Uso sistematicamente il
cinema nella mia attività didattica.
Il cinema, oltre che
per la storia, è strumento prezioso anche per l’insegnamento della filosofia,
non solo per l’uso, ovvio, ad esempio, dei film didattici di Rossellini su
Socrate o Cartesio (che i miei allievi trovano buffi), ma per i contenuti
filosofici di molta filmografia. Un film come La sottile linea rossa di Terrence Malick, un film di guerra, dialoga
con l’intera tradizione filosofica e spirituale dell’Occidente e dell’Oriente,
in un grande affresco che Bachtin avrebbe definito “polifonico”.
Mi sta a cuore,
dunque, prima di tutto ribadire la necessità di utilizzare stabilmente il
cinema all’interno delle nostre programmazioni, di storia, ovviamente, ma anche
di filosofia o di italiano, di arte e, perché no, di scienza e discipline
scientifiche.
È evidente che la
storia è la disciplina che meglio può mettere a frutto questo prezioso
strumento in vari modi: utilizzandolo come “documento storico” (si pensi a Il trionfo della volontà della Riefenstahl
per capire il fenomeno nazista o l’Alexander
Nevskij di Eisenstein per capire lo stalinismo), come ricostruzione di un
punto di vista “altro” su un fatto storico (è l’uso che faccio, ad esempio, di Noi credevamo, parzialmente ascrivibile
al filone “revisionista” della storiografia risorgimentale), ma anche un uso
laboratoriale, facendo lavorare gli studenti su errori storici e anacronismi,
facendo raffronti tra diverse rappresentazioni del medesimo oggetto storico (si
pensi alle diverse Giovanna d’Arco del cinema, dall’espressionismo di Dreyer al
classicismo di Rossellini, dalla ieratica filologia di Rivette alla
spettacolarità di Besson).
La guerra può essere
lo spunto per grandi riflessioni metafisiche, come accade ne La sottile linea rossa, dove emergono
spunti scritturali ma anche la filosofia presocratica, o per grandi narrazioni
etiche, come accade in Salvate il soldato
Ryan di Spielberg.
Torneranno i prati è ultimo lavoro, ad ora, di un grande vecchio
del cinema italiano, artefice di indimenticabili capolavori come L’albero degli zoccoli e Centochiodi, ma soprattutto di un altro
grande film sull’esperienza della guerra che è Il mestiere delle armi, dedicato a Giovannino dalle Bande Nere
sullo sfondo dell’Italia battuta nel XVI secolo dagli eserciti europei che la
sottomisero. Torneranno i prati, i
cui protagonisti sono quasi tutti emblematicamente senza nome, a dire la
dimensione “anonima” della guerra di massa, inaugurata dal primo conflitto
mondiale, è stato scritto, fa dei militari italiani, accasciati sulle loro
brandine gelide ad attendere la morte, tanti Giobbe che si interrogano sul
senso del male e della sofferenza.
La trama, essenziale, si svolge in tempo reale. Inverno
del 1917, un avamposto italiano in quota sul fronte nordorientale,
sull’Altopiano di Asiago. Una notte arriva il Maggiore, al quale è stato
affidato il compito di far eseguire un ordine impossibile. Lo sanno tutti, che
sotto il tiro dei cecchini non si possono coprire i dieci passi che separano la
trincea dal rudere indicato dagli Alti Comandi. Qualcuno ci prova, qualcun
altro, piuttosto che farsi impallinare, prende il moschetto e si ammazza da
solo. È lo stesso spunto di Paura, novella di Federico De Roberto (1921). Con una differenza macroscopica rispetto al
racconto, il cui incipit recita: «Nell’orrore della guerra l’orrore della
natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le
cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della
Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta
dell’Inferno». Invece, pur nei colori plumbei che sono più efficaci di
qualunque parola la natura di Olmi appare benigna e misteriosa di contro
all’orrore prodotto nel mondo da Polemos...
Come possiamo vedere nella scena in cui il larice, assurto a simbolo mitico,
albero dorato, nello sguardo trasognato di una delle sentinelle di origine
contadina, viene distrutto dalle bombe.
Mi pare importante sottolineare
come molto cinema, anche stilisticamente lontano, abbia fatto maturare nel
pubblico un senso di profondo rigetto nei confronti della guerra. Può sembrare
banale, ma noi viviamo in una città che anche nella toponomastica porta ancora
dentro il “mito” della guerra, che il fascismo esalterà e farà propria (si
pensi al monumento ai caduti con la Nike a piazza IV novembre). Molti film
(penso a Kubrick e Rosi, oltre che a Olmi) decolonizzano il nostro immaginario,
ci restituiscono un’immagine tutt’altro che mitica, anzi prosaica e crudele,
spietata e insensata, della guerra. Io penso che questa sia una funzione
assolutamente decisiva dell’arte che il cinema ha svolto egregiamente. In un
film del 1970 di Olmi si sentiva che «La
guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Oppure, in Torneranno i prati: «Questo è un ordine criminale». Esistono ordini
militari che non siano criminali?
Luigi Comencini è autore di quel Pinocchio non solo opera chiave della Bildung della mia generazione (anche in
virtù delle indimenticabili musiche di Fiorenzo Carpi e della presenze di icone
del cinema italiano, da Manfredi a De Sica, da Ciccio e Franco a Gina
Lollobrigida), ma anche opera di valore assoluto. Tutti a casa è film del 1960 di Comencini con Alberto Sordi,
Eduardo De Filippo e Serge Reggiani, con la sceneggiatura di Age e Scarpelli.
Gli eventi: in Veneto, durante la Seconda guerra
mondiale, il sottotenente Innocenzi comanda il proprio reggimento dimostrandosi
un ufficiale ligio al dovere. Con l’armistizio l’esercito è allo sbando. Come
tanti altri, Innocenzi cerca di tornare a casa, a Roma, costretto a portarsi
dietro il soldato Ceccarelli. Arrivato a Roma, dopo mille peripezie, il padre
vuol costringerlo ad entrare nell’esercito repubblichino. Con Ceccarelli riesce
a fuggire a Napoli, ma i due vengono arrestati dai tedeschi che li costringono
a lavorare alla rimozione delle macerie. È il 28 settembre... Attenzione alla
data!
Ha scritto il regista: «Tutti a casa non è un film di
guerra. È un viaggio attraverso l'Italia in guerra compiuto da quattro uomini
allo sbando (quattro “stupidi” senza soldi) che vogliono ritornare a casa.
Sordi non è un vigliacco, ma un ufficiale che tiene immensamente al proprio
grado e che fino alla fine cerca di compiere quello che ritiene il proprio
dovere. L'unico problema è che, senza saperlo, non ha capito nulla». In maniera
mirabile viene descritto cosa sia un regime totalitario (sebbene incompiuto),
che produce individui incapaci di pensiero autonomo, ma anche quella miracolosa
metamorfosi che spinse alcuni italiani, che hanno salvato l’onore di questo
paese, tradito dalle sue classi dirigenti, dalla sua monarchia e da molti suoi
intellettuali, ad avviare le Resistenza, da cui sarebbe nata la Repubblica
italiana.
La bellezza di questo film è nella capacità di
alternare, come la vita, il dramma e la farsa. Da questo punto di vista, a mio
avviso, è una delle interpretazioni maggiori di Alberto Sordi: «lo sguardo
smarrito dell'attore, dell'uomo abituato dal regime politico a rinchiudersi nel
proprio guscio, è attraversato dall'entusiasmo, dall'esitazione, dallo stupore
e infine da una reazione coraggiosa». Questa reazione all’inizio è solo
affettiva, nasce dall’empatia, ma è il primo germe di un processo di
consapevolezza politica di cui noi siamo gli indegni eredi senza testamento.
«Non si può sempre stare a guardare».
[Rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione delle Giornate Giannoniane del 2015]
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