«Dicitur enim lex a ligando, quia obligat
agendum». Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino
sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae. Ma legge potrebbe derivare anche dal verbo legere. Un bel rompicapo: solo per suggerire che
abbiamo a che fare con qualcosa di geneticamente ambiguo, e dobbiamo
rassegnarci a questa ambiguità. Voglio dire che sarebbe bello poter fare piena
chiarezza, dare rassicuranti certezze sulla questione. Non lo farò.
Sarebbe facile pensare che in realtà è tutto
molto semplice: esistono organismi che fanno le regole, le persone che debbono
rispettarle, altri organismi che le fanno rispettare o comminano pene in caso
di violazione.
Già il proliferare di regole, ad esempio, non è
sintomo di una malattia del corpo sociale che è costretto a moltiplicare norme
per garantire la propria sopravvivenza? Ne scrisse Guido Rossi in un aureo libriccino di qualche anno fa, intitolato
sintomaticamente Il gioco delle regole,
che partiva dall’assunto – analizzato nelle grandi multinazionali e corporation
– che quante più fitte sono le regole etiche che esse si danno tanto più esse
vengono eluse….
Un altro esempio, tratto dalla storia? Karl Adolf Eichmann, con il grado di SS-Obersturmbannführer fu tra i massimi responsabile dello sterminio degli ebrei
durante la seconda guerra mondiale. Hannah
Arendt ne seguì il processo a Gerusalemme, dopo una spettacolare azione che
portò alla sua cattura in Argentina da parte del Mossad. La Arendt ne trasse
uno dei suoi libri più celebri: La
banalità del male. La tesi, sconcertante, è che Eichmann compì crimini
spaventosi perché ubbidì alla legge, da buon soldato. E, dunque, dal punto di
vista filosofico episodi del genere ci costringono a mettere in discussione il
valore assoluto della legge (positiva) e della legalità come rispetto delle
leggi, a postulare l’esistenza di “leggi” superiori a quelle umane. Ma il
diritto positivo non è una conquista del progresso umano? Altro problema su cui
continua e continuerà a scrivere e discutere.
La storia italiana recente, per passare dalla
tragedia alla commedia pecoreccia, è piena di leggi inique che sono servite
a proteggere dalla galera un signore che
ha spadroneggiato nell’ultimo quasi ventennio di storia italiana, avendo un
giorno l’ardire, in visita alla Guardia di Finanza, di giustificare l’evasione
fiscale, era il 2004, dicendo che con tasse troppo alte ci si ingegna di
evadere!
In realtà, questa
triste commedia su cui si è chiuso recentemente il sipario, ha una storia
antica, se è vero che già negli anni Venti dell’Ottocento Giacomo Leopardi in una luminosa operetta sui costumi degli
italiani (Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'Italiani) ne vedeva nella totale assenza di etica
pubblica, in confronto a francesi o inglesi, il tratto distintivo. Per non dire
che il discutibile processo di unificazione italiano, troppo celebrato lo
scorso anno per coprire la sua incompiutezza, ha prodotto soprattutto nel Sud
(ma come dimenticare quel triste fenomeno del leghismo anch’esso agonizzante) sacche
di resistenza allo Stato che sono state brodo di coltura di manovalanza
criminale e, più in generale, di un diffuso senso di illegalità?
E, dunque, dobbiamo rassegnarci doppiamente?
Accettare che l’illegalità non avrà mai fine, da una parte, e dall’altra
rassegnarci al fatto che, essendo lo statuto stesso della legge problematico,
non è possibile trovare criteri assoluti che possano essere veicolati a tutti i
membri di una comunità? Perché, in realtà, questo è il nodo più spinoso della
questione… Se l’attivismo della società civile, la denunzia dell’opinione
pubblica, l’azione repressiva della magistratura sono necessari ma non
sufficienti, il problema che stiamo ponendo è un problema di cultura, un
problema di civiltà:
«Il
vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere
l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per
insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti
sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte
che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti
dalle opinioni». È sempre il recanatese del libriccino succitato.
La lex
non basta, è necessario l’ethos. Ma
anche qui troviamo solo problemi. Infatti, il nostro è il tempo della società
“liquida” (la definizione celeberrima è di Bauman) o “dell’incertezza” (la
definizione è di Beck). Nell’uno e nell’altro caso, l’accento dei sociologi
cade sul dissolvimento di quelle certezze che costituivano il mastice, il
collante delle comunità in epoca premoderna ma anche nell’epoca della modernità
“solida”. Insomma, la modernità ha creato “individui” absoluti, sciolti da qualunque vincolo comunitario che non fosse
scelto liberamente, e, dunque, sciolto anche da “valori” condivisi”. La Dichiarazione dei diritti dell’89 e la
morale kantiana sono il più grande monumento all’individuo moderno, artefice
del proprio destino. Ma proprio questa liberazione dell’individuo ha posto le
basi per quella liquefazione dei valori condivisi che l’era postmoderna ha
manifestato in tutta la sua drammaticità. Io, docente nelle scuole italiane,
che tipo di “valori” dovrei veicolare, attraverso le mie discipline ai miei
studenti? E se non è compito della scuola questa “trasmissione”, chi se ne fa
carico, nel momento in cui la stessa famiglia scricchiola o, meglio, si
liquefa? Il mercato?
Ricapitolo: è problematico stabilire cosa sia
legge e cosa sia la legalità; non sempre obbedire alla legge è buono e
disobbedire è cattivo; in ogni caso, non sappiamo quali agenzie debbano
trasmettere i valori del rispetto della legge. Siamo ad un impasse.
O meglio: siamo in grado di capire che il problema
della legalità, come quello più in generale dei cosiddetti valori, è un
problema che ha a che fare con l’intera configurazione di una civiltà.
Non vorrei ripetere cose che oramai mi ritrovo
a dire spesso in contesti diversi. Noi siamo nel cuore di una quadruplice
crisi, che è, dunque, crisi sistemica: economica, energetica, ecologica e
psichica. Gli intellettuali organici ai grandi potentati economici hanno buon
gioco nel mostrare di volta in volta un aspetto di questa crisi, illudendo che
se ne possa uscire attraverso aggiustamenti dell’uno o l’altro aspetto. No, da
questo tempo di crisi uscirà una nuova civiltà. Ebbene, questa civiltà sarà
molto diversa da quella plasmata dalla modernità, dall’individualismo. Sarà la
riscoperta della nostra essenza comunitaria, non una regressione alla società
“chiusa”, ma la consapevolezza che l’uomo non è una monade e che il radicamento
comunitario, come insegnava profeticamente Simone Weil negli anni Quaranta del
XX secolo, è un bisogno primario. Solo la ricostruzione della comunità, e
dunque, la possibilità della trasmissione “esemplare” dei valori, tra cui il
rispetto della legge”, può portarci fuori dalle secche della modernità solida e
liquida.
Nel 399 a.C. il tribunale ateniese condannò Socrate alla pena di morte con la
ridicola accusa di aver introdotto nuove divinità e di corrompere i giovani con
il suo insegnamento. Socrate, che avrebbe potuto emigrare in altra città prima
del processo, patteggiare una pena più mite, addirittura fuggire dal carcere,
avendo i suoi facoltosi discepoli corrotto le guardie, accettò il verdetto.
Bevve la cicuta e morì dandoci un modello straordinario di “buona morte”. Ma
egli ha testimoniato prima di tutto di una vita ben spesa, dedita alla ricerca
(quindi al pensare con la propria testa) ma nel rispetto della comunità di cui
si è naturalmente o per scelta parte. Nel Critone
è descritto in pagine altissime come egli immagini che Le Leggi e la Città
tutta, nell’atto di fuggire, gli si parino davanti e gli chiedano conto del suo
gesto. «Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente
di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare
quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?... O
pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le
sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e
annullate da privati cittadini?». La Città ha emesso una sentenza ingiusta, ma
non rispettare le Leggi distrugge il fondamento stesso della vita civile.
«Non ti abbiamo dato noi la vita, tanto
per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e
ti ha generato? […] Con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria
è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti gli antenati, e più
sacra, e più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dèi e degli
uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più
che un padre?». A questo dobbiamo tornare: il futuro ha un cuore antico.
Per chiudere con uno slogan: legali per
crescere ma perché legati cum-munus
o, per dirla con Morin, complexi,
tessuti insieme.
(Intervento tenuto a San Nicola Manfredi il 19 maggio 2012 in un convegno dedicato al tema della legalità)
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