1. Perché quest’incontro?
Com’è nato il tema del
presente incontro? Da un articolo apparso su «Liberal» di Giancristiano Desiderio, L’homo
tecnologicus, postato sul gruppo Facebook. Giancristiano prendeva spunto da
un pensatore poco noto ai più, Günther
Anders, a me molto caro. Non illustro l’articolo perché qui abbiamo
l’autore in carne ed ossa che potrà intervenire.
Il post ha avuto ben
93 commenti, molti dei quali miei, di Nicola De Ieso, di Dolores Morra, di
Mario Fragnito, Antonio Furno. L’oggetto del contendere era, diciamo
rozzamente, la “tecnica”. Di qui l’idea lanciata di dedicare quest’incontro al
superamento di ogni “umanismo”, poiché l’assunto dei miei interventi è che sia
questa la radice malata da curare del nostro tempo, con una scaturigine “greca”
e una realizzazione moderna, che data, a mio avviso, a partire dalla filosofia
di Cartesio e Bacone, senza la quale non si sarebbe potuto realizzare la
rivoluzione industriale così come si è realizzata, fondata da una parte sulla
concezione meccanicistica dell’universo e dell’uomo (di matrice cartesiana),
dall’altra sull’idea che il sapere sia funzionale al potere, al dominio sulla
totalità dell’ente (di matrice baconiana).
Le cose che dirò oggi,
nel mio percorso personale, si integrano con quanto discusso il 23 scorso
all’interno di Paradoxa, in cui ho
letto e commentato Fine della filosofia e
compito del pensiero di Martin Heidegger.
Riflessione quanto mai provocatoria nel momento che ad invocare il superamento
della “filosofia” è chi ha avuto l’ardire insieme ad altri, cioè tutti voi
presenti, di immaginare una Scuola di filosofia… Ma de hoc satis… Teoricamente questo dittico andrebbe integrato con un
terzo momento di riflessione che dovrebbe indagare gli ambiti operativi di un
pensiero post-filosofico e post-metafisico e le sue possibili applicazioni. In
poche parole: è possibile abitare poeticamente la dimora che ci è stata data,
la Terra-Patria?
2. Anders e l’uomo
“antiquato”
Dicevamo di Anders. Pensatore anomalo, d’occasione,
come volle definirsi. Allievo di Heidegger, costretto, come la sua futura
moglie, Hannah Arendt, a fuggire in America in quanto ebreo tedesco. Il suo
capolavoro è L’uomo è antiquato, in
due volumi di epoche diverse. Il secondo è dedicato a La terza rivoluzione industriale. Il retro di copertina recita:
«Una filosofia della tecnica». Dove il genitivo, evidentemente, è tanto
oggettivo quanto soggettivo, per quanto possa apparire scandaloso. Per Anders,
infatti, l’uomo non è più il soggetto della storia. Le sua ossessione fu la
bomba atomica e i problemi ontologici, etici e politici che essa pone.
Premessa doverosa: la
rivoluzione industriale, dopo la rivoluzione del neolitico, è la più grande
rivoluzione della storia dell’umanità, al cospetto della quale le cosiddette
rivoluzioni politiche (americana, francese, russa) diventano insignificanti.
Essa divide la storia dell’umanità, modifica le strutture antropologiche,
sociali, etiche, politiche. Noi ci siamo dentro. La stiamo vivendo e per questo
è difficile comprenderla. Eppure dobbiamo fare questo sforzo.
Nel saggio “La storia
I” scrive Anders a mo’ di epigrafe:
La politica è il nostro destino (1815)
L’economia è il nostro destino (1845)
La tecnica è il nostro destino (1945)
L’uomo viene
descritto, in una contrifigurazione parodistica di una celebre affermazione heideggeriana,
“pastore dei prodotti”, i quali esigono di essere consumati, ossia distrutti.
La funzione dell’uomo è divenuta esclusivamente questa. Le cose sono divenute
“beni di consumo”, il cui prototipo sono le armi. Anche qui con una citazione
leopardiana, Anders assimila moda e guerra. Anders formula allora l’imperativo
categorico dell’era tecnica:
«Agisci in modo che la
massima della tua azione possa coincidere con quella dell’apparato, di cui sei
o sarai parte».
La terza rivoluzione
industriale presenta il solo apparente paradosso di uomini che, lungi dal voler
distruggere le macchine, come i luddisti all’alba della prima rivoluzione
industriale settecentesca, vogliono essere sicut
machinae.
La conseguenza
dell’era tecnica rispetto alla storia è che diventiamo tutti “astorici”. La
nostra storia si è tramutata in una ininterrotta storia della cancellazione
istantanea del presente, vale a dire in una storia che non diventerà mai
consapevole di sé. Per cui non c’è neanche più bisogno di dimenticare.
L’atteggiamento di
Anders è stato definito da Bobbio “principio-disperazione”. Ma in realtà il
fascino di questo pensatore è di aver alternato nel corso della sua vita
azione, militanza e pensiero. Dimostrando, nella prassi, di non essere
“disperato”, o meglio di esercitare quello che Gramsci chiamava “ottimismo
della volontà”. Ma proprio per questo gli appariva urgente “pensare”. Scrive
nell’epigrafe del libro (e vorrei che questa fosse anche la mia risposta
all’interrogativo che si sono posti Giancristiano e Amerigo sul senso del
pensare oggi):
«Cambiare il mondo non
basta. Lo facciamo comunque. E in larga misura questo cambiamento avviene
persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è interpretarlo. E ciò,
precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a
cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi».
3. La Lettera
sull’umanismo di Heidegger
Nel 1946, Martin Heidegger, privato della
cattedra per la sua iscrizione al Partito Nazionalsocialista, risponde alla
lettera di un suo ammiratore francese, Jean
Beaufret, in relazione all’eco suscitata dalle posizioni espresse da Jean-Paul Sartre in L’essere e il nulla, ispirate, a detta
del filosofo francese, a Essere e tempo
di Heidegger. La posizione sartriana andava evolvendosi verso un
esistenzialismo “impegnato”, assolutamente “umanistico”, come l’autore stesso
disse in una celebre conferenza. Heidegger ha modo, dunque, di chiarire
l’equivoco sulla sua opera del 1927. Essa non è un’opera “esistenziale”, poiché
l’indagine sull’esistenza era propedeutica all’unica indagine che interessasse
il pensatore tedesco, quella sull’essere. Ovviamente non posso seguire tutta
l’argomentazione della Lettera.
Heidegger vi afferma però risolutamente che qualunque “umanismo”,
dall’Umanesimo in senso stretto alla filosofia di Marx oblia l’essere e pensa
solo l’ente, e l’essere stesso in base all’ente, arrivando a pensarsi come
“padrone” dell’ente. Tutta la filosofia occidentale, metafisica, da Platone a
Nietzsche dispiega un soggettivismo metafisico il cui esito estremo è la
“volontà di potenza” nicciana e la sua concreta realizzazione il dominio
tecnoscientifico del mondo, ivi compreso l’uomo stesso, ridotto, alla stregua
del resto, a “giacimento”, “fondo”.
Non ripeterò per
l’ennesima volta il celebre verso di Hölderlin,
ma anche in Heidegger, come in Anders, è evidente che, accanto ad una visione
“apocalittica”, scorre una filamento stellare di speranza: «L’inarrestabilità
dell’impiegare e il ritenimento di ciò che salva si passano accanto come, nel
corso degli astri, le traiettorie di due stelle».
Prima di avviare la
seconda parte della discussione, vorrei ricordare che, dopo il mio intervento alla
Luidig, Luigi Furno scrisse un pezzo sulfureo su «BMagazine», in cui tra le altre cose
intelligenti, cui ho cercato di rispondere, riteneva che proprio il nazismo di
Heidegger, da me tenuto fuori dalla discussione ma evocato, fosse uno dei
centri del problema. Non credo sia opportuno discuterne in questa sede,
ovviamente. La mia posizione, andersiana, è sempre stata chiara: Anders
scrisse, senza neanche citarlo, di un pensatore tanto grande dal punto di vista
speculativo quando mediocre da quello umano. Era un uomo ambizioso, che fece
patti col demonio pur di raggiungere, lui di famiglia umile, una posizione
prestigiosa. Ma il suo pensiero rivoluzionario, eversivo, l’unico vero pensiero
“anarchico” mai prodotto, come ha scritto Schürmann, nulla ha a che fare con la
follia nazista. La controprova? A chiamarlo in Francia, a “sdogarnarlo” nel
dopoguerra fu un grande capo partigiano, un leader del “maquis” francese, il
capitano Alexandre, ovvero il poeta, immenso, René Char, incarnazione di ciò
che può essere un pensiero poetante all’altezza del tempo.
4. Oltre l’umanismo
Raccontare un’altra
storia dell’Occidente diventa decisivo per poter “sperare” un altro Occidente,
dopo il tramonto della sua configurazione che ha il fondamento del pensiero
greco, nella prassi romana, nella svolta “scientifica” del XVII secolo
(Cartesio e Bacone), il suo compimento nella rivoluzione industriale ancora in
corsa.
Appare necessario,
dunque, mettere in discussione l’umanismo, l’ἄνθρωπος μέτρον che è
il vero fondamento occulto dell’Occidente. Per andare verso l’inumano o
l’esaltazione della barbara brutalità? No, certamente. Ma per “pensare”
(attraverso un pensiero non più filosofico, non più metafisico) in maniera più
essenziale l’uomo e la sua vicinanza all’essere, la sua esistenza così
peculiare.
Io credo che molte delle cose annunziate da Heidegger siano
divenute pratiche di molte persone, inconsapevoli di essere “avanguardie” di un
altro mondo possibile, di un “nuovo inizio”. Ma sono anche convinto che, allo
stesso modo in cui non sarebbe avvenuta la rivoluzione industriale senza quella
rottura che radicalizzava antichissime intuizioni, realizzata da Cartesio e
Bacone, così la possibilità avvenire di un altro mondo non ci sarebbe senza
pensatori dell’abisso e della rinascita come Heidegger.
Vedete, il rischio maggiore, ripete continuamente Heidegger,
la “distruzione” del mondo, per dirla in parole povere, sia nelle forme per
tanti anni temute del conflitto nucleare che della quotidiana distruzione di
risorse a causa degli stili di vita occidentali, oramai planetarizzati. Ciò che
da tempo minaccia l’uomo di morte – e di una morte che concerne la sua stessa
essenza – «è
l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione,
l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo
possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana» (“Perché
i poeti?”). In termini non solo heideggeriani, potremmo dire che l’umanismo è
perdita dell’essenza (Wesen, si dice
in tedesco, essentia o quidditas in latino). E qual è l’essenza
dell’uomo?
«Se tale destino, l’im-posizione, è il pericolo estremo non
solo per l’essenza dell’uomo ma per ogni disvelamento come tale, un tale
mandare potrà ancora chiamarsi un concedere? Certo e pienamente, nel caso che
in questo destino abbia a crescere anche ciò che salva. Ogni destino di un
disvelamento accade a partire dal concedere e in quanto concedere […]. In
quanto così adoperato e salvaguardato l’uomo è traspropriato all’evento (Ereignis) della verità. Ciò che concede,
quello che invia nel disvelamento in questo o quel modo, è come tale ciò che
salva. Questo infatti fa sì che l’uomo guardi alla dignità suprema della sua
essenza e vi ritorni. Questa dignità consiste nel custodire la disvelatezza e
con essa sempre anzitutto l’esser-nascosto di ogni essenza su questa terra»
(“La questione della tecnica”)
Che cosa sta accadendo, che cosa potrebbe accadere nella
deposizione di ogni “umanismo”? Che l’uomo si scopre “custode” della totalità
dell’ente, scoprendo in questo modo la sua vera essenza. Non c’è nulla di
astratto in tutto questo, ma un mutamento radicale, essenziale appunto, di
pratiche quotidiane. Lo dirò con i versi di un grande e sconosciuto poeta in
Italia, Arsenij Tarkovskij:
Dirò di più: tu che ascolti hai ragione,
io
sentivo un quarto di suono, vedevo in penombra,
ma
non umiliai né uomini né erbe,
non
offesi con l’indifferenza la terra avita;
mentre
sulla terra lavoravo, accogliendo
il
dono dell’acqua gelida e del pane fragrante,
su di
me il cielo infinito indugiava,
sulle mie maniche
cadevano stelle.
Ho dedicato, come
molti di voi, la mia estate rigenerante non solo a rimettermi in connessione
con la creazione, con la terra, l’aria, l’acqua, gli alberi, le stelle, ma
anche a proseguire nel mio percorso di comprensione, che oramai da molti anni
gira intorno a poche, decisive questioni. Tra i libri letti, uno mi ha
consentito di fare la sintesi di tante riflessioni. Si intitola Dall’ecologia all’ecosofia. Lo ha
scritto Luciano Valle. Ecco, io
credo che il tempo sia maturo perché un’antica saggezza, cancellata dalla
“filosofia”, una sophia torni ad
incontrare la dimora, l’oikos di
tutti noi, che da secoli non “abitiamo poeticamente” ma deprediamo con istinto
suicida.
In questo libro trovo
una visione che posso condividere senza il rischio di cadere da un eccesso
all’altro. Non nascondo che, infatti, alcune impostazioni ecologiche radicali
vogliono passare da un antropocentrismo, in cui l’uomo è centro e scopo del
creato, ad un ecocentrismo, oserei dire “leopardiano”, in cui l’uomo è o uno
dei tanti elementi dell’ambiente o addirittura un danno di cui si auspica la
sparizione. No, io sono convinto che abbandonare l’umanismo,
l’antropocentrismo, restituisca all’uomo un compito grande. Perché, e anche in
questo sono debitore ad Heidegger, resto convinto della differenza “ontologica”
dell’uomo, per me testimoniata non dalla ragione o dal linguaggio bensì dalla
capacità, credo di poter dire senza tema di smentita unica, di trascendere le
leggi del mondo, la “pesantezza”, la chiamava Simone Weil, in virtù della “grazia”. E per questo che noi siamo
“custodi”, “pastori”.
L’ecosofia, come
possibile sintesi, di un nuovo pensiero poetante e di un nuovo ethos radicale,
è prima di tutto un nuovo modo di “vedere” o, meglio, di porsi in ascolto della
realtà nella quale siamo immersi, con le sue zone d’ombra e di mistero che
vanno gelosamente tutelate, senza lasciarsi divorare da quel demone faustiano
del “fare” che pare invece reggere le sorti dell’Occidente e le nostre vite
spesso devastate. Il silenzio, la lentezza, il raccoglimento, l’abbandono… Per
una “mistica” che non sia rinunzia al “mondo” ma vita compiuta. L’uomo “nuovo”,
l’uomo del post-umanismo, l’uomo capace di custodia, troverebbe naturale elaborare
anche una nuova “tecnica” che non sia “pro-vocazione” che violenta la Natura ma
ampliamento organico delle sue capacità. Amo fare, con Illich, l’esempio di una tecnica “umana” sconfitta da una in-umana:
la bicicletta nei confronti della macchina.
L’uomo del post-umanismo, ed è altro argomento di
polemiche sempre proficue sul gruppo, troverebbe naturale “de-crescere”.
Vedete, c’è una frase terribile di Friedrich
Nietzsche. Nel pensare la sua scoperta più abissale, la “volontà di
potenza”, vera essenza del mondo, scrive: «Avere e voler avere di più, in una
parola la crescita – ciò è la vita stessa». In realtà, Nietzsche e tutti gli
apologeti della “crescita” ininterrotta confondono la vita con la volontà di
potenza, cioè compiono quella “soggettivizzazione” dell’esperienza che
Heidegger ha genialmente riconosciuto tratto caratteristico dell’Occidente
metafisico che si compie, appunto in Nietzsche. In realtà, l’unica cosa che
cresce indefinitamente, caro Giancristiano, è il tumore. Noi cresciamo, poi la
crescita si ferma, ed inizia l’invecchiamento e la morte. Siamo creature, per
fortuna, «docili fibre» dell’Universo. L’uomo è divenuto il “tumore” di quella
Terra-Madrepatria che dovrebbe custodire.
Il mio amico e maestro
Marco Guzzi ama ripetere che questo
che stiamo vivendo è un tempo apocalittico.
Nel duplice senso della fine possibile e del disvelamento. Qualcosa in qualche
luogo che ancora non sappiamo sta nascendo per portare al mondo una rivoluzione
che ci ridoni la nostra “umanità” spodestata dalla Tecnica. Dove cercare gli
annunzi di questa “lieta novella”? Heidegger è molto chiaro su questo. Nella
poesia… Liberata dalla lettura tardoromantica, essa, nelle sue vette, è capace
di sprigionare la potenza di un altro sguardo sul reale, non rapace, non
dominatore. «Poeticamente abita l’uomo…». Ecco, il mio auspicio è contribuire
in questa piccola provincia della Palestina, dell’Italia, alla salute
dell’uomo, alla sua rinascita.
(Rielaborazione
dell’intervento tenuto per la Libera Scuola di Filosofia del Sannio l’11 Aprile
2012 presso il Convitto Nazionale P. Giannone)
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