martedì 26 gennaio 2016

leg/ali




«Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum». Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio  della celebre esposizione di Tommaso  d’Aquino  sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae. Ma legge potrebbe derivare anche dal verbo legere.  Un bel rompicapo: solo per suggerire che abbiamo a che fare con qualcosa di geneticamente ambiguo, e dobbiamo rassegnarci a questa ambiguità. Voglio dire che sarebbe bello poter fare piena chiarezza, dare rassicuranti certezze sulla questione. Non lo farò.
Sarebbe facile pensare che in realtà è tutto molto semplice: esistono organismi che fanno le regole, le persone che debbono rispettarle, altri organismi che le fanno rispettare o comminano pene in caso di violazione.
Già il proliferare di regole, ad esempio, non è sintomo di una malattia del corpo sociale che è costretto a moltiplicare norme per garantire la propria sopravvivenza? Ne scrisse Guido Rossi in un aureo libriccino di qualche anno fa, intitolato sintomaticamente Il gioco delle regole, che partiva dall’assunto – analizzato nelle grandi multinazionali e corporation – che quante più fitte sono le regole etiche che esse si danno tanto più esse vengono eluse….
Un altro esempio, tratto dalla storia? Karl Adolf Eichmann, con il grado di SS-Obersturmbannführer fu tra i massimi responsabile dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Hannah Arendt ne seguì il processo a Gerusalemme, dopo una spettacolare azione che portò alla sua cattura in Argentina da parte del Mossad. La Arendt ne trasse uno dei suoi libri più celebri: La banalità del male. La tesi, sconcertante, è che Eichmann compì crimini spaventosi perché ubbidì alla legge, da buon soldato. E, dunque, dal punto di vista filosofico episodi del genere ci costringono a mettere in discussione il valore assoluto della legge (positiva) e della legalità come rispetto delle leggi, a postulare l’esistenza di “leggi” superiori a quelle umane. Ma il diritto positivo non è una conquista del progresso umano? Altro problema su cui continua e continuerà a scrivere e discutere.
La storia italiana recente, per passare dalla tragedia alla commedia pecoreccia, è piena di leggi inique che sono servite a  proteggere dalla galera un signore che ha spadroneggiato nell’ultimo quasi ventennio di storia italiana, avendo un giorno l’ardire, in visita alla Guardia di Finanza, di giustificare l’evasione fiscale, era il 2004, dicendo che con tasse troppo alte ci si ingegna di evadere!
In realtà, questa triste commedia su cui si è chiuso recentemente il sipario, ha una storia antica, se è vero che già negli anni Venti dell’Ottocento Giacomo Leopardi in una luminosa operetta sui costumi degli italiani (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani) ne vedeva nella totale assenza di etica pubblica, in confronto a francesi o inglesi, il tratto distintivo. Per non dire che il discutibile processo di unificazione italiano, troppo celebrato lo scorso anno per coprire la sua incompiutezza, ha prodotto soprattutto nel Sud (ma come dimenticare quel triste fenomeno del leghismo anch’esso agonizzante) sacche di resistenza allo Stato che sono state brodo di coltura di manovalanza criminale e, più in generale, di un diffuso senso di illegalità?
E, dunque, dobbiamo rassegnarci doppiamente? Accettare che l’illegalità non avrà mai fine, da una parte, e dall’altra rassegnarci al fatto che, essendo lo statuto stesso della legge problematico, non è possibile trovare criteri assoluti che possano essere veicolati a tutti i membri di una comunità? Perché, in realtà, questo è il nodo più spinoso della questione… Se l’attivismo della società civile, la denunzia dell’opinione pubblica, l’azione repressiva della magistratura sono necessari ma non sufficienti, il problema che stiamo ponendo è un problema di cultura, un problema di civiltà:

«Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni». È sempre il recanatese del libriccino succitato.

La lex non basta, è necessario l’ethos. Ma anche qui troviamo solo problemi. Infatti, il nostro è il tempo della società “liquida” (la definizione celeberrima è di Bauman) o “dell’incertezza” (la definizione è di Beck). Nell’uno e nell’altro caso, l’accento dei sociologi cade sul dissolvimento di quelle certezze che costituivano il mastice, il collante delle comunità in epoca premoderna ma anche nell’epoca della modernità “solida”. Insomma, la modernità ha creato “individui” absoluti, sciolti da qualunque vincolo comunitario che non fosse scelto liberamente, e, dunque, sciolto anche da “valori” condivisi”. La Dichiarazione dei diritti dell’89 e la morale kantiana sono il più grande monumento all’individuo moderno, artefice del proprio destino. Ma proprio questa liberazione dell’individuo ha posto le basi per quella liquefazione dei valori condivisi che l’era postmoderna ha manifestato in tutta la sua drammaticità. Io, docente nelle scuole italiane, che tipo di “valori” dovrei veicolare, attraverso le mie discipline ai miei studenti? E se non è compito della scuola questa “trasmissione”, chi se ne fa carico, nel momento in cui la stessa famiglia scricchiola o, meglio, si liquefa? Il mercato?
Ricapitolo: è problematico stabilire cosa sia legge e cosa sia la legalità; non sempre obbedire alla legge è buono e disobbedire è cattivo; in ogni caso, non sappiamo quali agenzie debbano trasmettere i valori del rispetto della legge. Siamo ad un impasse.
O meglio: siamo in grado di capire che il problema della legalità, come quello più in generale dei cosiddetti valori, è un problema che ha a che fare con l’intera configurazione di una civiltà.
Non vorrei ripetere cose che oramai mi ritrovo a dire spesso in contesti diversi. Noi siamo nel cuore di una quadruplice crisi, che è, dunque, crisi sistemica: economica, energetica, ecologica e psichica. Gli intellettuali organici ai grandi potentati economici hanno buon gioco nel mostrare di volta in volta un aspetto di questa crisi, illudendo che se ne possa uscire attraverso aggiustamenti dell’uno o l’altro aspetto. No, da questo tempo di crisi uscirà una nuova civiltà. Ebbene, questa civiltà sarà molto diversa da quella plasmata dalla modernità, dall’individualismo. Sarà la riscoperta della nostra essenza comunitaria, non una regressione alla società “chiusa”, ma la consapevolezza che l’uomo non è una monade e che il radicamento comunitario, come insegnava profeticamente Simone Weil negli anni Quaranta del XX secolo, è un bisogno primario. Solo la ricostruzione della comunità, e dunque, la possibilità della trasmissione “esemplare” dei valori, tra cui il rispetto della legge”, può portarci fuori dalle secche della modernità solida e liquida.
Nel 399 a.C. il tribunale ateniese condannò Socrate alla pena di morte con la ridicola accusa di aver introdotto nuove divinità e di corrompere i giovani con il suo insegnamento. Socrate, che avrebbe potuto emigrare in altra città prima del processo, patteggiare una pena più mite, addirittura fuggire dal carcere, avendo i suoi facoltosi discepoli corrotto le guardie, accettò il verdetto. Bevve la cicuta e morì dandoci un modello straordinario di “buona morte”. Ma egli ha testimoniato prima di tutto di una vita ben spesa, dedita alla ricerca (quindi al pensare con la propria testa) ma nel rispetto della comunità di cui si è naturalmente o per scelta parte. Nel Critone è descritto in pagine altissime come egli immagini che Le Leggi e la Città tutta, nell’atto di fuggire, gli si parino davanti e gli chiedano conto del suo gesto. «Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?... O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?». La Città ha emesso una sentenza ingiusta, ma non rispettare le Leggi distrugge il fondamento stesso della vita civile.
«Non ti abbiamo dato noi la vita, tanto per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e ti ha generato? […] Con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti gli antenati, e più sacra, e più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dèi e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre?». A questo dobbiamo tornare: il futuro ha un cuore antico.

Per chiudere con uno slogan: legali per crescere ma perché legati cum-munus o, per dirla con Morin, complexi, tessuti insieme.

(Intervento tenuto a San Nicola Manfredi il 19 maggio 2012 in un convegno dedicato al tema della legalità)



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