venerdì 10 febbraio 2012

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Come questa estate mi sono imposto la disciplina della corsa quotidiana, allo stesso modo, per arginare la deriva di insensatezza di quest’inverno (non marzo per me ma sicuramente i mesi che lo precedono sono dotati di una crudeltà che devo ancora comprendere) ho deciso di scrivere. Dunque, queste parole sono un esercizio. Come la corsa dona elasticità ai tessuti, infonde vigore ai muscoli, così la scrittura mi costringe ad esercitare il pensiero, che altrimenti si lascia irretire dalla routine quotidiana (che talvolta sa essere molto gradevole: “gradevole”, appunto). La corsa, però, è sempre identica. Posso variare il percorso, ma, appunto, c’è un percorso. Certo, qui c’è la pagina che ho deciso circoscriva il discorso. Mi sono imposto quest’unico limite formale. Il contenuto, mi sono detto, segua l’estro del giorno o dell’ora del giorno, gli accadimenti interiori ed esteriori (l’ordine non è casuale: lo so, ahimé).
[C’è stato un tempo, che ricordo come un sogno, in cui ho sognato di cancellare il mio Io. Leggevo i mistici di ogni spiritualità. Praticavo esercizi ascetici, con lo slancio generoso ed ottuso dell’autodidatta. Eppure sapevo che, nelle cose dello spirito, le guide sono fondamentali. Sin dalla mia adolescenza l’ascesi mi ha dato brividi che talvolta penso siano estetizzanti. Eppure quando leggevo Schopenhauer o Hesse davvero pensavo che era quella la vita che volevo: libero dal desiderio della carne, dalla fame, senza desideri… Ora so che era una forma malintesa di ascesi, fatta solo di rinunzia. E mi sono riconciliato con molte parti di me, troppo a lungo disprezzate e incomprese. Eppure di quel tempo vorrei conservare, come luce, l’aspirazione ad anteporre il Tu, il volto dell’Altro, all’Io. La mia carnalità, in fondo, altro non è che ego smisurato, che pure cerca di camuffare in mille modi la sua volontà di potenza dietro un’umiltà di facciata].
È un diario in pubblico quello che sto scrivendo? Purgato solo dell’indicibile, dei desideri più inconfessabili se non a pagine gelosamente custodite prima da cassetti e chiavi ora da password esotiche? (La mia è un ricordo della prima adolescenza… È la sigla con cui ci firmavamo io e il mio fraterno amico nei primi videogiochi che iniziavano ad apparire nei bar della città). Ho imparato ad accettare l’esistenza di “cassetti” chiusi a chiave nella mia esistenza, zone che appartengono solo a me stesso. So che nessuna forma scritta o d’altro tipo potrà “dirle” senza tra-dirle. Quindi scrivo solo per me. Invece qui sto tentando uno stranissimo esperimento, reso possibile dai fragili equilibri che la maturità consente. La maturità per me è stata accettare, oltre alle responsabilità (vivere senza rete, mi ripeto spesso), i miei limiti strutturali. Accettare, ad esempio, che non sarei mai diventato un grande scrittore e ciò nonostante continuare a scrivere, ridefinendo il senso che la scrittura aveva per me, ad ogni stagione. Esistono stagioni della vita in cui possiamo illuderci di poter essere ogni cosa, di potere ogni cosa. Ora so che la maturità ha dei grandi pregi. Ad esempio, quando gioco a pallone so qual è il mio limite, so quando posso fare uno scatto e quando devo riprendere fiato. Da giovane, quando sognavo di potere tutto, eccedevo, mi spendevo tutto in uno scatto al di là dei miei limiti fisici, e poi mi accasciavo inerte per la restante parte dell’incontro. Conoscere il limite è saggezza, anche se, mi dico memore di una canzone che amo tanto di Battisti, c’è il rischio di una prudenza stagnante, di una vita ritirata a risparmiare forze, di sfide mai accettate perché, appunto, al di là dei nostri limiti. I limiti, dunque, vanno anche forzati. La collina dei ciliegi va conservata come stella polare che orienti i nostri percorsi.
Divago. Ma può essere altro per me la scrittura in questo tempo? Non la guido. È lei che guida me (per questo amo la poesia: le parole germinano sensi inattesi, “chiamano” altre parole, rompono il flusso della razionalità). Posso solo seguire con molta umiltà questi “sentieri interrotti”. In fondo, non faccio che andare senza meta nel bosco della mia esistenza, dove incontro persone, eventi, libri. Non sarò mai una città come quelle sognate dagli architetti rinascimentali. E, in fondo, è bene che sia così. Forse sarò pienamente non realizzato ma felice quando lascerò accadere le cose in me e fuori di me. So già che non si verificherà mai. Ho iniziato questo diario in pubblico con l’immagine di un cavaliere che, immaginavo, attraversava proprio l’oscurità di un bosco. Il mio super-ego è quel cavaliere dell’ethos e della polis. Come potrebbe accettare di vagabondare in un bosco, come un Thoreau qualsiasi? Saprò mai, dunque, convincere quel cavaliere a scendere dal suo nobile destriero e sostare lungo un lago, guardando i cerchi di un albero tagliato per ore ed ore?

1 commento:

luca rando ha detto...

Caro Nicola,
durante le lente salite in bicicletta, in estate, se c'è una cosa che ho imparato è l'esercizio del pensiero e del respiro. Non conta quanto lunga e complessa sia la salita, anche perché non sto svolgendo gare se non con me stesso, l'importante sono testa e polmoni: la mente si libera. costruendo pensieri dentro lo spettacolo che si apre davanti agli occhi oppure riordinando i pensiersi vaghi e dispersi della giornata trascorsa; il respiro si accorda al passo lento, non sforzare, uno - due, senza la fretta che dimaga l'andare...
Fioriscono idee nella fatica, si rilassano i pensieri nello sforzo dei pedali, si acquieta la piena del giorno.
Se tu corri la mattina presto, io invece vado in bici nell'ora più calda, alle tre del pomeriggio, quando per le strade incontri solo qualche ombra turbata. E' orario scelto per non togliere tempo ai figli.
In inverno, però, quest'esercizio manca. Abbiamo provato, con Delia, ad uscire la domenica mattina, per un'ora, lasciando i figli alla baby sitter televisione, ma i timori - e forse la pigrizia - sono più forti del desiderio di una uscita insieme.
Il respiro si fa affanno, in inverno; la corsa quotidiana la mattina per accompagnare i figli, la scuola, i compiti, il basket, la piscina, quel poco tempo che ti rimane... E' un inganno, lo so, dire che il tempo non basta, sei tu che giri a vuoto: «Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita in maximarum rerum consummationem large data est,si tota bene collocaretur».
Ma è nei pomeriggi estivi che si apre il cuore, con l'odore dei limoni...