Con le “Indicazioni
nazionali per i Licei” del 2012 è stata apportata una significativa (e da molti
auspicata) modificazione nello studio della filosofia. Rompendo, infatti, una
tradizione secolare, si è deciso di compattare lo studio della filosofia moderna,
includendovi anche lo studio dell’Idealismo tedesco, prima segmento iniziale
dell’ultimo anno del triennio, per destinare largo spazio alla filosofia
contemporanea. Personalmente ritengo questa scelta doverosa, avendo il pensiero
del XX secolo elaborato questioni che non potevano essere poste in precedenza:
basti pensare all’impatto della tecnologia o alle questioni bioetiche che
interpellano l’etica, ai genocidi e ai totalitarismi che interpellano etica e
filosofia politica.
Per quanto riguarda gli
“obiettivi di apprendimento” dell’ultimo anno, stabilita la centralità,
nell’Ottocento, di autori come Schopenhauer, Kierkegaard, Marx e Nietzsche e di
un movimento come il Positivismo, per il Novecento si lascia ampia libertà di
scelta e programmazione al docente, che potrà scegliere «almeno quattro autori
o problemi della filosofia del Novecento» tra dodici possibili «ambiti
concettuali diversi»:
«a) Husserl
e la fenomenologia; b) Freud
e la psicanalisi;
c) Heidegger e
l’esistenzialismo; d) il neoidealismo italiano;
e) Wittgenstein e la
filosofia analitica; f)
vitalismo e pragmatismo;
g) la filosofia
d'ispirazione cristiana e la nuova teologia; h) interpretazioni e
sviluppi del marxismo, in particolare di quello italiano; i) temi e problemi di
filosofia politica; l) gli sviluppi della riflessione epistemologica; i) la
filosofia del linguaggio; l) l'ermeneutica filosofica».
Modificando e
integrando un intervento tenuto all’interno di un incontro organizzato da “i
Giannoniani” (Futuro dell’identità
mediterranea, Seminari congiunti Benevento-Caserta, Rocca dei Rettori, 1
marzo 2012), il presente lavoro si pone come traccia di un possibile modulo che
cali «temi e problemi di filosofia politica» (il punto i delle “Indicazioni”)
nel contesto specifico di un Liceo Classico, partendo dalla premessa che il
pensiero politico del Novecento e quello contemporaneo trovano nel mondo greco
e romano, nel pensiero classico, nutrimento e parole-chiave. Questa
caratteristica, lungi dall’essersi affievolita, pare crescere nel tempo, costituendo,
dunque, un campo privilegiato per l’indagine della permanenza del classico. Il
rapporto in ambito politico può modularsi in due maniere diverse. Il classico
può divenire:
1)
il
totalmente altro che proprio in virtù
della sua diversità radicale consente uno sguardo straniato su un presente
opaco, e dunque formidabile strumento di comprensione che ci consente di
“uscire” dal nostro presente per guardarlo dall’alto;
2)
oppure
strumento operativo da attualizzare, attraverso un processo di innesto in un
mondo che presenta bisogni nuovi.
Partenza obbligata di
questo percorso non può essere che la casa in campagna dove Niccolò Machiavelli
venne esiliato dai Medici nel 1513, per la sua collaborazione con la Repubblica fiorentina.
Qui il segretario, costretto forzosamente all’ozio, elaborò i fondamenti della
teoria politica moderna, confluiti nel De
principatibus e ne I discorsi sulla
prima deca di Tito Livio. Nelle sue giornate il senso è tutto racchiuso nel
momento epifanico di confronto con gli antichi, che assume contorni addirittura
sacrali:
«Venuta la sera, mi
ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella
veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e
rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini,
dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e
ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli
della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e
non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non
temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».
Dunque, la fondazione
della politica moderna, sganciata da preoccupazioni di tipo religioso e morale,
avviene nel confronto serrato con gli storici e pensatori antichi, indagati,
però, non – come accadeva a molti coevi umanisti – per la loro preziosità
stilistica ma per rispondere a domande di stringente attualità. Machiavelli
“usa” i classici per capire il suo tempo drammatico, quello in cui l’Italia è
corsa da eserciti spagnoli, tedeschi, francesi, per capire se e come sia
possibile fondare uno Stato forte nella penisola, per cogliere le leggi della
storia che fondino un’azione efficace nel presente.
A me pare che tutta la
teoria politica novecentesca resti nel solco dell’insegnamento del Segretario
fiorentino nel guardare agli antichi come fonte viva di risposte per il
presente. Il che non significa che gli antichi sono nostri contemporanei!
Carl Schmitt è un
pensatore grandioso, che ci pone enormi problemi, stante l’importanza delle sue
intuizioni ma anche la sua adesione convinta al nazismo. Ebbene, per
comprendere le epocali trasformazioni in atto nel corso del secolo-belva,
chiusasi l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, Schmitt afferma
che non può esservi storia di una comunità, storia umana, se non sulla base di
radicamento nell’elemento terra. Di tutto ciò è memoria la parola greca Nomos,
alla quale, dice Schmitt, «vorrei restituire... la sua forza e grandezza
primitiva»; il termine Nomos, che ai nostri giorni viene perlopiù
tradotto con “legge”, deriva dal verbo greco Nemein che in realtà
possedeva in origine altri significati tra loro strettamente intrecciati, che
stanno ad indicare la presa di possesso, la conquista che è in primis “conquista
di terra”. Non si tratta di una mera operazione filologica, ma del tentativo di
porre l’età presente in una prospettiva storica adeguata, di prenderne le
distanze per meglio comprenderne le trasformazioni: «se nonostante tutto ciò io
impiego di nuovo il termine Nomos nel suo senso originario, non lo
faccio per far rivivere di nuova vita artificiale miti sepolti, o per evocare
vuote ombre. Il termine Nomos è per noi utilizzabile perché in grado di
preservare cognizioni che sorgono dalla problematica mondiale odierna, dal
pericolo di essere scambiate con termini e concetti appartenenti alla scienza
giuridica dello stato del secolo XIX». Schmitt è autore prezioso per capire le
grandi trasformazioni ancora in atto (la globalizzazione su tutte, con lo
stravolgimento delle categorie spaziali). Ma qui mi interessa rimarcare il suo
approccio metodologico: la parola-chiave della sua filosofia giuridica e
politica è una parola greca che viene “forzata” per capire il presente. E non
in una banale attualizzazione (rischio sempre in agguato con i classici), ma
per consentire all’osservatore uno sguardo “distante” (perché la vicinanza
spesso si impedisce di cogliere ciò che accade). La forza del classico, dunque,
risiede proprio nella sua “differenza”, nella sua “distanza” illuminante.
Guardare al mondo greco
(non romano!) significa per Hannah Arendt, entrando nella complessità di quel
mondo, nella sua stratificazione interna, che contrappone, ad esempio alcuni
sofisti e Pericle da una parte, Platone dall’altra, e nella sua relazione con
il mondo prima romano poi cristiano, cercare la possibilità di un “nuovo inizio”
per la politica, che la fondi non come “necessità” biologica (l’uomo non è per
la Arendt zoon politkon) ma libera
scelta, sul modello dell’arte, che compie, realizza l’esistenza umana,
elevandola. E, dunque, compito in linea di principio per e di tutti, non solo
di presunti detentori di una tèknè
politikè, reggitori-filosofi o “tecnici” che siano. Dunque, l’operazione
della Arendt è attivare una polarità del mondo classico, sconfitta e
depotenziata dalla corrente che, con una semplificazione didattica, potrei
definire platonico-romana-cristiana. L’Atene cui guarda la pensatrice
ebrea-tedesca non è quella dell’Accademia ma quella che Platone contestò nella Politeia. È la possibile rifondazione di
un luogo politico che parte non dalla pistis
ma dalla doxa, perché fondata sulla
pluralità degli uomini e non sull’unicità dell’Uomo.
Da più parti, in questi
anni, è stato riconosciuto una sorta di “primato” al «pensiero vivente» dei
filosofi italiani nell’elaborazione delle categorie più avanzate del pensiero
politico. Sebbene l’iniziatore di questi studi sia un francese, cioè Foucault,
i pensatori che maggiormente ne hanno elaborato l’eredità teorica sono tre
italiani: Toni Negri, Giorgio Agamben e Roberto Esposito. L’intuizione geniale
di Foucault fu l’evoluzione della politica moderna verso forme biopolitiche, in
cui, cioè, il controllo diventa pervasivo, fino a riguardare la “vita” nella
sua interezza. Quindi alla base di queste teorie c’è la distinzione greca tra bios e zoe.
Toni Negri, che fa
della biopolitica il suo campo d’indagine privilegiato, nell’ambizioso tentativo
di riscrivere un marxismo adeguato alla tarda modernità, coniugandolo, dunque,
con le intuizioni di Foucault, intitola il primo libro della sua fortunata
trilogia Impero. Dunque, un’altra
categoria classica che gli permette di cogliere la strutturazione di un potere
planetario e la formazione dialettica di un contropotere, anch’esso planetario
(la spinoziana “moltitudine”). Polibio, Sallustio, Tucidide sono solo alcuni degli
autori di cui Negri si serve per costruire la sua filosofia della prassi. Potremmo
dire, con un gioco di parole, che in questo caso il classico diventa strumento
della lotta “di classe”.
Il penultimo autore su
cui vorrei rapidamente soffermarvi è, probabilmente, il più originale, tra
quelli prodotti in una fioritura per certi versi eccezionale del pensiero
italiano. Parlo di Giorgio Agamben, che ha avuto nella sua vita frequentazioni
importanti, da Pasolini alla Morante, da Heidegger a Char, da Derida a Lyotard.
Tutti riconoscono in Homo sacer l’opera
chiave della sua magmatica produzione (paragonabile solo a quella dell’autore
la cui opera ha curato per Einaudi, cioè Walter Benjamin). Agamben recupera la
definizione di “Homo sacer” dal grammatico latino Festo: «homo sacer is est,
quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui
occidit, parricidii non damnatur» («colui che il popolo ha giudicato per un
delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per
omicidio»). Si tratta, quindi, di una vita umana che si può uccidere ma che non
è sacrificabile, che trascende tanto l’ordinamento del diritto umano quanto le
norme del diritto divino. Se qui sacro è il vivente giudicato come assassino,
allora nel momento in cui la vita viene dichiarata sacra in sé, ciò equivale a
dichiararla colpevole. Da ciò si evince la violenza connaturata del diritto: la
nuda vita è portatrice del bando sovrano, ovvero del nesso tra violenza e
diritto perché è in quanto tale colpevole. Si tratta della “nuda vita”, secondo
l’enigmatica espressione adottata da Walter Benjamin in Per la critica della violenza. Un esempio è dato dagli ebrei nella
Germania nazista: gli ebrei erano colpevoli perché erano ebrei, in questo senso
diventavano anche sacri e di conseguenza uccidibili. La nuda vita in quanto
sacra viene deportata nel campo (di sterminio): il campo così inteso (come
paradigma biopolitico del moderno) è lo spazio in cui si manifesta appieno la
sacertà della vita. Ma, chiediamoci, i migranti che vengono lasciati morire
nelle acque del Mediterraneo, non sono anch’essi “nuda vita”, “homines sacri”?
Ancora una volta, la prospettiva straniante del classico ci consente di
cogliere i grandi processi storici e politici della modernità e della tarda
modernità. Agamben, in assoluto, è l’autore in cui questo impianto metodologico
viene spinto alle massime conseguenze.
L’ultimo autore che
emblematizza un rapporto con il classico produttrice di senso è Roberto
Esposito. La sua trilogia (Immunitas,
Communitas, Bios) parte dal presupposto che il lessico tradizionale della
politica si è esaurito e che sia necessario trovargli nuove formulazioni. Non
si tratta, tuttavia, di abbandonare definitivamente le parole della filosofia
politica occidentale, ma di coglierle da un punto di vista storico e teorico in
modo da evidenziare i loro aspetti finora “impensati”. Per il filosofo
napoletano la communitas si fonda sul
munus, ma la modernità politica porta
alla creazione di uno Stato-macchina che cancella il dono reciproco come
fondamento della comunità e fa emergere prepotente il bios come unico fondamento dell’esistenza collettiva, soprattutto
nell’era della globalizzazione, da cui scaturisce la necessità di superare
qualunque impostazione “personalistica” del pensiero e del diritto occidentale.
Anche le parole-chiave
per comprendere il nostro tempo, e cercare di guidarne la trasformazione, sono
riprese – attraverso una forzatura
creativa – dal mondo greco e latino.
Bibliografia
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995.
H. Arendt, Vita activa, Bompiani, 1964.
R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità,
Einaudi, 1998.
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita,
Einaudi, 2002.
R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi,
2004.
T. Negri, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, (con Michael Hardt), Rizzoli, 2002.
C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, 1991.
[apparso ne «Le api ingegnose», 2014]
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