lunedì 6 febbraio 2012

caos, neve, senso

Mia moglie dice che io sarò sempre irrisolto… Certo, come negare che mi conosca bene? Ci fidanzammo - in una stradina che oggi ho fotografato piena di neve, tra l’Istituto agrario e il primo nucleo del Musa – nel 1984… Siamo diventati quel che siamo insieme, nel bene e nel male. Potrebbe non conoscermi forse meglio di me? Dunque, debbo crederle. “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”. Il verso, tra i pochi che riesco a ricordare a memoria (com’è gracile la mia memoria!), di Eliot è epigrafe definitiva della mia esistenza. Eppure non posso quotidianamente non farmi domande sul “senso”, sulla direzione della mia vita. Non posso rassegnarmi a vivere senza pensarla la mia vita. In un momento in cui il caos mi è sembrato risucchiarmi, un momento, tra l’altro, privo di eventi eccezionali (forse proprio per questo), mi sono detto che, sì, forse la scrittura può essere argine alla dissoluzione della mia “persona”. Sono sempre stato molte cose: ho sempre sentito in me tante voci… Come dirigerle, come impedire che divenissi solo il contenitore di tanti "me" inconciliabili? Non so cosa sia stata per me la scrittura in tanti anni. Posso solo tentare a ricostruirne una storia (io sono la mia storia…). In quel fatidico 1984 inizia a scrivere un diario, che conservo gelosamente. Iniziavo, nella scrittura, a divenire me stesso, a distaccarmi dai valori e dal comune sentire della mia famiglia. E a quella scrittura diaristica si è affiancata nello stesso periodo la scrittura poetica. Ho tentato spesso di capirci qualcosa in maniera definitiva. Ma anche qui non potrei che raccontare una storia, la mia. Del rapporto cangiante con il verso: da lettore di Carducci, attraverso Baudelaire, poi Fortini, fino a Char, a Bonnefoy. Quante idee diverse di poesia ho attraversato! Ma cosa è stata per me la poesia quando la scrivevo? Versi datimi in dono. Sicuramente. Ho sempre percepito con chiarezza che la poesia non si può scrivere. È un accadimento. Oggi credo che esso nasca da una rimodulazione dello sguardo. Non tanto vedere altre cose quanto vedere le stesse cose di sempre in un modo completamente nuovo. So che può sembrare banale. Ma è una delle poche cose che ho capito da solo, per via esperienziale. La poesia è stata, di volta in volta, sfogo, elaborazione di una perdita (soprattutto quella di mia madre), tentativo di comprendere il mondo… [Oggi ho raggiunto la mia amata tata, Maria, in campagna, nel luogo che più di tutti mi appartiene, San Cumano. Ho camminato attraverso la neve con le calosce. Ho l’impressione, ora che scrivo, di star facendo la stessa cosa. Affondo in questo biancore, come tante altre volte. E vorrei cedere alla tentazione di lasciarlo immacolato. Ma devo raggiungere il luogo che mi appartiene]. Mi rendo conto che l’ambizione di fare ordine naufraga. Anche contro una serie di ricorrenze stilistiche che oramai mi definiscono (l’abbondanza di “anche”, “ma”, ad esempio). Lo stile elaborato, me malgrado, in questi anni, è una gabbia dalla quale non riesco ad evadere. Sono prigioniero, dunque, non solo delle tante persone che abitano la mia maschera ma anche della scrittura che mi illudo possa diventare se non strumento di liberazione almeno argine al caos? E, dunque, sono senza speranza? È la stessa sensazione che ho provato quando ho ripreso a correre dopo lo scorso, terribile inverno. Ero tutto un dolore. Eppure bisogna iniziare. “Riuscirò alla fine a mettere ordine nelle mie terre?”. Per fortuna, mi dico, c’è la "struttura" della mia vita esteriore che mi sorregge. Il mio lavoro d’insegnante, gli impegni che mi costringono a distogliermi dal caos che mi porto dentro (e da cui mai nacque né una stella danzante né un cristallo di respiro…). Per questo spesso ringrazio, ancora una volta, la storia che sono. E me la racconto nelle preghiere serali: grazie, Signore, per mia figlia, per il cibo di oggi, per il mio lavoro… Cosa sarei senza questa impalcatura? Resterebbero solo frammenti privi di un’architettura per quanto rudimentale, lacerti privi di senso. E se, invece, la risposta fosse cancellarla questa “struttura”, come il Moscarda di Pirandello che scopre la felicità in una follia empatica con il creato? Ma qui è la mia istanza “etica” che si ribella. Io sono la mia storia. E questa storia è intramata di tanti personaggi importanti: mia moglie, mia figlia, le mie sorelle, Maria, i miei amici, i miei alunni. E, dunque, no, non cederò alla tentazione estetizzante di lasciare il campo di battaglia. Percorrerò questo campo di neve, continuerò a cercare il mio cristallo di respiro.

2 commenti:

luca rando ha detto...

Caro Nicola,
ho sempre avuto un amore viscerale per la neve, forse perché troppo poco vista e vissuta negli anni giovanili tra Benevento e Napoli e solo immaginata nelle parole dei miei (ma è un ricordo che io non ho conservato) di gite al Terminillo e discese in slittino quando abitavamo a Roma. Solo negli anni dell'insegnamento, a Viggiano, Melfi e Potenza, la neve è diventata uno spettacolo consueto tanto che, oggi, si muta quasi in fastidio nella difficoltà di accompagnare i figli o andare al lavoro.
E invece ricordo una neve beneventana (era l'84?) in cui d'impulso mi misi a scrivere; la neve diventava sinonimo di bellezza, purezza primigenia, verginità... ma rimaneva un dubbio sottile, l'idea che non fosse altro che maschera. Diviso tra speranza e realtà concludevo scrivendo «... fango domani, per fortuna domani...».
Non so bene perché ti stia scrivendo queste cose ora, ora che una neve di due settimane lentamente scompare vinta dall'umidità e dalla pioggia. Resiste ancora, in qualche angolo ombroso protetto dagli alberi, a coprire il paesaggio, dando l'immagine straniante di nitore in un contesto grigio e triste. Già so che è un inganno, il tempo congiura contro di lei, ed è giusto così.
Forse il senso che cerchi, che cerco, è in questo trascorrere delle stagioni, dei pensieri, tra queste impurità, necessarie per far risaltare il biancore, quando c'è. Forse il senso (l'ho sempre pensato) è in questa nostra incompiutezza di essere umani («Non essendo che uomini...»), nel caos che portiamo dentro (senza stelle danzanti) che aspira, inutilmente, ad un ordine.
No, Nicola, non ho fatto ordine io nei miei pensieri e a volte penso piuttosto che con gli anni sia aumentato il non senso, l'incapacità di capire fino in fondo il mondo e di trovare una soluzione («O mondo, vasto mondo, se mi chiamassi Raimondo sarebbe una rima, non una soluzione»).
Nel disordine (ordine?) in cui mi muovo a tentoni trovo, a volte, d'improvviso, una stonatura, quella incrinatura che rende tutto più chiaro. E' un attimo, ed è la pace.
In quell'incrinatura siamo noi.

luca

luca rando ha detto...
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