannone)


Nessun commento: