Jean Clair nel Breve trattato delle sensazioni (Diabasis)
scrive: «In fondo non si può dire nulla della sensazione se non che essa ci
colma». Ci dà cioè una pienezza esistenziale. Appare quanto mai necessario coniugare
di nuovo “sensibilità e ragione”. D’altronde la grande filosofia novecentesca
(penso alla scuola fenomenologica e, soprattutto, all’analitica esistenziale di
Heidegger) ha scelto proprio questa strada per liberare il pensiero dalle
secche di una razionalità divenuta (cito Morin) “razionalizzazione”,
insterilitasi proprio nell’autosufficienza della sua dimensione “eidetica”.
In particolare questo
incontro nuziale dovrebbe essere un imperativo per chi, come noi, è a contatto
con giovani in cui il mondo sensoriale ed emozionale è assolutamente centrale.
Spesso dimentichiamo che i giovani che ogni giorno incrociamo nelle nostre aule
danno un peso centrale in quella fase della vita alle sensazioni e alle emozioni.
Il nostro lavoro dovrebbe sempre partire da questo assunto. Quanto peso si dà
alle emozioni nella vita scolastica? È possibile pensare una scuola in cui
ragione, sensibilità ed emotività vengano educate parimenti? Il logocentrismo
non è un limite strutturale della scuola, primo elemento da mettere in
discussione per un’eventuale autoriforma della scuola che mai come in questi
mesi è all’ordine del giorno? E noi insegnanti di filosofia, eredi e (almeno
per quanto mi riguarda) traditori della pretesa di costruire una «geometria
delle passioni», non dovremmo essere in prima fila in questo movimento che,
rompendo gli steccati disciplinari, ridoni all’educazione un’integralità
“umana” che ha smarrito nella selva degli specialismi, per cui il corpo vive
staccato dalla mente (pensiamo alle nostre aule), le emozioni dalla
razionalità?
Perché la nostra
scuola, al di là di vuoti documenti compilati stancamente ad inizio anno, non
si pone mai l’obiettivo ambizioso (ma anche l’unico sensato) di essere prima di
ogni specialismo “educazione del cuore”? Riprendo questa suggestiva espressione
da un libro che ho meditato a lungo nel corso degli anni. Si tratta de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i
giovani di Umberto Galimberti. Il cuore è ciò che nell’età evolutiva
dischiude alla vita. Il sapere che noi trasmettiamo non dovrebbe mai comprimere
questa forza, ma porsi al servizio di essa per consentirle un’espressione più
articolata. Se il sapere diventa lo scopo e il profitto il metro per misurarlo,
la scuola fallisce. Galimberti mette, giustamente, sotto accusa, una scuola che
vuole tirarsi fuori dai problemi connessi ai processi di crescita e si rifugia
nella presunta oggettività del trattamento profitto/giudizio, perché non vuole
sporcarsi le mani con soggettività complesse e caotiche quale quelle degli
adolescenti. Dunque, all’analfabetismo emotivo dei giovani bisogna rispondere
con una grande investimento nell’educazione emotiva, come compito primario
della scuola. Noi non insegniamo Platone, Aristotele, Cartesio, Manzoni o
Leopardi, ma – anche eventualmente attraverso alcuni loro testi – educhiamo
cuori giovani che si dischiudono alla vita. La scuola deve tornare ad essere
vita vivente, non sepolcro, non teca morta di pagine senza sangue, come quella
evocata da Ermanno Olmi in Centochiodi.
Per questo ciascuno di noi è tenuto a coniugare di nuovo, in una tessitura complessa,
che riguardi prima di tutto la propria esistenza e, dunque, il proprio sapere,
ambiti tradizionalmente giustapposti ma incomunicanti: sapere scientifico e
sapere umanistico, anima e corpo, umano e divino, sensibilità e ragione. E
quindi a celebrare il funerale di questo lungo equivoco chiamato “filosofia”.
Nessun commento:
Posta un commento