Sono cresciuto in una famiglia democristiana.
Conservo ancora le tante lettere di corrispondenza con notabili della DC su cui
un giorno, forse, scriverò qualcosa.
Mia madre (che Dio la benedica!) era parte
integrante di quel reticolo di attivismo sociale generoso ma con due limiti: l’atteggiamento
paternalistico e la contiguità al potere politico. Mio padre, con un’attività
commerciale importante, era dentro il tessuto del potere cittadino, come “portatore
d’acqua”, senza mai avere ruoli. Nessuno in famiglia è mai stato tentato dalla
vita politica.
Nel 1993 io, che già avevo elaborato nella
stagione universitaria “romana”, una visione politica antitetica rispetto a
quella della mia famiglia (per questo penso positiva sempre l’esperienza di “uscire”,
di studiare altrove, quando possibile, per i ragazzi: amplia gli orizzonti),
rispetto al mio genetico “qualunquismo” propenso prima ad adagiarsi sulle
scelte più semplici, nel 1993 mi sentii potentemente preso dalle elezioni
cittadine, nel clima di dissolvimento del quadro politico che aveva sorretto la
“prima Repubblica”, sulla scorta delle indagini del Pool di Milano. In quella
circostanza maturò in maniera clamorosa e vistosa la mia rottura con la
tradizione familiare: chiamato in causa (ricordo ancora le telefonate di
sollecito per il voto, le ricordo plasticamente, ricordo dove ero in quel
momento e cosa risposi...) da quel potere che cercava di perpetuarsi (nella
figura del dott. Del Mese), presi nettamente posizione a favore prima di Domenica Zanin e poi di Pasquale Viespoli (peraltro c’era un
altro eccellente candidato della sinistra civica, Pompeo Nuzzolo in quella
occasione). Viespoli, che proveniva dal Movimento Sociale Italiano, vinse
clamorosamente al secondo turno le elezioni e divenne Sindaco, con un progetto
ambizioso, destinato, purtroppo, ad arenarsi. Nel fuoco di Tangentopoli il mio
antisocialismo viscerale, nutrito dal «Cuore» di Michele Serra, da memorabili
battute («Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti») e dalla visione di
film di denunzia come «Il portaborse» si era temprato. Ora faceva il paio con
rottura della tradizione familiare, per altro avallata da mio padre, anche lui
oramai deluso da quel potere tanto pervasivo quanto miope, su scala locale.
Questi due tratti sono rimasti genetici del
mio impegno politico. Uscii da Rifondazione Comunista quando l’UDEUR di Mastella entrò nella maggioranza in
Regione Campania. Ho denunziato nel corso degli anni una deriva “craxiana” del
PD.
C’è una novità importante, però, nel percorso
degli ultimi anni. Prima ero costretto a vivere la passione politica, a
intermittenza, in piccoli gruppi testimoniali. Oggi sono parte di un grande
organismo capace di dire no ai mali che il mastellismo e il neocraxismo
renziano incarnano (il trasformismo, l’uso opaco delle risorse pubbliche, il
decisionismo postdemocratico). È emblematico che i competitor del M5S a
Benevento saranno un «irrotamabile» (cit.) Mastella e il figlio di un noto
esponente del PSI locale degli anni Ottanta, Raffaele Del Vecchio. Per questo ho deciso di tornare nell’agone
politico nella mia città, che può essere il laboratorio di una buona politica
fatta di onestà, uso corretto delle risorse, legalità, trasparenza e
partecipazione. Insomma, non più solo contro
ma anche per qualcosa. Questo mi fa
sentire, finalmente, meno solo.
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