domenica 6 marzo 2016

cuore e ragione



Jean Clair nel Breve trattato delle sensazioni (Diabasis) scrive: «In fondo non si può dire nulla della sensazione se non che essa ci colma». Ci dà cioè una pienezza esistenziale. Appare quanto mai necessario coniugare di nuovo “sensibilità e ragione”. D’altronde la grande filosofia novecentesca (penso alla scuola fenomenologica e, soprattutto, all’analitica esistenziale di Heidegger) ha scelto proprio questa strada per liberare il pensiero dalle secche di una razionalità divenuta (cito Morin) “razionalizzazione”, insterilitasi proprio nell’autosufficienza della sua dimensione “eidetica”.
In particolare questo incontro nuziale dovrebbe essere un imperativo per chi, come noi, è a contatto con giovani in cui il mondo sensoriale ed emozionale è assolutamente centrale. Spesso dimentichiamo che i giovani che ogni giorno incrociamo nelle nostre aule danno un peso centrale in quella fase della vita alle sensazioni e alle emozioni. Il nostro lavoro dovrebbe sempre partire da questo assunto. Quanto peso si dà alle emozioni nella vita scolastica? È possibile pensare una scuola in cui ragione, sensibilità ed emotività vengano educate parimenti?  Il logocentrismo non è un limite strutturale della scuola, primo elemento da mettere in discussione per un’eventuale autoriforma della scuola che mai come in questi mesi è all’ordine del giorno? E noi insegnanti di filosofia, eredi e (almeno per quanto mi riguarda) traditori della pretesa di costruire una «geometria delle passioni», non dovremmo essere in prima fila in questo movimento che, rompendo gli steccati disciplinari, ridoni all’educazione un’integralità “umana” che ha smarrito nella selva degli specialismi, per cui il corpo vive staccato dalla mente (pensiamo alle nostre aule), le emozioni dalla razionalità?

Perché la nostra scuola, al di là di vuoti documenti compilati stancamente ad inizio anno, non si pone mai l’obiettivo ambizioso (ma anche l’unico sensato) di essere prima di ogni specialismo “educazione del cuore”? Riprendo questa suggestiva espressione da un libro che ho meditato a lungo nel corso degli anni. Si tratta de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani di Umberto Galimberti. Il cuore è ciò che nell’età evolutiva dischiude alla vita. Il sapere che noi trasmettiamo non dovrebbe mai comprimere questa forza, ma porsi al servizio di essa per consentirle un’espressione più articolata. Se il sapere diventa lo scopo e il profitto il metro per misurarlo, la scuola fallisce. Galimberti mette, giustamente, sotto accusa, una scuola che vuole tirarsi fuori dai problemi connessi ai processi di crescita e si rifugia nella presunta oggettività del trattamento profitto/giudizio, perché non vuole sporcarsi le mani con soggettività complesse e caotiche quale quelle degli adolescenti. Dunque, all’analfabetismo emotivo dei giovani bisogna rispondere con una grande investimento nell’educazione emotiva, come compito primario della scuola. Noi non insegniamo Platone, Aristotele, Cartesio, Manzoni o Leopardi, ma – anche eventualmente attraverso alcuni loro testi – educhiamo cuori giovani che si dischiudono alla vita. La scuola deve tornare ad essere vita vivente, non sepolcro, non teca morta di pagine senza sangue, come quella evocata da Ermanno Olmi in Centochiodi. Per questo ciascuno di noi è tenuto a coniugare di nuovo, in una tessitura complessa, che riguardi prima di tutto la propria esistenza e, dunque, il proprio sapere, ambiti tradizionalmente giustapposti ma incomunicanti: sapere scientifico e sapere umanistico, anima e corpo, umano e divino, sensibilità e ragione. E quindi a celebrare il funerale di questo lungo equivoco chiamato “filosofia”.

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