domenica 26 febbraio 2012

redde rationem


Da un Diario del 2006:



«Decisione di staccare l’antenna appena Caterina cresce.

Non farla diventare una “consumatrice”.
Banco di prova.
Scrivere con lentezza, mangiare con lentezza, pensare.
Mia voracità, mia paura del vuoto, della fame.
Il deserto, la purificazione del pensiero e delle viscere.
Paura del vuoto.
Riempire l’interstizio tra… una morte e l’altra?
Abitare con fedeltà il presente.
Essere sempre qui.
Mettersi in ascolto, fare silenzio, immergendosi nell’azione di padre, marito, insegnante e poeta».


L’antenna non l’ho staccata. Anzi: per “reggere” la mia amorosa “cattività” paterna, ho fatto l’abbonamento a Sky. E Caterina è cresciuta con i canali dedicati. Meno pervasivi dal punto di vista pubblicitari, ma “me lo compri, papà” è litania quotidiana. Quindi sul primo punto (che era molto influenzato dal modello di Marco Guzzi, il quale una volta mi disse che i suoi figli erano cresciuti senza televisore) una Caporetto.

Ieri sera Caterina - per il suo compleanno - ha ricevuto una carrozza di Barbie e una vasca di Barbie, che vanno ad occupare i lembi residui della sua stanza dei giochi, accanto alla casa di Barbie, il castello di Barbie, un’altra carrozza di Barbie, la macchina di Barbie. Cui si accompagnano, ovviamente, all’incirca sessanta Barbie di ogni foggia e colore della pelle. Anche il secondo proponimento, vergato con lettere tornite su un quaderno Moleskine senza righi, si è andato a fare benedire. Se erano un banco di prova, sono stato sonoramente bocciato.
Sul terzo punto, devo dire onestamente, non nell’immediato ma anni dopo, sono riuscito, per paura più che altro, nell’impresa di revisionare il mio rapporto col cibo. L’insorgere del diabete alimentare e una serie di disagi fisici diffusi mi hanno spinto ad una dieta ferrea: sono sceso prima da 104 chili a 93, e poi, quest’inverno, a 86. Ma tutto questo non è accaduto in un clima “lustrale”, quello che dalla mia adolescenza associo a eventi del genere. Come dire: anche una delle mie vittorie più grandi (non ero al di sotto di “quota Novanta” dagli anni Ottanta!) non ha modificato la “struttura” profonda del mio modo d’essere, ha continuato a convivere con altri aspetti “umidi” della mia vita interiore ed esteriore. Insomma, nessuna santità (ho sempre aspirato, sin dalla mia adolescenza, ad una santità “ascetica”: di qui l’amore, ad esempio, per alcuni racconti di Hesse o per l'icona di San Girolamo). Non so se sono, dunque, riuscito ad “abitare il presente”. Ho avuto tante “uscite di sicurezze” in questi anni, quando il mio “mandato” paterno diventava troppo gravoso, quello maritale insopportabile. Sono fuggito nel passato, nelle mie vite anteriori, nel futuro, tra mille braccia ricostruite in sogni sempre uguali eppure caleidoscopici, sui campi di calcio. Non sono stato fedele, insomma, al mio nunc.
Soprattutto non sono quasi mai stato in ascolto (poetico). Associo questi anni ad un indistinto brusio di fondo. Forse solo a San Cumano, ma sempre in fuga da qualcuno o qualcosa, sotto un manto di stelle, quel brusio è cessato per un istante. E in qualche alba surreale strappata al sonno.
Quel frammento si chiudeva con un auspicio apparentemente ossimorico: fare silenzio, immergendosi nell’azione. In realtà, chiunque approfondisca la storia della grande mistica, anche occidentale, scoprirà come il vero mistico è colui che, vivendo immerso in Dio, riesce, appunto ad abitare il presente, ovunque egli sia e qualunque cosa egli faccia (Nietzsche voleva rielaborare questa modalità d’esistenza senza Dio). Basti leggere Meister Eckhart. Ho fallito, indubitabilmente. Ed è bene aver lasciato cippi lungo il percorso per misurare lo scacco.
Forse solo come insegnante la mia “tendenziale caduta” verso la prosa ha giovato. Mi ha reso meno assolutista degli inizi, più capace di discernimento… Ma su questo potrebbero pronunziarsi solo i miei alunni...
Infine, se la poesia è uno “sguardo” o un “ascolto”, e non una tecnica, ebbene, indubitabilmente, io non sono stato poeta, malgrado tutti gli sforzi fatti. Non casualmente le mie scritture poetiche si sono diradate nel corso di questi anni… Fino al quasi assoluto silenzio, ma, ahimè un silenzio gravido di nulla… Non quello che auspicava Rilke nelle lettere che scriveva ad un giovane poeta.
È un male? È un bene? Torno, per rispondermi, ad uno scrittore che ha illuminato per la prima volta il mio sguardo sul mondo:


«Ogni volta a questa morte segue la rinascita, ogni volta torna a toccarmi la grazia, e il dolore e lo smarrimento non sono più un gran male, gli sviamenti sono stati un bene, le sconfitte sono state una benedizione, perché mi hanno rigettato fra le braccia della madre, mi hanno reso di nuovo possibile l’esperienza della grazia» (Hermann Hesse, Una cura termale).

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