domenica 19 febbraio 2012

abitare



Si apre il cancello del giardino 
con la docilità della pagina 
che una frequente devozione interroga 
e qui dentro gli sguardi 
non han bisogno di fissare gli oggetti 
che occupano già la memoria 

Conosco le abitudini e le anime 
e quel dialetto di allusioni 
che ogni umano consesso va architettando. 
Non ho bisogno di parlare né di fingere privilegi: 
mi conoscono bene quelli che qui mi stanno intorno, 
sanno bene delle mie angosce e della mia fragilità. 
Questo è raggiungere la vetta più alta, 
quello che forse ci concederà il Cielo: 
né ammirazione né vittorie 
ma semplicemente essere ammessi 
come parte di una Realtà innegabile, 
come le pietre e gli alberi. 

Questa poesia di Borges (Semplicità), poesia a me carissima, dice il mio sentimento dell’abitare e, probabilmente, la mia struttura psichica più profonda. Per me la casa è il luogo della certezza, della stabilità, della sicurezza, dove posso essere ciò che sono senza finzione. Essa mi accoglie come parte del suo essere. Chiudo gli occhi. Rivedo le mie dimore. La casa di Via dei Mulini. Lì nacqui, lì imparai a misurare il mondo, affinai il mio gusto. Chiudo gli occhi: velluto, marmi, scale, vertigine. La mia stanza: un paradiso dove trascorrevo ore giocando e leggendo fumetti della Corno, dove coltivai i primi sogni ad occhi aperti, accolsi il mio seme per la prima volta, stupito, nella mano. E la poltrona dove mi addormentavo sprofondato, vedendo la televisione in bianco e nero con mia madre, le mie sorelle, Maria. E la stanza da letto dei miei, dove cercavo rifugio dai fantasmi che popolavano le mie notti. E la stanza di Rosa e Anna, dove andavo ad ascoltare i primi dischi di musica classica… D’estate andavamo a vivere, dal 1974, in una diroccata casa di campagna, a San Cumano, con traslochi avventurosi. Dovevamo portarci tutto! Nel 1984 decidemmo di andare a vivere definitivamente in campagna. Quel luogo era già importante per me, ma da allora divenne “la casa”, la mia dimora, l’unica capace ancor oggi di sanare le mie ferite. Potrei scrivere pagine e pagine su ogni pietra, su ogni albero, su ogni lembo di terra che la circonda. Il cortile ampio, che accoglie le stelle e il candore lunare, è la proiezione della mia struttura psichica, bisognosa di spazio ma anche di protezione. Nelle notti estive ho raggiunto estasi che mi hanno dato la certezza di Dio. Lì sono diventato me stesso, leggendo, scrivendo. Quella casa è la sopravvivenza di mia madre, che la volle rifare, ampliare, sfidando quasi la sorte che sapeva segnata dalla sua malattia. Per questo per me abitarla significa perpetuare il dialogo mai spezzato con lei, la persona più importante della mia vita. Nulla si è mai spezzato, malgrado gli anni tristi trascorsi lì dopo il matrimonio. Sbagliammo io e Rosaria. Avremmo dovuto andare via. Era casa “mia”, non casa “nostra”. Vi rimanemmo sette anni.
Poi venimmo a vivere di nuovo in città, a Via delle Poste. Per me fu un trauma. Ma fu un bene. Questa casa è accogliente, così dicono. Ma non sarà mai veramente casa mia. Sono esiliato in città, come l’albatro di Baudelaire. Per questo ho accolto con gratitudine la scelta di mia moglie di ristrutturare una piccola casa colonica accanto alla casa-Madre. Lì, da sette anni, andiamo a vivere d’estate… Lì ritempro me stesso, entro in contatto con la forza primigenia della terra di cui mi sento figlio, lì respiro le albe fresche e mi perdo nelle notti stellate, a piedi nudi nella nuda terra, fattomi anch’io tronco o pietra.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Nicola, è difficile immaginare quanto sia dolce consolazione e necessità del cuore essere capaci di far continuare a vivere attraverso noi le persone care che ci accompagnano con la loro silenziosa "presenza", e rintracciare i segni dei loro passi nelle cose che di essi hanno ancora il profumo. E' l'unico conforto alla confusione dei tempi, alle incertezze dominanti che fanno vacillare la vita e minano la nostra quiete. Condivido profondamente le tue emozioni.
Adriana Pedicini

luca rando ha detto...

Caro Nicola,
questi commenti, nati come risposte sequenziali ai tuoi scritti, a voler continuare in altro modo (ma non l'abbiamo già fatto con lunghe lettere scritte a parlare di noi? Ancora le conservo...) un colloquio ininterrotto, non riescono più a seguire l'ordine del tempo, si fanno caotici, dispersivi, incerti. Seguono il movimento del pensiero.
Oggi, a scuola, aspettando che Delia finisse, pensavo ai luoghi che ho attraversato. Ho sempre pensato di non avere un luogo mio, una casa una città da dire "mi appartiene". Troppo precarie, per nascita e scelta le mie abitazioni: Roma e Bari nell'infanzia, poi Benevento ma in case non nostre (prima la caserma, poi via Rummo dove ancora vivono i miei genitori), e ancora Napoli, Viggiano, Melfi per approdare, infine, a Potenza.
Ho attraversato queste città e a tutte sono legato ma non per il luogo in sé ma per le persone che ho incontrato e che sono state per me importanti, Non luoghi da abitare ma luoghi dell'anima.
A parte i parenti, Benevento è il luogo dell'amicizia: la tua casa, a via dei Mulini, la casa dei tuoi nonni dove giocavamo alla pista e a subbuteo, e poi San Cumano, sono state per lunghi anni più casa della mia. San Cumano specialmente era luogo di riflessione, dove mi piaceva venire a piedi, anche quando tu non c'eri, ed allora mi accoglieva Maria.
Napoli è stato il luogo del primo impegno "politico" (la pantera nell'89), del teatro, del mettersi in gioco nella scrittura e nella recitazione: Giulio e Marina, ancora oggi che vivono a Torino, sono rimasti tra i miei più cari amici. Ed è stato luogo anche del primo amore "in casa" (Rossella forse oggi maledice quell'incontro...).
E poi gli anni dell'insegnamento: Maratea (due mesi intensi); Viggiano, prima cattedra annuale, dove dare tutto se stesso (anche troppo), bruciare le tappe, aprirsi e aprire menti e cuori di quei ragazzi che si affacciavano al mondo. Sono stati, quei due anni, i più belli tra quelli che posso ricordare: Maria Serena, Ilaria, Sara, Hilde... Ancora a nominarli sento un tuffo nel cuore, nomi cari alla memoria.
Poi Melfi (4 anni), e anche lì frenesia dell'incontro, bruciare, bruciare - troppo. Luciana, Rosanna (quei quattro anni trascorsi non sono passati invano se ancora mi cercano, ci vediamo) e poi Delia.
Infine Potenza, dove vivo e dove sono nati i miei figli.
Sono gli affetti che mi legano ad un luogo, anche quando da quel luogo sono venuto via da tempo. E' l'immagine che è fissata nella mente e nel cuore, le parole che ho scambiato, le persone stagliate davanti ad un tramonto, lo sguardo scambiato ad aspettare l'alba, la pioggia presa insieme tornando a piedi a casa, i baci e le lacrime versate sulle spalle. No, non è il luogo in sé.
Anche ora che vivo in questa casa e città da più di dieci anni non le sento mie. Le vivo in solitudine con la mia famiglia, segregato in volontaria solitudine in casa, ma non è la mia città. Lo sarà forse dei miei figli, ma non la mia.
Mi piace pensare di essere precario di questo luogo, pur abitandoci. Un luogo per il mio corpo, non per la mente.

luca rando ha detto...

Mi sono accorto, nel rileggere, di aver dimenticato due luoghi dell'animo a me cari: Santa Maria di Castellabate e Taccione. Non posso tacerne e ne faccio qui ammenda: di Santa Maria ho scritto in altri quaderni, di come sia per me un luogo dell'immaginario, di come quel mare abbia rappresentato e rappresenti ancora per me "l'animo mio informe". Troppe cose vissute (anche la tua dichiarazione di esserti fidanzato con Rosaria...), troppe "immagini logiche" che rispondevano ai miei pensieri, troppa vita per non sentirla pienamente e totalmente dentro di me. Il mare, "quel" mare, è sempre stato forza vitale, specie d'autunno o in primavera, in quella spiaggia spoglia e sbattuta dal mare. Quante notti passate a piangere sospirando alle stelle, quanti tramonti assaporati come se stesse per arrivare la fine, quante rocce scalate a piedi o in bicicletta, senza più respiro ma andando ancora avanti a superare l'ultimo ostacolo per vedere, dietro una svolta, un altro spicchio di azzurro...
Taccione e la Sicilia li ho riscoperti in questi ultimi anni. Prima erano solo la terra del ricordo: i nonni, i cugini, la grande Villa Queta, l'Etna e la lava. Ci torno da due anni con la famiglia, a riscoprire luoghi scordati, un albero scalato (che nel ricordo era altissimo ed invece quanto misero e spoglio...), la pietra lavica, il sole. E qui con Delia, ancora single, abbiamo fatto la nostra prima vacanza insieme (sorrido alle foto di noi ancora ignari del futuro). E poi, ricordi Nicola? Anche tu e la tua famiglia passaste per Randazzo e ci incontrammo nella villa dei nonni...

Ecco, mi accorgo che la mia vita è fitta di ricordi e in queste fotografie che li rappresentano solo i luoghi abitati da persone hanno senso e vivono ancora dentro me.

luca