«Ci vuole un’altra vita», cantava Battiato in una bella canzone di oramai tanti anni fa. Ho sempre pensato che quella “uscita di sicurezza” fosse a mia disposizione nei momenti di disperazione, nei momenti in cui in mio inguaribile ottimismo quotidiano, che ho tradotto in una “filosofia della speranza e della salute”, che anche su queste pagine proclamo con fede incrollabile, viene meno. Perché ci sono giorni oscuri in cui ogni cosa che accade sembra confermarci nella nostra cupa disperazione. Potrebbe essere il gatto che ho visto rantolare lungo la strada, colpito a morte, e, dunque, il dolore del creato che ancora una volta irride la mia speranza, gridandole che è priva di senso. Certo, potrebbe essere: la morte, soprattutto degli animali, rimane ancora per me un evento funesto, una lacerazione nel tessuto dei giorni che mi stringe il cuore. O potrebbe essere una radice del mio cuore che è rimasta per sempre malata, malgrado la “coazione alla luce”, che è stato il mio faticoso cammino consapevole, radice che periodicamente proclama di essere sempre vitale nella sua malattia, nel suo bramare l’oscurità a dispetto di ogni radura luminosa. O potrebbe essere, più semplicemente, che il carico di infelicità quotidiana, la mia dimensione più prosaica, presenta il conto. Ed è la mancanza dell’amore che avrei voluto nella vita, l’incompiutezza di una relazione che, a discapito del cadere nel tempo, non si è mai plasmata come opera d’arte.
[Nella mia adolescenza guardavo con disgusto i miei genitori. Mi chiedevo cosa mai li avesse potuti unire. Pensavo ossessivamente che avevano costituito una piccola “impresa”, il cui unico collante fossero i figli e il benessere economico. A quella “impresa” contrapponevo il mio amore “puro”, “disinteressato”, vivendolo come contestazione dei valori “borghesi”].
Mi rendo spesso conto che Rosaria è la grande assente dalla mia dimensione “pubblica”. Mai accanto a me negli eventi che organizzo o a cui sono chiamato, ma neanche presente nelle mie discussioni. Ricordo che lessi con invidia e ammirazione il testo che André Gorz dedicò alla sua compagna di vita, Dorine Kahn. Lo prestai anche a Maria Luisa, una mia alunna brillante e ironica (troppo, le dicevo, esortandola al pathos, all'immersione senza difese nella vita, come Ameliè). Mi disse che quelle cose non esistono nella realtà. Ma io ho sempre creduto nell’amore. Forse questa è stata il grande equivoco della mia vita. Continuare a credere che l’amore assoluto esista, e percepire di non essere riuscito a realizzarlo. Perché l’amore, dico spesso ai ragazzi, non è una fiamma che arde per virtù propria ma, al limite, un fuoco che va alimentato quotidianamente perché non si spenga, o una casa che va completata e poi conservata negli anni. Sicuramente è un’opera, forse la più grande.
Mia figlia mi chiede spesso:”Ma tu ami mamma?”. I bambini hanno bisogno di certezze. Senza esitare le dico di sì. Sto mentendo? C’è una storia lunghissima, iniziata nel 1984, uno di quei casi rari (vivamente sconsigliati) di ostinata fedeltà, che non tiene, ad esempio, conto di quanto si cambi e di come sia difficile cambiare insieme. Eppure anche questo è un retaggio della mia storia, dei film visti con mia madre in cui l’amore è uno solo ed è per sempre, contro ogni realistica considerazione della psicologia umana. Qualche anno fa ebbi la folgorazione, forse, più importante della mia vita recente, dopo settimane di disperazione in cui ipotizzavo scelte estreme, cambiamenti radicali: io sono la mia storia. Credetti finanche di aver capito, infine, alcune affermazioni dell’Heidegger di Essere e Tempo. Non si può mai ricominciare daccapo. Io sono la mia storia. E di questa storia mia moglie non solo è parte integrante ma è parte decisiva. Calendario alla mano, sono più gli anni trascorsi con lei che quelli trascorsi con mia madre.
Il mio sogno: una vita domestica serena, con la condivisione di molti momenti. Una casa aperta alle vite degli altri. Una cura senza ansie per nostra figlia. Mi ripeto spesso che, guardando alla nostra generazione, siamo dei privilegiati. Perché questo non riesce a trasformarsi in una vita piena e dobbiamo, invece, convivere con quelle nevrosi che, appunto, fanno sognare “un’altra vita”? Come sempre, ma pare destino di queste pagine, non ho risposte soddisfacenti. Probabilmente se le avessi non scriverei, per confermarmi nella mia storia. E, dunque, sapendo che è uno di quei giorni in cui la mestizia più profonda non mi lascerà in nessun caso, che l’immagine del gatto rantolante, la radice malata e cupa che mi porto nel cuore, il senso di scacco e fallimento della relazione più importante della mia vita non mi abbandoneranno, posso solo aspettare che finisca questo giorno, attendere il balsamo della notte, dimenticare nel lavoro tutta la mia incompiutezza.
Passerà anche questa stazione senza far male,
passerà questa pioggia sottile come passa il dolore,
ma dove dov'è il tuo amore, ma dove è finito il tuo amore?
(F. De Andrè, Hotel Supramonte)
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