sabato 18 febbraio 2012

Vincenzo


Vincenzo mi ha chiesto di parlare di lui in questo strano diario in pubblico nato per caso nelle sere surreali della neve beneventana. Richiesta nata su Facebook, dove parte corposa dei miei amici sono alunni, ex alunni, studenti che mi chiedono l’amicizia. Il ministro attualmente in carica non apprezzerebbe questa scelta, che per me è stata naturale. Ne conosco i rischi. Il professore “amico”, come il papà “amico”, ingenera nell’allievo una sorta di tranquillità rispetto al meccanismo sacrificio/ricompensa. E, infatti, la frequente interazione che ho con loro, appena escono dalla scuola si riduce drasticamente, spesso fino a scomparire del tutto. Ma, ciò nonostante, credo che anche questo luogo vada colonizzato. Da sempre, e come sempre con scarso supporto teorico, ho ritenuto che il “canale” della comunicazione con i miei studenti fosse preliminare (e spesso più importante dei contenuti stessi).
[La prima volta che ho insegnato ad una classe… Una scuola privata religiosa: classi di sole ragazze. Spero di poter confessare senza destare scandalo – ero tanto più giovane di ora – che alcune erano molto belle. Fu un’esperienza intensa, complessa. Ricordo che allora cercai di creare questo “canale” sollecitando le ragazze a scrivermi, in tempi in cui la rete muoveva i primi passi altrove. Alcune lo fecero. La madre superiora, venutolo a sapere, tramite una collega, mi fece sapere che non gradiva. Conservo ancora quelle lettere. Gli adolescenti sono pieni di domande o hanno bisogno semplicemente di qualcuno che li ascolti…].
Vincenzo in classe spesso dorme, normalmente studia per l’ora successiva (ma sempre con molto rispetto), attratto rapsodicamente da un parola che dico, che deve chiosare con una ricreazione verbale, quasi sempre a sfondo sessuale. Quando è saturo della scuola inizia a sollecitare con battute i compagni, che ne subiscono il fascino un po’ zingaresco. L’anno scorso, con me, si salvò in zona Cesarini (dimenticavo: è, in assoluto, l’alunno con più competenze calcistiche che abbia mai avuto; dopo le donne, il calcio costituisce la sua più grande passione, ma come biasimarlo?). Vincenzo, al di là dei suoi tratti specifici, rappresenta una tipologia di alunno molto diffusa, e che mi interroga, mi pone domande, col suo modo d’essere. Infatti, Vincenzo è tutt’altro che “stupido” (consentitemi questa semplificazione). Certo, avrà letto due o tre libri nella sua vita e, probabilmente, ne leggerà altrettanti negli anni avvenire, ma le sue freddure, le sue battute denotano, ad esempio, una notevole capacità associativa, che per me è sintomo d’intelligenza vivace. Nella vita si farà strada, non ho alcun dubbio. Metà Robert De Niro e metà Ibra, come dice lui, paraculo e carismatico con i coetanei, non avrà grandi difficoltà a trovare il suo posto nella vita. E allora cosa mi interpella di tutti i Vincenzo che ho incontrato e incontrerò? Cosa resterà di ciò che ho insegnato a persone come lui? Spesso lo dico ai ragazzi: «non mi importa che, se ci dovessimo incontrare tra dieci o vent’anni, mi diciate che, grazie a me, ricordate ancora la teoria delle idee o il cogito. Mi interessa che le ore trascorse con me vi abbiano reso poi medici, architetti, commercianti più consapevoli, dotati di una propria etica, anche professionale, capaci ancora di porsi problemi». Ma a Vincenzo cosa resterà di questi due anni che avremo trascorso insieme? Ai Vincenzo che vivono sulla superficie del reale, con quella libertà sovrana che Nietzsche additava come unica vita possibile dopo la metafisica, resterà qualche increspatura di tutto ciò che ho raccontato, spiegato, spesso accalorandomi? E, in caso contrario, che senso avrà avuto il nostro stare nello stesso luogo per tanto tempo? Posso consolarmi credendo di aver veicolato qualcosa (non voglio dire un insegnamento ma non so trovare altre parole) non tanto con il mio dire ma con il mio fare e, soprattutto, con il mio essere? Non lo so. E, per questa volta, lascio che le domande restino domande. Solo la vita di Vincenzo e di tutti i ragazzi come lui potranno rispondermi. Se mi sarò dato una risposta, un giorno, ne scriverò ancora.

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