giovedì 28 gennaio 2016

Machiavelli oggi



Il celebre, ultimo capitalo del Principe si apre con un’esortazione «ad capessendam Italiam in libertatem». L’opera, come altre grandi opere “politiche”, nasce in un clima rovente, in questo caso l’Italia battuta da eserciti imperiali e francesi, luogo di scontro fra superpotenze nazionali, così come il Leviathan di Hobbes sarà scritto tra gli schizzi di sangue delle guerre di religione seicentesche o i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte nella Prussia occupata dalle armate napoleoniche. Questo potrebbe suggerire che, quasi sempre, una grande opera politica risponde ad un’urgenza, non è mai mera teoresi ma palpitante tentativo di rispondere a concrete esigenze.
Scrive Machiavelli: «Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se, in Italia al presente, correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare corrino tante cose in benefizio d'uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell'è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte ruina. E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a' sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli».
Che cosa mi sta dicendo il Segretario fiorentino, oggi, nell’Italia del 2013? Che la nostra condizione è penosa, sebbene i barbari siano parte del nostro stesso popolo, ma capaci di gettarla, in un trentennio di mala politica, nella più profonda prostrazione e crisi che morde le persone, soprattutto i più giovani, impedendo loro speranza e progetto. L’Italia, «rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite». Machiavelli ci aiuta a porre, dunque, un problema basilare per l’Italia avvenire: quello di una nuova classe dirigente. Vedete, si dice sempre, giustamente, che il Segretario fiorentino rappresenti il filone “realistico” della teoria politica, il contraltare di ogni “utopismo” che plasmi kallipoleis o città del sole. Ma questo realismo in lui, e di qui la sua grandezza a mio avviso, non diventa mai, come in molti, in troppi, cinismo o cedimento all’amministrazione dell’esistente. No, Machiavelli invoca uno slancio che trasformi la realtà proprio a partire dal punto più basso della parabola, l’Italia invasa, occupata dai barbari. E oggi, vi chiedo, l’Italia non ha raggiunto il punto più basso della sua parabola con una classe dirigente, a partire dal nostro territorio per arrivare ai grandi decisori politici, priva non solo di autorevolezza ma anche di credibilità minima? Eppure questo non significa, direbbe Machiavelli, che la condizione è assolutamente propizia per esibire una “virtù” fuori dal comune, come quella di Mosè che liberà gli Ebrei dalla cattività egiziana? Non è, dico in primis a me stesso deluso e disilluso, questo il tempo non di ritrarsi a costruire utopie ma di combattere per liberare l’Italia dai barbari che la devastano? E, d’altronde, l’Italia non è percorsa da Nord a Sud da fenomeni di “insorgenza”, di “resistenza” i più vari? Ma, ancora una volta, cosa insegnano queste pagine? Che tali fenomeni necessitano di una “guida”, di un principe...
Analizzo quanto accaduto non solo in Italia ma nel mondo a partire dal 1991 a Seattle fino a Zuccotti Park nel 2011... Straordinari movimenti insorgenti contro l’ordine capitalistico globale che, proprio in virtù della propria pluralità e reticolarità, non sono riusciti ad incidere in maniera duratura sulle strutture che volevano trasformare. Da un punto di vista teorico, dunque, mi scontro, da anni, con questa aporia... Perpetuare “macchine” partitiche novecentesche, divenute oramai, a tutti i livelli, strumento di potere ed ascesa sociale, avendo perduto anche la funzione “nobile” che hanno assolto all’inizio della loro esistenza, o accettare la rapida deperibilità di movimenti “an-archici” (nel senso etimologico della parola)?
Sapete che Machiavelli è un pensatore atipico. La sua maggiore anomalia, a mio avviso, è la flessibilità con cui immagina le organizzazioni politiche. In termini calcistici, diremmo che non teorizza un solo modulo di gioco ma l’adattamento alle singole situazioni. Non è, dunque, un teorico di una forma di governo “ottima”. Infatti la sua opera più complessa, I dialoghi sulla prima deca di Tito Livio, sono esaltazione della repubblica romana e delle sue virtù. Ebbene nel capitolo IV del Libro primo Machiavelli sostiene che la grandezza di Roma nacque dalla disunione della Plebe e del Senato romano: « Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma». Dunque, elogio del conflitto. La libertà e la potenza di un popolo nascono da un conflitto (oserei dire eracliteo) in cui almeno due forze si “tendono” a vicenda. Quindi, lo dico soprattutto ai ragazzi presenti qui, non abbiate paura del disordine e del conflitto. In questa dialettica si forgia un popolo libero e forte. Ancora una volta l’Italia può essere un laboratorio. A patto che di dismetta l’illusione, anche a livello politico, che le “larghe intese”, e la loro presunta pacificazione, siano l’unica strada percorribile. Solo il conflitto crea potenza, se tenuto all’interno di una dialettica creatrice.
Chiudo, dunque, con una domanda senza risposta e un duplice invito...
Chi sarà il “principe” (collettivo nel mio auspicio) in grado di liberare l’Italia dai barbari?
Cercate nel classici nutrimento per la vostra vita “activa” qui ed ora, strapazzateli, violentateli ma usateli!
Non temete il conflitto! Ricordate, però, sempre un verso di René Char: «Se distruggi, che sia con strumenti nuziali».

(Intervento tenuto il 18 dicembre 2013 nell'Aula Magna del Liceo Giannone)

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