C’è un non-luogo sulla strada che porta da Benevento a San Giorgio. Tra “Le vecchie carrozze” e “Pascalucci”. Lì ristoravamo la sete delle nostre corse noi quattro cugini in estati che sembravano eterne, spese a gareggiare in sport emulati dalla poca televisione guardata o inventati, a tentare ardite imprese che farebbero impallidirci come padri oggi.
Il gestore del distributore di benzina,
Vincenzo Pedicini, detto “Baffo”, aveva un meraviglioso frigorifero della Coca-Cola
che ancor oggi è una perfetta immagine del desiderio per me. È come se quelle
bibite, il chinotto, l’aranciata, la coca avessero già prima di essere gustate
un odore delizioso. Oggi di quel piccolo paradiso della mia infanzia non
rimane che un misero scheletro senza vita, che ai più non racconta nulla.
Era il centro logistico del vasto regno
commerciale di mio padre, il “Deposito”, come veniva chiamato in famiglia. Lì
venivano riparati i camion che trasportavano il gasolio, da improbabili
meccanici perennemente sporchi di grasso, che goffamente nascondevano giornali
pornografici molto ambiti da noi, ostentando, invece, calendari con donnine dai
petti generosi.
Mio padre oggi avrebbe compiuto ottantatré
anni. È scomparso da nove anni. Immagino che per tutta la vita i figli debbano
fare i conti con i loro padri. Allora queste parole sono l’ennesima puntata di
una storia di lunga durata. Quando fallì, nel 1995, iniziò una discesa in
inferi lavorativi che poi assunsero la forma del contrappasso dantesco, l’Alzheimer.
Il distributore di Piano Cappelle fu uno dei primi a chiudere, malgrado le vane
battaglie legali. Un po’ alla volta quel luogo mitico della mia infanzia, il
simbolo stesso della ricchezza della mia famiglia, iniziò a perdere pezzi, come
se fosse il “correlativo oggettivo” di mio padre e di suo fratello, sodale in
tutto. Ogni volta che passavo di lì vedevo oggettivata una storia di trionfo (i
cavalli, il cabinato a Gaeta) e decadenza inarrestabile.
Nel tempo, passando di lì e fermando l’occhio
su quelle rovine, ho provato un misto di nostalgia e di rabbia. L’infanzia
dorata nel sole abbacinante degli anni Settanta e la fatica di dover rimediare
a danni colossali compiuti per superficialità o superbia. Il bambino che lì
aveva assaporato il chinotto in estasi non era stato forgiato per quello.
Scrivendo, però, mi rendo conto che oggi la rabbia ha ceduto il posto alla
consapevolezza che senza quella catastrofe sarei rimasto il bambino immerso
nelle sue estasi e nelle sue estati. Non che oggi non ci sia spazio per esse
nella mia vita, ma accanto alla responsabilità che è maturata contestualmente
allo smarrirsi nel gorgo di mio padre.
Dell’involontario monumento, tra qualche anno,
resterà solo qualche foto e il ricordo di chi ne visse splendore e decadenza.
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