domenica 26 febbraio 2012

comunismo


Tra i tanti progetti di scrittura langue, nei file del pc, un Dizionario. Ne ho appuntato solo alcune voci: Amore, Berlusconi, Comunismo, Dio, Ecologia, Filosofia, Gesù, Heidegger, Illich, Madre, Padre, Rivoluzione, Scuola, Vegetarianesimo. Mancavano già tante lettere nel progetto, mai ho provato a scriverle quelle voci, anche se su di esse ho scritto incessantemente. Oggi ho intrecciato diverse discussioni su Facebook, mescolando i livelli: dal calcio alla medicina occidentale. La più complessa ha riguardato il senso di partiti e la ragion d’essere della c.d. sinistra. Premesso che in questa fase “tecnica” seguo pochissimo, tra disillusione e attesa, parlando con una persona intelligente, cresciuta nel PCI e poi nelle sue filiazioni, abbiamo dissentito sul rapporto tra teoria e prassi, rivendicando lui una pratica politica che si ponga i problemi della trasformazione nella concreta realtà del presente, io la necessità di una “teoria” che sia nuovo fondamento ad un agire politico. Citavo l’aurea epigrafe de L’uomo è antiquato, testo cardinale della mia formazione:

«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E in larga misura questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi» (Günther Anders, Il mondo è antiquato, Bollati Boringhieri, 1992, p. VII).

La discussione sta continuando, ovviamente. Ma mi interessava, invece, in questo momento di raccoglimento serale, mettere insieme un po’ di elementi della riflessione svolta in questi anni, grazie anche ai colloqui in rete con molti amici, e avviare la scrittura della voce “Comunismo” del mio Dizionario, destinato inevitabilmente a rimanere incompiuto.
Presso molti studenti gira voce che io sia “comunista”. Il che, da un certo punto di vista, è assolutamente vero. A patto che “comunismo” non indichi una dottrina organica, ma l’anelito alla giustizia sociale e la volontà di superare l’assetto capitalistico assunto dall’economia planetaria nell’era dell’occidentalizzazione del mondo. Dunque, in primis, non sono marxista, sebbene riconosca a Marx immensi meriti, per i quali bisogna continuare a confrontarsi con la sua opera. E non sono marxista perché Marx è tutto dentro la “metafisica” occidentale come progressivo dispiegamento della “volontà di potenza” che ha portato l’uomo a dominare, spietatamente, la totalità dell’ente mondano, è tutto dentro la follia prometeica (Prometeo era il suo mito prediletto) che ha spinto a violare ogni limite, fino alla distruzione dell’umano. Inoltre, a mio avviso, Marx fu rovinato dall’incontro con la filosofia hegeliana, che lo spinse a fondare una “filosofia della storia”, con apocalipsis finale: la ricostituzione della natura umana nella società comunista. Considero Marx parte importante, decisiva ma non ultimativa, di una storia che lo precede e che lo può seguire, e i cui semi vanno cercati molto indietro nel tempo (per quanto mi riguarda nella predicazione di Thomas Müntzer, il riformatore prima amico e poi avversario di Lutero, cui Ernst Bloch ha dedicato un libro memorabile e che si incontra anche in Q di Luther Blisset). Ma un comunismo all’altezza del nostro tempo su cosa si può fondare? Guardo con molta attenzione all’elaborazione che da anni va facendo Toni Negri, insieme a Michael Hardt. Lo considero l’ambizioso tentativo di riscrivere Marx coniugandolo alle scoperte di Foucault sulla biopolitca e il biopotere. Pur condividendo molte delle analisi negriane (soprattutto sul conflitto e la resistenza come vero motore della storia), c’è un’antropologia “materialistica” che mi ripugna, così come una “mistica” della violenza, che mi pare retaggio di un’altra epoca storico-politica. A differenza di Marx e di Negri, sono convinto che l’assetto politico ed economico (l’Impero, il Capitalismo) non creino dialetticamente le premesse per il loro superamento. Questo mi sembra l’influsso più pernicioso di una visione “necessitarista” della storia, che mortifica la libertà dell’uomo. La storia, mi ha insegnato Edgar Morin, è assolutamente imprevedibile: anzi, l’unica cosa che si può prevedere è che non si può prevedere. Non ha senso cercarne presunte “leggi” o direzioni obbligate. Il superamento dello stato di cose presente è frutto del libero agire dell’uomo, che deve avere un fondamento morale. Deve essere l’orrore per l’ingiustizia a spingere gli uomini a trasformare la realtà. Il “mondo nuovo” dovrebbe realizzare, però, quanto Marx scriveva: «Ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni», riconducendo l’economia al rango che le pertiene, elemento importante ma non decisivo della vita di una comunità, subordinato ad altre istanze, in primis al legame sociale. E qui, credo, che dovrebbe avvenire l’altro passaggio paradigmatico (soprattutto rispetto alle derive “liberal-liberiste” di molti ex compagni, tra cui il mio interlocutore): bisogna superare la visione dell’uomo come “individuo” o “persona” (lo so, non è la stessa cosa, ma qui può bastare). Il grande pensiero (soprattutto ebraico: Buber, Lévinas) del Novecento ci ha dato un nuovo paradigma “relazionale” che deve essere il fondamento di una nuova politica. Infine, tutto questo ha senso solo se il “comunismo” che verrà, realizzando l’utopia concreta della “decrescita conviviale” (auspicata prima da Illich poi da Latouche), porterà ad una nuova modalità di relazione con la Terra e il Cosmo, che abbia a fondamento non tanto e non solo una motivazione “eco-logica”, ma anche spirituale: una spiritualità, però, planetaria e, dunque, necessariamente meticcia, ma consapevole della “sacralità” della Terra-Patria. Questa modalità nuova potrà essere solo il frutto di un “ascolto” e di uno “sguardo” poetico sul reale, capace di cogliere la totalità degli enti non come “a disposizione” dell’uomo ma come dono della cui tutela l’uomo – creatura e non demiurgo o, tanto meno, creatore - è co-responsabile.
In attesa di una sintesi, dunque, la politica odierna si corrompe: non solo nel senso dell’appropriazione della ricchezza pubblica a fini privati ma proprio nel senso organico. Essa va in putrefazione, a destra come a sinistra, priva di memoria e di speranza, sradicante e disperante:

«Natività, guida i non sottomessi, affinché scoprano la loro base; la mandorla degna di fede dell’indomani nuovo» (René Char)

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