sabato 11 febbraio 2012

scrittura, preghiera


I miei non sono esercizi di stile. Il mio retaggio cristiano mi impedisce qualunque indulgenza nei confronti di una parola “inutile”, fine a se stessa. Di qui il disprezzo che stupisce spesso i miei alunni per autori come Wilde, D’Annunzio o Mallarmé (con le dovute differenze). Come scrive Isaia: “Così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senz’aver compiuto quello ch’io voglio, e menato a buon fine ciò per cui l’ho mandata”. La mia parola “ideale” è una parola efficace. Deve produrre degli effetti sulla realtà, sul comportamento (mio o degli altri). Anzi (questa è un’acquisizione più recente, dovuta alla meditazione sulla poesia di Char): deve sforzarsi di essere essa stessa accadimento. Per questo non ho mai coltivato un genere in maniera rigida… Quando pensavo piccoli saggi sui libri decisivi della mia vita per “Soglie” (poi confluiti in In quieta ricerca) ho affrontato indifferentemente Bonhoeffer e Pomilio, la Weil e Tarkovskij. Il “genere” è sintomo di una sclerotizzazione della ricerca. Lo spirito trova le forme più adeguate. E, dunque, se questi che mi sono imposti non sono esercizi di stile (e se è vero che le scuole di scrittura mi lascino sempre perplesso, perché dissociano la scrittura dal suo scopo, lavorando solo sul “medium”), allora cosa sono? A che servono? Penso di averlo detto già.
[Rileggo spesso i miei diari. Li tengo dal 1984. Con qualche anticipazione dall’anno precedente in un diario scolastico di appunti, frammenti. Certe volte ho l’impressione che non sia mia la vita che ne emerge. Così mi capita di rileggere articoli o saggi di qualche anno fa, e ne resto colpito… Come tutti, però, non faccio che girare intorno alle stesse ossessioni, a pormi le stesse domande].
Scrivo perché rimanga qualcosa di questi giorni. Scrivo per mettere ordine. Dunque, l’efficacia riguarda me? Sono pensieri a me stesso, come quelli di Marc’Aurelio? E allora perché pubblicarli sul blog? Perché dire a Luca (che oggi compie quarantacinque anni: ci conoscemmo in prima elementare al Collegio La Salle) di leggere quello che scrivo? In fondo, non sono mai stato particolarmente tedioso con gli altri, imponendogli la tortura della lettura forzata. E, pur carezzando ripetutamente l’idea di pubblicare ciò che scrivo, non ho mai perseguito l’obiettivo con la ferocia della fede (che ho avuto, ad esempio, rispetto all’insegnamento). Qualcuno penserà che è semplice vanità. E potrebbe essere. Ma non è che, invece, questa dimensione pubblica mi impone una disciplina e delle regole? In primis la chiarezza. Ho imparato, da docente, che noi capiamo veramente le cose quando dobbiamo spiegarle agli altri. Ebbene, dovendo comunicare con chi forse mi leggerà, cerco di capire veramente le mie dinamiche interiori o di ricostruire alcuni snodi della mia esistenza, che per me stesso non ne avrebbero bisogno. E quindi produco una traccia che, nel tempo, si rivelerà preziosa. Esattamente come i diari, che talvolta leggo come un estraneo. Ma perché, allora, non continuare a scrivere il diario e basta? Forse, ma è un’ipotesi, questi anni di dialogo in rete, l’uso sistematico dei forum (oramai in via di sparizione e che anch’io non uso da molto) e poi soprattutto di Facebook, ha modificato la modalità stessa della scrittura. Allora diciamo che in queste pagine faccio in maniera solo più sistematica quello che oramai ogni giorno da tre anni vado facendo quando mi connetto la mattina per dialogare in rete, postare canzoni, ritagli di giornali, fare gli auguri. I social network hanno radicalmente mutato il mio rapporto con la scrittura (sarebbe interessante lavoro di ricognizione sulla letteratura contemporanea analizzare questi mutamenti indotti dalle tecnologie di rete). Però, un’altra voce mi dice che ora io sono all’affannosa ricerca del senso, che questa pagina, proprio nei suoi limiti, ha un centro, che invece nella rete infinita si perde, facendoci rotolare dal centro alla x, privandoci del senso nel momento in cui sollecita la nostra curiositas… In me convivono ancora senza sintesi l’uomo che detesta la tecnica e sogna un mondo fatto solo di pietra, legno, terra e acque, e l’uomo che coglie la portata rivoluzionaria di questa rete immateriale che sta plasmando una mente terrestre, sta dando un cervello a Gaia. Irresoluto, continuo ad interrogarmi. Video bona, deteriora sequor… So che questo esercizio di scrittura è prima di tutto raccoglimento, e, dunque, preghiera, l’unica che mi appartenga veramente. Dove riesco a ritrovare il centro, sto pregando. Quando smarrisco, navigando nel mare calmo in-formatico (senza forma?), questo centro, mi smarrisco, pur essendo in relazione. Ieri scrivevo di aver sognato di distruggere il mio Io. Ma la rete, in qualche modo, non è la realizzazione di questo sogno? No, perché in una relazione troppo spesso superficiale e disincarnata, sono proprio i desideri più bassi (la curiositas che trasforma Lucio in asino…) ad essere nutriti. Fermo la navicella del mio ingegno, ammaino le vele. Non so dove andare.

2 commenti:

Giovanni Rossetti ha detto...

Caro Nicola, leggo con molto piacere quanto scrivi, non solo perché è ben scritto, ma soprattutto per il significato profondo che che ne emerge prepotentemente. Ti dico subito che sono stato sollecitato a questa mia comunicazione con te per le cose che stai facendo con la 'scuola' di filosofia, per quell'azione pubblica e di visibilità che tu ritieni necessarie per l'efficacia della parola. Io, ahimè, non concordo del tutto con questa 'intenzione', perché forse influenzato dalla riflessione batesoniana sugli strani meccanismi messi in moto dalla mentalità soprattutto occidentale, e che possono tutti raccogliersi sotto l'egida della cosiddetta "finalità cosciente". Lì dove il sapere è potere! Giancristiano nella sua 'lectio' (che in verità contraddiceva le aspettative di alcuni dei convenuti all'evento) ha ben detto della comune volontà di controllo dell'ente da parte di chi, portando alle estreme conseguenze il filosofare, ha lasciato alla scienza il compito di realizzare quest'impossibilità. Noi siamo soltanto i complici non più inconsapevoli di un 'fare' che pian piano viene messo a nudo da chi da sempre ha creduto nella necessita del sapere scientifico, come me, e che ora si rende conto della altrettanto necessaria critica! Ma attenzione, la volontà è una brutta bestia, perché raccoglie come fiume in piena anche i nostri "egotismi' , le nostre velleità, i nostri pregiudizi ... E ho apprezzato la tua volontà di liberarti di essi, leggendo con commozione i tuoi tentativi. Oggi, a me, che guardo dall'esterno (ma che, ti assicuro, sono molto più vicino a te di quanto tu possa immaginare), sembra che il tuo fare abbia messo tra parentesi la necessità del silenzio e dell'ascesi per adeguarsi a una prassi politica di sinistra, che conserva, sia pure in modo sottinteso, il valore didascalico e di orientamento delle coscienze, tipico di chi vuole ancora una volta controllare (filosoficamente) l'ente! E qui l'ente non è più l'astrattezza di tutti gli enti, bensì un preciso confine dell'ente degli esseri coscienti che si modificano con e attraverso la parola. Naturalmente concordo sul fatto che la parola debba essere accadimento. Ma non intenzionale! E allora come si fa a conciliare l'impossibilità del progetto con la necessità dell'evento che ci parla in maniera realmente significativa? Non conosco la risposta ... Ed è per questo che mi sono imposto di essere il meno visibile possibile. Ora però sono tentato, e di fatto ormai sono vittima della tentazione, perché ti sto scrivendo. Spero solo che questo sia un modo per ricominciare una comunicazione più volte interrotta... Più volte ricominciata! Avrei da dire molte cose, troppe, ma mi interrompo per non dilungarmi. Ciò basti però a dichiararti la mia simpatia per quanto stai facendo insieme agli altri, che stimo altrettanto ...con affetto

Nicola Sguera ha detto...

Caro Giovanni, grazie per l'attenzione che dedichi alle mie cose. Conosci la mia stima nei confronti del tuo percorso intellettuale e umano, dunque, non mi perderò in convenevoli. Le cose che vado facendo negli ultimi anni rispondono esclusivamente ad istanze di senso. Purificata la vanità, il bisogno di essere "riconosciuto", umanissimo per carità, in altre vite, ora, quando intraprendo qualcosa, rispondo prima di tutto ad un bisogno mio. E lo faccio sulla base non più di "certezze" (quali quelle che mossero sicuramente "la rosa necessaria" e, parzialmente, "soglie") ma di domande. Per questo non credo, neanche inconsciamente, di voler orientare le coscienze. È un groviglio difficile da dipanare quello che evochi: certo, io non rifiuto l’etichetta che mi è stata affibbiata tempo fa da Carlo Panella di “intellettuale”. Dunque, non negherei mai che, tra i nostri compiti, rientri anche quello di partecipare alla vita civile (e anche di questo si è parlato nella seduta inaugurale della Scuola, durante la discussione). Ma sulla base di una “visione del mondo” (perdona la rozzezza dell’espressione) che, maturata tra l’Heidegger che presupponi nelle tue riflessioni, e altre tradizioni (penso alla Arendt, che pure è diramazione, in qualche modo, dell’heideggerismo), non postula alcuna “verità” da dare, cui educare. Qui, vedi, convergevamo io e Giancristiano. L’ho scritto, e lo ripeto. Se la verità non “esiste” (ma, al limite, “si dà”), come educarvi qualcuno? Di qui il rafforzamento di un già forte e di ascendenza romantica antiscientismo, arricchito dalla scoperta di epistemologie e ricostruzioni della scienza complesse (come quella di Kuhn). Allora, dirai, perché non scegliere il silenzio? Perché siamo uomini… L’altro filone che in questi anni ha plasmato la mia “visione del mondo” è la grande filosofia ebraica, filosofia morale. Penso a Buber e Levinas. Mi hanno insegnato una via, per me integrabile con quella heideggeriana (per altri in contraddizione), per mettere in scacco l’Io occidentale, il vero fondamento del sapere tecnico e della volontà di potenza. È la scoperta del fondamento relazionale dell’uomo, Io-Tu, apertura al Volto. E, dunque, anche l’idea che per anni avevo coltivato dell’ascesi come fuga dal mondo è diventata più dolce, accettando come parte fondante della mia umanità la “koinonia”. E, dunque, la parola che coltivo, soprattutto la parola poetica, non ha alcuna volontà di controllo. La Scuola non è un luogo per trasmettere certezze ma uno spazio per l’accadimento del dia-logos, l’unico che abbia senso, venuta meno ogni verità. Esattamente come quello che sta accadendo tra te e me in questo momento.
So che ti sembrerà tutto molto confuso. E forse io stesso dovrei fare un maggiore sforzo per armonizzare cose così lontane (e non è detto che questo non sia il mio compito per gli anni futuri). Considera questo solo un avvio di discussione.
Rispetto, in ogni caso, le tue scelte, improntate al più assoluto rigore.
Un caro saluto.