Come la corsa mattutina, l’appuntamento con la pagina bianca virtuale sta diventando una sana disciplina quotidiana. Con una differenza radicale e problematica: il percorso podistico è predefinito, al limite con una variante. Non so, invece, cosa scriverò ogni giorno. «Nulla dies sine linea». Dunque, mi arrovello. Che cosa è accaduto oggi che ha sollecitato la mia riflessione, turbato il mio cuore e che possa superare la censura che lo renda leggibile? E se questo fosse semplicemente un giorno inutile, come tanti altri, in cui il “sopravvivere” diventa preminente rispetto al “vivere”? E sarebbe possibile rendere la propria vita “fiamma”, fare di «ogni attimo l’inizio dell’essere», come reclamava quel Friedrich Nietzsche che proprio in questi giorni spiego ai ragazzi accalorandomi come non mai? Eppure, anche in questo giorno ordinario, ci sono state piccole epifanie. Sono esse che donano senso a questo giorno? O, al contrario, è la prosa del “sopravvivere” nelle piccole incombenze quotidiane? Se staserà, prima di addormentarmi, ripenserò a questo giorno, lo scorrerò come suggeriscono i maestri spirituali, cosa mi porterò nell’antro dello notte? La corsa, la prima di quest’anno, dopo la scuola, tra gli alberi pure offesi dal gelo e dalla neve, a San Cumano, in un annuncio speranzoso di primavera. Dopo mattine gelide, finalmente un sole che risvegliava tutti i sensi.
[Ieri parlavo con Michele di Bonhoeffer. Desta sempre stupore in me che un seme fiorisca. È paradossale: credo che l’unico senso delle nostre vite sia seminare, ma quando vedo la fioritura, ho sempre l’impressione di un piccolo miracolo. Michele mi diceva che la lettura di Resistenza e resa era stata una folgorazione. È che lì pulsa una vita priva di tutte le barriere che erigiamo a difesa, anche le più nobili. In quelle lettere tutto è essenziale, ogni parola sembra sgorgare dalla “nuda vita” per la vita. Nella lettera del 30 giugno 1944, Dietrich scrive all’amico Eberhard, con la Wermacht in Italia, che vorrebbe anche lui sentire il sole ardere sulla pelle: «vorrei che risvegliasse la mia esistenza animale, non quell’animalità che sminuisce l’esser uomo, ma quella che lo libera dall’ammuffimento e dall’inautenticità di un’esistenza solo spirituale, e rende l’uomo più puro e felice»].
E poi passeggiare con Caterina sul Corso. Le ho stretto la mano per tutto il tempo: sentivo con orgoglio e tenerezza la sua fiducia in quel gesto ricambiato. Ci sono dei momenti in cui glie la stringo forte, perché, come in un lampo, immagino un incidente che le possa capitare o ripenso a eventi luttuosi, a madri che sono morte con i propri bambini, e sento una stretta al cuore che diventa impulso a stringere la sua mano così forte da fonderla alla mia. Oggi, come spesso accade, tutto questo passava tra cuore e mente, mentre passeggiavamo sul corso. Ci siamo fermati ad ascoltare un’artista di strada, un arpista, che ha iniziato, per noi, a suonare una canzone che è stata spesso preludio al sonno di Caterina, anche con la mia voce sgraziata, che però lei ricorderà per sempre con tenerezza e affetto:
I hear babies cry... I watch them grow
They’ll learn much more...than I’ll never know
And I think to myself ...what a wonderful world…
In fondo, mi dico, ogni giorno ha la sua pena ma anche i suoi doni, che spesso ci scivolano addosso, senza che neanche ne riusciamo a cogliere l’essenza segreta. In fondo, mi dico, non debbo far altro che trasmettere a mia figlia, nella prosa del giorno, il messaggio prezioso che mi fu affidato da mia madre: che, malgrado la sofferenza e il caos, la vita può essere meravigliosa, se sappiamo ancora guardare un albero spezzato e pregare perché rinasca, stringere mani con forza e tenerezza, fermarci ad ascoltare uno sconosciuto arpista e sorridergli con riconoscenza.
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