lunedì 27 febbraio 2012

o capitano...


Mi ero ripromesso qualche giorno fa di parlare dell’Inter. È giunto il momento di farlo ancora, dunque, su queste pagine. Ne scrissi a pochi giorni da quella che sarebbe stata l’apoteosi di anni fantastici, la vittoria di Madrid: era un elogio di Mourinho, che non posso non rileggere con rimpianto. Scrivevo alla fine: «Ci mancherà, mi mancherà». Ne avevo scritto nel 2008 in occasione dello scudetto. Antonio commentò: «di sinistra ed interista: nato per soffrire». Ovviamente rinvio ad entrambi i brevi scritti, per evitare di riscrivere le premesse che vi faccio e ricostruire la mia storia di interista.
Ora vorrei concentrarmi, invece, sull’interismo “perdente” e sulla sua straordinaria valenza filosofico-spirituale. Infatti, quando ne ho scritto l’Inter era nella sua fase ascendente, che ne ha fatto una squadra memorabile per ferocia agonistica e dinamismo in campo, virtù capaci di nascondere limiti tecnici di alcuni giocatori (se confrontati, ad esempio, ai raffinati palleggiatori del Barcellona). L’Inter di Mou (in buona parte, però, costruita da Mancini), ha scritto qualcuno, ha avuto la bellezza del diamante. Ora, invece, bisogna scrivere quando questo organismo bellissimo, che è nato idealmente con l’arrivo di Zanetti all’Inter nel 1995, è divenuto adulto tra il 2004 e il 2008, pienamente maturo nel biennio mourinhano, sta morendo. «Non è nel mondo cosa alcuna eterna» scrive Machiavelli. Dunque, era inevitabile che questo organismo potente conoscesse la vecchiaia. Nessuno si aspettava, probabilmente, che fosse un processo di senescenza così rapido. Non mi interessa analizzare qui gli errori societari (delle stesse persone che hanno fatto della squadra l’unica italiana a vincere il triplete), tanto meno dei giocatori (anche se fa tristezza vedere gli eroi di Madrid irrisi dagli stessi tifosi nei siti dedicati). Anzi, voglio alzarmi in piedi idealmente e dire a Javier Zanetti, simbolo dell’intera Inter: «O capitano, mio capitano». Con tutta la serietà che ha la fine di una storia grande, voglio celebrare, pur nello scoramento del tifoso deluso, e ringraziare questi uomini che, indossando una maglia che al solo vederla mi viene ancor oggi, a quarantacinque anni, la pelle d’oca, mi hanno regalato emozioni straordinarie, ripagando con gli interessi tutte le delusioni patite nei lunghi anni in cui eravamo irrisi, compatiti, dileggiati. Grazie, capitano, grazie a tutti voi i cui nomi non scriverò. Gli esangui fantasmi che in questi mesi si affannano vanamente a San Siro e sui campi d’Italia, con gli stessi nomi e la stessa maglia, non possono cancellare la grandezza che fu…
E noi, noi tifosi cosa possiamo o dobbiamo fare? Io credo che sia necessario attingere a quello straordinario patrimonio di sopportazione quasi ascetica, di elaborazione della sconfitta, elaborato tra il 1989 e il 2006. Ai più giovani tifosi, infatti, ricordo come i “cicli” dell’Inter siano molto distanziati e di breve durata: «La fiamma che splende con il doppio della forza dura la metà del tempo» (Blade Runner). La nostra è stata sfolgorante. Madrid non era un inizio, era una fine. E nessuno di noi volle capirlo. Dunque, ci attende per un tempo realisticamente lungo il duro lavoro della sopportazione, l’esercizio spirituale di fare buon viso a cattivo gioco (sperando che il gioco non ridiventi corrotto, come tra gli anni Novanta e gli anni Zero) o quello arduo del sarcasmo esercitato su di sé (è il mio esercizio preferito per evitare la depressione). Rispetto al precedente interismo perdente, però, abbiamo una risorsa nuova e preziosa: l’unicità dei trionfi interisti (la qualità assoluta del triplete contro la quantità dei trofei di Milan e Juve) e il vanto di essere l’unica squadra italiana a non essere mai andata nella serie minore. Personalmente, dopo le amare sconfitte di questi mesi (una via Crucis davvero dolorosa), e dico Novara, Roma, Bologna, Napoli, accendo il multimedia e rivedo Inter-Barcellona o Bayern-Inter, e, potete non crederci perché sono grande e grosso, mi commuovo fino alle lacrime.
Gli inni calcistici sono quasi sempre osceni. Quello dell’Inter, però, ha colto l’essenza della squadra: la “pazzia”, il furor, che l’ha resa quasi invincibile per pochi anni e ora fragilissima. Anche per questo la amiamo. Non ambiamo alla quieta tranquillità dei predestinati. Le «discese ardite e le risalite» sono il nostro destino. È bene, lo dico agli amici più giovani, accettarlo come dato genetico dell’interismo. Per evitare isterismi.
Infine, voglio dedicare a chi ha reso questi cinque anni così intensi i versi di un grande poeta, con ammirazione e riconoscenza imperitura:


Sebbene molto è preso, molto rimane; e sebbene 

Adesso non abbiamo quella forza che nei vecchi giorni 
Muoveva terra e cielo, ciò che siamo, siamo; 
Temperamento di cuori eroici, 
Resi deboli dal tempo e dal destino, ma forti nella volontà 
Di lottare, di cercare, di trovare, e di non cedere.

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