martedì 7 febbraio 2012

scrittura, forma...

Tutte le cose scritte in questi anni sono salvate su vari supporti: originariamente erano floppy disk (che non vengono più prodotti e per i quali non siamo neanche più attrezzati alla lettura), poi cd, dvd, infine un hard disk esterno molto capiente. La cartella è fitta di sottocartelle. Nella mia ansia di ordine sono numerate: 1. Poesie; 2. Diario; 3. Quaderni; 4. Articoli; 5. Interventi; 6. Interviste (me ne stupisco io stesso). Poi c’è una cartella “refugium peccatorum”: Altro. La mia maledizione in tutte le archiviazioni. La apro ancora una volta: Romanzi, Racconti, Facebook, Prose, Quaderni filosofici, Scritti vari, Appunti, Appunti di lettura, Appunti per la scuola, Auguri, Blog, Chat, Colloquio, Comunicati, Confessioni, Critica letteraria, Dizionario, Forum, Fotoaforismi, Fragmenta, I fiumi a nord del futuro, In quieta ricerca, L’arte del transito, Lavori, Lezioni di filosofia, Meditazioni in preghiera, Messaggi a Rosaria, Politica, Preghiere, Sogni, Tesi, Zibaldone. Questa è la mia vita. O almeno così credo, talvolta. Talaltra mi rendo conto che le maglie della scrittura lasciano passare tante di quelle cose che si perdono. Lo intuii a proposito della scrittura diaristica, forse la più congeniale a me. Rileggendo periodicamente le cose scritte, mi rendevo conto che moltissimi avvenimenti esteriori, che però avevano inciso profondamente nella mia vita anche interiore, erano passati inosservati, impensati. E che invece tornavano, anche a distanza di tantissimi anni, considerazioni affini. Come se il diario fosse capace di cogliere le permanenze e non le mutazioni (per usare categorie di un amico di valore, Gaetano Cantone). Allora la scrittura, nella sua multiforme ricchezza (di qui il pedante elenco che ne ho fatto), non esaurisce mai la nostra vita.
[Oggi sono tornato a San Cumano a risolvere un problema d’acqua. Al ritorno ho visto un cane, piccolo che vagava nella neve… L’ho guardato con durezza: sapevo di non poterlo prendere con me. Il tempo mi ha insegnato a chiudere spesso le porte del cuore: mi capita di fronte a foto orribili, a notizie di madri e padri che sopprimono le piccole vite che hanno messo al mondo. Mi capita, stranamente, di fronte ad un film: non riesco più a vedere sofferenze neanche immaginarie, se non insieme ad altri. E capisco, dunque, perché la tragedia greca fosse uno rituale. La sofferenza diventa purificatrice solo se siamo connessi con altri uomini. La sofferenza, anche solo ricostruita a parole o per immagini, diventa il medium di una relazione che dà senso al nostro essere creature doloranti].
Io sono molto di più delle cose che ho scritto e scriverò. Eppure solo la scrittura mi dà l’illusione di una “forma”, che altrimenti sarebbe affidata all’interpretazione delle persone che mi hanno e mi avranno conosciuto. Ogni raccolta di versi, invece, è il tentativo di fermare un’immagine di me, in cui è chiaramente visibile la parola “fine” che dà un senso a tutti i fotogrammi precedenti. Forse scrivo per questo. Per avere forma. La mia vita è una lotta diuturna tra il caos e la forma, e la scrittura è l’unica arma che ho per combattere le tenebre che mi circondano, come il Cavaliere di Dürer (il mio fraterno amico, Luca Rando, ricorderà che lo volli sulla prima copertina del numero 0 ciclostilato de “La rosa necessaria”). C’è una straordinario testo di Dietrich Bonhoeffer in cui si chiede chi sia. E le risposte sono opposte: dal di dentro si percepisce meschino e pauroso, gli altri lo vedono coraggioso, generoso e regale:
«Chi sono io? Oggi sono uno, domani un altro? Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini un simulatore e davanti a me uno spregevole vigliacco? Chi sono io? Questo porre domande da soli è derisione. Chiunque io sia, tu mi conosci, o Dio, io sono tuo!»
Se avessi veramente fede, accetterei con umiltà che a ricomporre la mia unità fosse Dio, accetterei l’irresolubile frantumazone della mia personalità. Poiché per buona parte della giornata sono un miscredente, continuo a scrivere, cercando la mia forma. Ostinatamente. E, dunque, quando la mia fede sarà più salda, il mio auspicio è che la parola si sciolga nel canto di lode e benedizione.

1 commento:

luca rando ha detto...

Caro Nicola,
trovare compimento nella scrittura è qualcosa che a lungo abbiamo cercato e che personalmente ho sperato soprattutto perché c'erano cose che non riuscivo o potevo dire in altro modo. C'era una urgenza, dello scrivere, perché c'era un impedimento alla vita pienamente vissuta, un riserbo o una incapacità che bloccava il corpo, e solo nella scrittura trovava il modo di esprimersi.
Le mani, illuse, credevano di essere illese dall'abominio della mente... A lungo ho pensato che fosse quello il luogo, il mio, in cui essere pienamente me stesso. Ma anche quell'idea era un inganno. La pagina scritta (perché solo così, nonostante la mia "informatizzazione", riesco ancora a scrivere, su un foglio, con una penna, salvo poi riportare - raramente! - ciò che ho scritto nell'hard disk del computer) diventava un alibi per non vivere, per sfuggire o per ricomporre i pezzi di un dolore, incapace a dire, ad aprirmi se non in rari sfoghi amicali, quando tutto era già compiuto, la vita o la morte.
E comunque anche lì, anche qui, la reticenza, il dire con pudore per nascondere, anche a se stessi, l'orrore di un vuoto, l'errore.
Ci sono decine di quaderni, pagine strappate ad agende - oltre a tutto ciò che è andato perduto o è stato distrutto - che anche tu in parte hai letto.
Sì, c'è la nostra vita in quelle pagine, ma quanto è rimasto fuori: baci, risate, lacrime, incontri e scontri. Forse in te la scrittura diaristica ha preservato anche questo, io, leggendo a caso, trovo solo vuote elucubrazioni, raramente la vita.
Negli anni ho scritto sempre meno. Prima ho abbandonato la scrittura dei miei pensieri rivolgendomi ai figli con quaderni che raccontassero la loro crescita, poi ho abbandonato anche quella, sempre più sfiduciato sul ruolo della scrittura.
Ci sono giorni che mi prende un pensiero, lo fisso nella mente riproponendomi di metterlo su carta, poi tutto passa e la notte cado in un sonno senza sogni.
Non so, Nicola. Forse è l'idea che la scrittura "possa dirci" che è venuta meno, forse non mi piace più quello che leggo, quello che scrivo... Forse solo il cavaliere si è stancato di combattere ed ha accettato il caos.

luca