domenica 17 gennaio 2016

parole antiche per capire il presente



Con le “Indicazioni nazionali per i Licei” del 2012 è stata apportata una significativa (e da molti auspicata) modificazione nello studio della filosofia. Rompendo, infatti, una tradizione secolare, si è deciso di compattare lo studio della filosofia moderna, includendovi anche lo studio dell’Idealismo tedesco, prima segmento iniziale dell’ultimo anno del triennio, per destinare largo spazio alla filosofia contemporanea. Personalmente ritengo questa scelta doverosa, avendo il pensiero del XX secolo elaborato questioni che non potevano essere poste in precedenza: basti pensare all’impatto della tecnologia o alle questioni bioetiche che interpellano l’etica, ai genocidi e ai totalitarismi che interpellano etica e filosofia politica.
Per quanto riguarda gli “obiettivi di apprendimento” dell’ultimo anno, stabilita la centralità, nell’Ottocento, di autori come Schopenhauer, Kierkegaard, Marx e Nietzsche e di un movimento come il Positivismo, per il Novecento si lascia ampia libertà di scelta e programmazione al docente, che potrà scegliere «almeno quattro autori o problemi della filosofia del Novecento» tra dodici possibili «ambiti concettuali diversi»:

«a) Husserl  e la fenomenologia; b) Freud  e  la  psicanalisi;  c)  Heidegger  e  l’esistenzialismo;  d)  il  neoidealismo  italiano;  e) Wittgenstein  e  la  filosofia  analitica;  f)  vitalismo  e  pragmatismo;  g)  la  filosofia  d'ispirazione cristiana e la nuova teologia; h) interpretazioni e sviluppi del marxismo, in particolare di quello italiano; i) temi e problemi di filosofia politica; l) gli sviluppi della riflessione epistemologica; i) la filosofia del linguaggio; l) l'ermeneutica filosofica».

Modificando e integrando un intervento tenuto all’interno di un incontro organizzato da “i Giannoniani” (Futuro dell’identità mediterranea, Seminari congiunti Benevento-Caserta, Rocca dei Rettori, 1 marzo 2012), il presente lavoro si pone come traccia di un possibile modulo che cali «temi e problemi di filosofia politica» (il punto i delle “Indicazioni”) nel contesto specifico di un Liceo Classico, partendo dalla premessa che il pensiero politico del Novecento e quello contemporaneo trovano nel mondo greco e romano, nel pensiero classico, nutrimento e parole-chiave. Questa caratteristica, lungi dall’essersi affievolita, pare crescere nel tempo, costituendo, dunque, un campo privilegiato per l’indagine della permanenza del classico. Il rapporto in ambito politico può modularsi in due maniere diverse. Il classico può divenire:
1)                        il totalmente altro che proprio in virtù della sua diversità radicale consente uno sguardo straniato su un presente opaco, e dunque formidabile strumento di comprensione che ci consente di “uscire” dal nostro presente per guardarlo dall’alto;
2)                        oppure strumento operativo da attualizzare, attraverso un processo di innesto in un mondo che presenta bisogni nuovi.
Partenza obbligata di questo percorso non può essere che la casa in campagna dove Niccolò Machiavelli venne esiliato dai Medici nel 1513, per la sua collaborazione con la Repubblica fiorentina. Qui il segretario, costretto forzosamente all’ozio, elaborò i fondamenti della teoria politica moderna, confluiti nel De principatibus e ne I discorsi sulla prima deca di Tito Livio. Nelle sue giornate il senso è tutto racchiuso nel momento epifanico di confronto con gli antichi, che assume contorni addirittura sacrali:

«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».

Dunque, la fondazione della politica moderna, sganciata da preoccupazioni di tipo religioso e morale, avviene nel confronto serrato con gli storici e pensatori antichi, indagati, però, non – come accadeva a molti coevi umanisti – per la loro preziosità stilistica ma per rispondere a domande di stringente attualità. Machiavelli “usa” i classici per capire il suo tempo drammatico, quello in cui l’Italia è corsa da eserciti spagnoli, tedeschi, francesi, per capire se e come sia possibile fondare uno Stato forte nella penisola, per cogliere le leggi della storia che fondino un’azione efficace nel presente.
A me pare che tutta la teoria politica novecentesca resti nel solco dell’insegnamento del Segretario fiorentino nel guardare agli antichi come fonte viva di risposte per il presente. Il che non significa che gli antichi sono nostri contemporanei!
Carl Schmitt è un pensatore grandioso, che ci pone enormi problemi, stante l’importanza delle sue intuizioni ma anche la sua adesione convinta al nazismo. Ebbene, per comprendere le epocali trasformazioni in atto nel corso del secolo-belva, chiusasi l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, Schmitt afferma che non può esservi storia di una comunità, storia umana, se non sulla base di radicamento nell’elemento terra. Di tutto ciò è memoria la parola greca Nomos, alla quale, dice Schmitt, «vorrei restituire... la sua forza e grandezza primitiva»; il termine Nomos, che ai nostri giorni viene perlopiù tradotto con “legge”, deriva dal verbo greco Nemein che in realtà possedeva in origine altri significati tra loro strettamente intrecciati, che stanno ad indicare la presa di possesso, la conquista che è in primis “conquista di terra”. Non si tratta di una mera operazione filologica, ma del tentativo di porre l’età presente in una prospettiva storica adeguata, di prenderne le distanze per meglio comprenderne le trasformazioni: «se nonostante tutto ciò io impiego di nuovo il termine Nomos nel suo senso originario, non lo faccio per far rivivere di nuova vita artificiale miti sepolti, o per evocare vuote ombre. Il termine Nomos è per noi utilizzabile perché in grado di preservare cognizioni che sorgono dalla problematica mondiale odierna, dal pericolo di essere scambiate con termini e concetti appartenenti alla scienza giuridica dello stato del secolo XIX». Schmitt è autore prezioso per capire le grandi trasformazioni ancora in atto (la globalizzazione su tutte, con lo stravolgimento delle categorie spaziali). Ma qui mi interessa rimarcare il suo approccio metodologico: la parola-chiave della sua filosofia giuridica e politica è una parola greca che viene “forzata” per capire il presente. E non in una banale attualizzazione (rischio sempre in agguato con i classici), ma per consentire all’osservatore uno sguardo “distante” (perché la vicinanza spesso si impedisce di cogliere ciò che accade). La forza del classico, dunque, risiede proprio nella sua “differenza”, nella sua “distanza” illuminante.
Guardare al mondo greco (non romano!) significa per Hannah Arendt, entrando nella complessità di quel mondo, nella sua stratificazione interna, che contrappone, ad esempio alcuni sofisti e Pericle da una parte, Platone dall’altra, e nella sua relazione con il mondo prima romano poi cristiano, cercare la possibilità di un “nuovo inizio” per la politica, che la fondi non come “necessità” biologica (l’uomo non è per la Arendt zoon politkon) ma libera scelta, sul modello dell’arte, che compie, realizza l’esistenza umana, elevandola. E, dunque, compito in linea di principio per e di tutti, non solo di presunti detentori di una tèknè politikè, reggitori-filosofi o “tecnici” che siano. Dunque, l’operazione della Arendt è attivare una polarità del mondo classico, sconfitta e depotenziata dalla corrente che, con una semplificazione didattica, potrei definire platonico-romana-cristiana. L’Atene cui guarda la pensatrice ebrea-tedesca non è quella dell’Accademia ma quella che Platone contestò nella Politeia. È la possibile rifondazione di un luogo politico che parte non dalla pistis ma dalla doxa, perché fondata sulla pluralità degli uomini e non sull’unicità dell’Uomo.
Da più parti, in questi anni, è stato riconosciuto una sorta di “primato” al «pensiero vivente» dei filosofi italiani nell’elaborazione delle categorie più avanzate del pensiero politico. Sebbene l’iniziatore di questi studi sia un francese, cioè Foucault, i pensatori che maggiormente ne hanno elaborato l’eredità teorica sono tre italiani: Toni Negri, Giorgio Agamben e Roberto Esposito. L’intuizione geniale di Foucault fu l’evoluzione della politica moderna verso forme biopolitiche, in cui, cioè, il controllo diventa pervasivo, fino a riguardare la “vita” nella sua interezza. Quindi alla base di queste teorie c’è la distinzione greca tra bios e zoe.
Toni Negri, che fa della biopolitica il suo campo d’indagine privilegiato, nell’ambizioso tentativo di riscrivere un marxismo adeguato alla tarda modernità, coniugandolo, dunque, con le intuizioni di Foucault, intitola il primo libro della sua fortunata trilogia Impero. Dunque, un’altra categoria classica che gli permette di cogliere la strutturazione di un potere planetario e la formazione dialettica di un contropotere, anch’esso planetario (la spinoziana “moltitudine”). Polibio, Sallustio, Tucidide sono solo alcuni degli autori di cui Negri si serve per costruire la sua filosofia della prassi. Potremmo dire, con un gioco di parole, che in questo caso il classico diventa strumento della lotta “di classe”.
Il penultimo autore su cui vorrei rapidamente soffermarvi è, probabilmente, il più originale, tra quelli prodotti in una fioritura per certi versi eccezionale del pensiero italiano. Parlo di Giorgio Agamben, che ha avuto nella sua vita frequentazioni importanti, da Pasolini alla Morante, da Heidegger a Char, da Derida a Lyotard. Tutti riconoscono in Homo sacer l’opera chiave della sua magmatica produzione (paragonabile solo a quella dell’autore la cui opera ha curato per Einaudi, cioè Walter Benjamin). Agamben recupera la definizione di “Homo sacer” dal grammatico latino Festo: «homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidii non damnatur» («colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio»). Si tratta, quindi, di una vita umana che si può uccidere ma che non è sacrificabile, che trascende tanto l’ordinamento del diritto umano quanto le norme del diritto divino. Se qui sacro è il vivente giudicato come assassino, allora nel momento in cui la vita viene dichiarata sacra in sé, ciò equivale a dichiararla colpevole. Da ciò si evince la violenza connaturata del diritto: la nuda vita è portatrice del bando sovrano, ovvero del nesso tra violenza e diritto perché è in quanto tale colpevole. Si tratta della “nuda vita”, secondo l’enigmatica espressione adottata da Walter Benjamin in Per la critica della violenza. Un esempio è dato dagli ebrei nella Germania nazista: gli ebrei erano colpevoli perché erano ebrei, in questo senso diventavano anche sacri e di conseguenza uccidibili. La nuda vita in quanto sacra viene deportata nel campo (di sterminio): il campo così inteso (come paradigma biopolitico del moderno) è lo spazio in cui si manifesta appieno la sacertà della vita. Ma, chiediamoci, i migranti che vengono lasciati morire nelle acque del Mediterraneo, non sono anch’essi “nuda vita”, “homines sacri”? Ancora una volta, la prospettiva straniante del classico ci consente di cogliere i grandi processi storici e politici della modernità e della tarda modernità. Agamben, in assoluto, è l’autore in cui questo impianto metodologico viene spinto alle massime conseguenze.
L’ultimo autore che emblematizza un rapporto con il classico produttrice di senso è Roberto Esposito. La sua trilogia (Immunitas, Communitas, Bios) parte dal presupposto che il lessico tradizionale della politica si è esaurito e che sia necessario trovargli nuove formulazioni. Non si tratta, tuttavia, di abbandonare definitivamente le parole della filosofia politica occidentale, ma di coglierle da un punto di vista storico e teorico in modo da evidenziare i loro aspetti finora “impensati”. Per il filosofo napoletano la communitas si fonda sul munus, ma la modernità politica porta alla creazione di uno Stato-macchina che cancella il dono reciproco come fondamento della comunità e fa emergere prepotente il bios come unico fondamento dell’esistenza collettiva, soprattutto nell’era della globalizzazione, da cui scaturisce la necessità di superare qualunque impostazione “personalistica” del pensiero e del diritto occidentale.
Anche le parole-chiave per comprendere il nostro tempo, e cercare di guidarne la trasformazione, sono riprese – attraverso una forzatura creativa – dal mondo greco e latino.

Bibliografia

G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995.
H. Arendt, Vita activa, Bompiani, 1964.
R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, 1998.
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, 2002.
R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, 2004.
T. Negri, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, (con Michael Hardt), Rizzoli, 2002.

C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, 1991.

[apparso ne «Le api ingegnose», 2014]

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