Il celebre,
ultimo capitalo del Principe si apre con un’esortazione «ad capessendam Italiam
in libertatem». L’opera, come altre grandi opere “politiche”, nasce in un clima
rovente, in questo caso l’Italia battuta da eserciti imperiali e francesi,
luogo di scontro fra superpotenze nazionali, così come il Leviathan di Hobbes
sarà scritto tra gli schizzi di sangue delle guerre di religione seicentesche o
i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte nella Prussia occupata dalle armate
napoleoniche. Questo potrebbe suggerire che, quasi sempre, una grande opera
politica risponde ad un’urgenza, non è mai mera teoresi ma palpitante tentativo
di rispondere a concrete esigenze.
Scrive Machiavelli:
«Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco
medesimo se, in Italia al presente, correvano tempi da onorare uno nuovo
principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di
introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di
quella, mi pare corrino tante cose in benefizio d'uno principe nuovo, che io
non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era
necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi
stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi
fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino
dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano,
era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell'è di presente, e
che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che
li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et
avessi sopportato d'ogni sorte ruina. E benché fino a qui si sia mostro qualche
spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua
redenzione, tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni sua,
è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual
possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a' sacchi di Lombardia,
alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per
lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la
redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e
disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli».
Che cosa mi
sta dicendo il Segretario fiorentino, oggi, nell’Italia del 2013? Che la nostra
condizione è penosa, sebbene i barbari siano parte del nostro stesso popolo, ma
capaci di gettarla, in un trentennio di mala politica, nella più profonda
prostrazione e crisi che morde le persone, soprattutto i più giovani, impedendo
loro speranza e progetto. L’Italia, «rimasa sanza vita, espetta qual possa
esser quello che sani le sue ferite». Machiavelli ci aiuta a porre, dunque, un
problema basilare per l’Italia avvenire: quello di una nuova classe dirigente.
Vedete, si dice sempre, giustamente, che il Segretario fiorentino rappresenti
il filone “realistico” della teoria politica, il contraltare di ogni “utopismo”
che plasmi kallipoleis o città del sole. Ma questo realismo in lui, e di qui la
sua grandezza a mio avviso, non diventa mai, come in molti, in troppi, cinismo
o cedimento all’amministrazione dell’esistente. No, Machiavelli invoca uno
slancio che trasformi la realtà proprio a partire dal punto più basso della
parabola, l’Italia invasa, occupata dai barbari. E oggi, vi chiedo, l’Italia non
ha raggiunto il punto più basso della sua parabola con una classe dirigente, a
partire dal nostro territorio per arrivare ai grandi decisori politici, priva
non solo di autorevolezza ma anche di credibilità minima? Eppure questo non
significa, direbbe Machiavelli, che la condizione è assolutamente propizia per
esibire una “virtù” fuori dal comune, come quella di Mosè che liberà gli Ebrei
dalla cattività egiziana? Non è, dico in primis a me stesso deluso e disilluso,
questo il tempo non di ritrarsi a costruire utopie ma di combattere per
liberare l’Italia dai barbari che la devastano? E, d’altronde, l’Italia non è
percorsa da Nord a Sud da fenomeni di “insorgenza”, di “resistenza” i più vari?
Ma, ancora una volta, cosa insegnano queste pagine? Che tali fenomeni
necessitano di una “guida”, di un principe...
Analizzo
quanto accaduto non solo in Italia ma nel mondo a partire dal 1991 a Seattle
fino a Zuccotti Park nel 2011... Straordinari movimenti insorgenti contro
l’ordine capitalistico globale che, proprio in virtù della propria pluralità e
reticolarità, non sono riusciti ad incidere in maniera duratura sulle strutture
che volevano trasformare. Da un punto di vista teorico, dunque, mi scontro, da
anni, con questa aporia... Perpetuare “macchine” partitiche novecentesche,
divenute oramai, a tutti i livelli, strumento di potere ed ascesa sociale,
avendo perduto anche la funzione “nobile” che hanno assolto all’inizio della
loro esistenza, o accettare la rapida deperibilità di movimenti “an-archici”
(nel senso etimologico della parola)?
Sapete che
Machiavelli è un pensatore atipico. La sua maggiore anomalia, a mio avviso, è
la flessibilità con cui immagina le organizzazioni politiche. In termini
calcistici, diremmo che non teorizza un solo modulo di gioco ma l’adattamento
alle singole situazioni. Non è, dunque, un teorico di una forma di governo
“ottima”. Infatti la sua opera più complessa, I dialoghi sulla prima deca di Tito Livio, sono esaltazione della
repubblica romana e delle sue virtù. Ebbene nel capitolo IV del Libro primo
Machiavelli sostiene che la grandezza di Roma nacque dalla disunione della
Plebe e del Senato romano: « Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i
Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del
tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali
tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non
considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del
popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della
libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere
seguito in Roma». Dunque, elogio del conflitto. La libertà e la potenza di un
popolo nascono da un conflitto (oserei dire eracliteo) in cui almeno due forze
si “tendono” a vicenda. Quindi, lo dico soprattutto ai ragazzi presenti qui,
non abbiate paura del disordine e del conflitto. In questa dialettica si forgia
un popolo libero e forte. Ancora una volta l’Italia può essere un laboratorio. A
patto che di dismetta l’illusione, anche a livello politico, che le “larghe
intese”, e la loro presunta pacificazione, siano l’unica strada percorribile.
Solo il conflitto crea potenza, se tenuto all’interno di una dialettica
creatrice.
Chiudo,
dunque, con una domanda senza risposta e un duplice invito...
Chi sarà il
“principe” (collettivo nel mio auspicio) in grado di liberare l’Italia dai
barbari?
Cercate nel
classici nutrimento per la vostra vita “activa” qui ed ora, strapazzateli,
violentateli ma usateli!
Non temete
il conflitto! Ricordate, però, sempre un verso di René Char: «Se distruggi, che
sia con strumenti nuziali».
(Intervento tenuto il 18 dicembre 2013 nell'Aula Magna del Liceo Giannone)
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