lunedì 4 gennaio 2016

le lettere di Cioran al fratello



Giusto vent’anni fa, il 20 giugno del 1995 scompariva, a Parigi, dove si era trasferito nel 1937, Emil Cioran, “scrittore” rumeno, considerato tra i massimi prosatori in lingua francese del XX secolo. Ho detto “scrittore” perché mi risulta difficile definirlo filosofo e tanto meno pensatore. Probabilmente la miglior definizione di Cioran è quella di “moralista”. L’occasione per fare i conti con un autore che è stato molto importante nella mia “Bildung” è offerta dall’uscita di Ineffabile nostalgia. Lettere al fratello 1931-1985 (Archinto, 2015), curato da uno degli specialisti cioraniani del nostro paese, Massimo Carloni, e da Horia Corneliu Cicortaş. Il libro seleziona la parte più interessante dell’epistolario che Cioran scambiò con il fratello, Aurel, rimasto in Romania. 
Cioran ha goduto di larghissima fortuna editoriale in Italia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, grazie soprattutto ai suoi libri maggiori usciti per Adelphi, e ha importanti estimatori di rango come Guido Ceronetti e Mario Andrea Rigoni. 
Come spesso accade (ne sapeva qualcosa Petrarca, che rimase stordito dalla scoperta delle lettere di un Cicerone “in pantofole”), la lettura di un epistolario ci dona un punto di vista nuovo su un autore che pure riteniamo di conoscere bene. Io sono rimasto colpito dall’attenzione alle piccole cose di tutti i giorni che occupano buona parte delle discussioni con il fratello: la salute, il cibo, gli indumenti, i nipoti che crescono. Fa onore allo scrittore, che dai libri maggiori appare solitario e misantropo sulle “cime della disperazione”, in ossessiva meditazione sul suicidio sempre rinviato. Altri grandi moralisti, come ad esempio Arthur Schopenhauer, appaiono molto meno nobili se indagati nelle pieghe del loro privato. È stata, dunque, felice scoperta. L’altro aspetto che mi ha colpito è la frequente rivendicazione della “rumenità”: «Non si sfugge alle proprie origini, specialmente alle nostre». E, dunque, evoca struggimento il pensiero di un uomo innamorato visceralmente della propria terra che, per tutta la vita, finanche in occasione della morte della madre, e anche dopo il crollo del regime comunista, che l’aveva bandito, non vi farà più ritorno.
Il libro non evita di gettare luce sulle fasi più inquietanti della biografia di Cioran, in particolare la fascinazione per i fascismi (fino a dichiararsi esplicitamente nazista, nel periodo di soggiorno in Germania, negli anni Trenta), che prese la forma dell’appoggio al regime delle Guardie di Ferro di Codreanu, di cui il fratello Aurel divenne miliziano. Successivamente, lo scrittore affermò pubblicamente l’errore clamoroso in cui era incorso. 
Ho scritto che Cioran non è né un filosofo né un pensatore. Questo non ha nulla a che fare con la scelta di una scrittura asistematica e preferibilmente aforistica, ovviamente. Egli è autore di un unico libro che viene virtuosisticamente e con eccezionali mezzi stilistici variato fino allo sfinimento, ripetendo la sapienza millenaria che troviamo nei tragici greci o nelle Ecclesiaste. Potremmo definire Cioran un “mistico senza Dio”, che anela perennemente ad una liberazione in vita che non ha nessun “indiamento” come culmine o “illuminazione”. Il suo dialogo con i mistici, cristiani o taoisti, è incessante, ripresentando il paradosso de Il mondo come volontà e rappresentazione o delle Operette morali di Leopardi, e ribadendo che la conclusione di ogni umana parabola (e dell’intera storia umana) è il nulla. Scrive ne La tentazione di esistere: «Quando il nulla mi invade e giungo, secondo una formula orientale, alla  “vacuità  del  vuoto”,  mi  accade,  affranto  da  un  tale  eccesso,  di ripiegare su Dio, non fosse che per desiderio di calpestare i miei dubbi, di contraddirmi,  e  di  cercarvi  uno  stimolo  moltiplicando  i  miei  fremiti. L'esperienza  del  vuoto  è  la  tentazione  mistica  del  non  credente,  la  sua possibilità di preghiera, il suo momento di pienezza. Ai nostri confini un dio sorge, o qualcosa che lo sostituisce».   
Rinviando sine die il suicidio (che scopriamo essere tragedia ricorrente nella sua famiglia), Cioran ribadisce con Qohelet che «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Esiste solo la possibilità di alleviare la sofferenza consustanziale ad ogni vita attraverso l’arte, in particolare la musica. I rapporti umani sono inevitabilmente viziati ab origine dall’egoismo, la sfera politica (nel Cioran maturo) è pazzia, inganno, la storia il perpetuarsi monotono delle stesse, identiche tragedie collettive. 
Si leggano i titoli delle opere maggiori di Cioran per entrare nelle sue ossessioni:  Al culmine della disperazione, Lacrime e santi, Sommario di decomposizione, La tentazione di esistere, La caduta nel tempo, Il funesto demiurgo, L’inconveniente di essere nati. In queste opere io, giovane studente, trovavo consolazione del dramma di essere nato e di dover soffrire, trovavo la conferma dell’insensatezza dell’esistenza. Senza Cioran, forse, non sarebbe mai nato il mio amore per la filosofia. Eppure, oggi, non consiglierei mai ad un mio studente di leggerlo. Lo vedo come il frutto estenuato di un Occidente al tramonto, svuotato di energie creative e rigenerative. Direi, anzi, che Cioran è esattamente il “nemico” più inquietante da combattere. Non solo e non tanto perché quelle pulsioni fascistoidi della giovinezza sono rimaste sopite nel profondo (si veda una lettera del 1976 in cui esalta Gobineau, teorico del razzismo ottocentesco, e deplora il fatto che l’Europa stia diventando una «succursale dell’Africa), ma soprattutto perché la risposta alla lunga crisi dell’Occidente può venire solo da un pensiero “generativo”, “gravido”, “vitale”. Negli anni che mi separano dal mio apprendistato cioraniano ho imparato che il compito più arduo del nostro tempo, la fatica quotidiana che tocca a tutti noi, è conferire senso, in mancanza di strutture “metafisiche” date. Secondo categorie nietzschiane, Cioran apparterebbe ad un nichilismo passivo: egli è ancora l’orfano di Dio, inconsolabile per la sua morte. Eppure quella morte, annunciata dal Folle nella Gaia scienza, può essere il preludio di un nuovo inizio, post-metafisico e post-religioso. Noi siamo nel mezzo, nella terra «abbandonata dagli dèi». Ma possiamo preparare un nuovo “incantamento” del mondo. Un umanità nuova che, fedele alla terra, non la riduce ad un sasso “desolato”. Per questa complessa opera creativa, purtroppo, le opere di Cioran, testimonianza preziosa dell’inaridimento dell’umanità contemporanea, risultano assolutamente inutilizzabili. Contro Cioran, dunque, contro un maestro della mia giovinezza, voglio affermare le potenze della vita con il maestro che guida la mia ricerca attuale, dedicata a coloro che non si rassegnano: «Ai disillusi silenziosi che, malgrado le sconfitte, non sono diventati inattivi. Loro sono il ponte. Saldi di fronte alla muta rabbiosa dei bari, sopra il vuoto e vicini alla terra che è di tutti, scorgono l’ultimo raggio e segnalano il primo. Qualcosa che regnò, si piegò, sparì, dovrebbe, riapparendo, servire la vita: la nostra vita di mietiture e deserti, e quel che meglio l’illustra nel suo avere illimitato. Non si può impazzire in un’epoca forsennata, ma si può esser bruciati vivi da un fuoco di cui si è l’eguale» (René Char).

[apparso su «Economia & Diritto nel marzo 2015]

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