CREPA (A SAN CUMANO)
Ogni pomeriggio prima di chiudere gli occhi vedo una nuova macchia di muffa sul soffitto. Socchiudo le palpebre, è un cancro visibile che senza fretta, con l’aiuto delle lente piogge invernali e degli acquazzoni estivi, divora l’opera di molti uomini, goduta da pochi, come le piramidi che un giorno saranno vinte da un’ultima fiamma, un ultimo vento. Eppure è dimora questa casa, costruita davvero come un mausoleo, come ultimo disperato monumento che gridasse: «Non moriar». Ma non sono di bronzo le mura, pure solide all’apparenza. E quel male che divorò l’artefice, anche l’opera divora giorno per giorno, sonno per sonno. E, come allora, la mia consapevolezza non impedirà l’esito finale. Forse la colpa che Dio punisce è l’ansia d’essere immortali: quando l’uomo non si rassegna ad essere una manciata di polvere.
MONTAGNA
Simbolo dell’ascesa a Dio (il monte Ventoso in Petrarca) e del desiderio inappagato (l’azzurra lontananza di Hesse). Ai miei sguardi la montagna è il custode androgino (il corpo muscoloso, la chioma fluente da donna) della grande conca in cui sorge la città. Custode pigro, che detta il ritmo della vita cittadina. Dall’alba al tramonto - che gli dona un’eleganza inimmaginabile durante il giorno - lo spiamo attraverso fessure che si aprono tra gli edifici. Una città tranquilla, una zona del crepuscolo, dove i gesti si ripetono uguali ogni giorno, dove la storia arriva sole nelle letture e nelle immagini. Il custode ci invita la sonno, all’oblio dei gesti e noi, intimoriti dall’eterno che in lui dimora, ubbidiamo in silenzio. Dio non voglia che un giorno si svegli dal suo sonno millenario e ci costringa ad affrontarlo...
La rabbia sterile induce giorno per giorno alla rassegnazione. È come seminare sul ghiaccio: un’immensa distesa luccicante di riflessi. Tutto tace. Un’arida estate verrà senza germogli. I figli senza parole da dire («Io vivo, io godo...»). La colpa dei padri - non detta, nascosta ancora per la vergogna - è così trasparente nei loro volti già vecchi di sesso eroico, di soldi stirati, di salute anabolizzata. Piangere. Certo: possiamo anche piangere, noi, laici predicatori dei Valori, noi che ogni giorno recitiamo lo stesso copione, col cerone amaro sulla lingua che dice: amore e bene e carità. Abbiate pietà di noi, vi chiediamo scusa per il disturbo, e giù gli applausi e poi a ballare su una Lancia Thema Turbo. Cadiamo tutti insieme nel Cocito, col cervello bollito, distrutta ormai la lingua da troppe parole rimaste parole. No, non siete fratelli e figli. Se un giorno - radioso -, giorno in cui tutti sapranno per magia che cosa è giusto fare, saremo decisi a correggere l’opera imperfetta di Dio, allora, “fratelli e figli” soltanto nel sangue, il vostro sangue lo spargeremo sulla terra, per fecondarla e benedirla. Attraverso le vostre tenebre infette verso la luce inumana - se voi siete uomini -. Dal gelo dei vostri abbracci al calore di veri baci. Perché le croci e le parole che vi furono dette abbiano una tardiva, troppo tardiva fioritura, perché chi morì sorridendo, nella bocca cicuta, nel costato piombo, possiamo pensarlo redento. Nelle opere e nel nostro tormento.
Orecchi appesi a un filo, strappati a teste con viva forza, souvenir d’una stagione crudele che tornerà sempre, che è già tornata, il cadavere appeso al lampione, il volto sfigurato dai sassi scagliati con voluttà come i calci sulla pelata a Piazzale Loreto, teste con gli occhi chiusi lembi rosseggianti. La violenza della storia è insostenibile.
Nessun commento:
Posta un commento