martedì 21 febbraio 2012

e la morte...


Exaudi orationem meam… Così era iniziata questa giornata, ultima di carnevale… Fu il titolo (Carnevale) che volli dare alla mia prima raccolta di versi. Misi in copertina un disegno di Casertano da un bel numero di Dylan Dog… Un topo che fuggiva tra maschere… Era la fase in cui scalavo le cime della disperazione, tra pensieri necrofili e sessualità malata. La carne, la morte… Mi ero svegliato con una profonda angoscia: l’attesa di un verdetto sulla salute di una persona cara, per oggi. Mentre Rosaria e Caterina dormivano, dunque, mi lasciavo penetrare dai miei pensieri neri. Come agirò se le notizie saranno pessime? Come dare conforto ai miei amici che vedono il loro corpo invaso dal male, impotenti? Ogni parola appare vana. Era tanto che non pensavo alla morte. Eppure è stato il pensiero dominante, l’unico, forse, per molti anni nella mia vita. Ricordo ancora, nel corpo, una notte in cui il pensiero era così angosciante che iniziai a piangere a letto. Avevo diciassette o diciotto anni. Allora ero convinto che la morte fosse l’ultima parola. Poi, attraversando le tenebre caliginose della perdita più amara, quella di mia madre, sforzandomi, attraverso la poesia, di dare un senso a quel che avevo vissuto, ritrovai, alla fine, grazie anche ad alcuni incontri pieni di grazia, la via per la luce, la mia “salute”. Eliot mi diede le parole per dirmi che nella fine ci può essere un inizio, e che, dunque, la morte di mia madre era la morte necessaria del seme, per portare i suoi frutti. Da allora la morte non mi ha fatto più paura, e so che essa non avrà più dominio. Ma quando una persona cara inizia a morire o teme che sia così, non posso non interrogarmi di nuovo. Mi sforzo di guardare il mondo dal punto di vista del morente: mondo desolato, incapace di irradiare qualsivoglia sensatezza. Tutto appare congerie di eventi sconnessi. Che ne sarà stato della mia vita, delle mie opere tutte incompiute, cosa resterà di me? Questo si chiede il morente… Se qualcuno mi chiedesse cosa penso sia la morte, come Socrate, senza alcuna certezza, risponderei: o un sonno senza sogni o parlare con i grandi del passato… Senza alcuna certezza. Eppure, senza neppure paura. E questo non perché sia certo dell’immortalità dell’“anima” (cos’è l’anima?), ma perché, in maniera imperfetta, ho saputo ridurre le pretese del mio ego. È lui che ambisce all’immortalità. Cosa dovrebbe sopravvivere di me? E poi quale “me”? Me lo chiedo spesso a proposito di mio padre, che trascorse gli ultimi anni della sua vita in quel mondo a parte costruito dall’Alzheimer, dove pezzi di epoche diverse si giustappongono in una sorta di ricreazione caleidoscopica dell’esistenza. Ebbene, mi chiedevo, se l’anima fosse immortale e sopravvivesse nella forma “terminale” della sua esistenza terrena, l’anima di mio padre sarebbe questo coacervo insensato? O c’è una forma “pura” dell’anima, che sopravvive a tutte le vicissitudini della vita? Oramai da tempo ho deciso che l’atteggiamento più sapiente rispetto alle cose ultime sia accettare l’ignoranza. Ma questo non mi induce a disperazione, anzi. Potrei morire domani. Ho avuto molti doni dalla vita. Lascerei molte cose incompiute? Forse, ma l’essenziale l’avrei fatto: amare qualcuno, compiere qualche gesto di puro dono, realizzare quasi tutte le mie aspirazioni. Nessun superomismo. Credo che nella paura della morte operi, spesso segretamente, una forte sopravvalutazione di sé. La mia preghiera è stata esaudita. Il male per ora è vinto. Grazie, Signore.

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