venerdì 22 gennaio 2016

il cinema e la guerra: due esempi



Uso sistematicamente il cinema nella mia attività didattica.
Il cinema, oltre che per la storia, è strumento prezioso anche per l’insegnamento della filosofia, non solo per l’uso, ovvio, ad esempio, dei film didattici di Rossellini su Socrate o Cartesio (che i miei allievi trovano buffi), ma per i contenuti filosofici di molta filmografia. Un film come La sottile linea rossa di Terrence Malick, un film di guerra, dialoga con l’intera tradizione filosofica e spirituale dell’Occidente e dell’Oriente, in un grande affresco che Bachtin avrebbe definito “polifonico”.
Mi sta a cuore, dunque, prima di tutto ribadire la necessità di utilizzare stabilmente il cinema all’interno delle nostre programmazioni, di storia, ovviamente, ma anche di filosofia o di italiano, di arte e, perché no, di scienza e discipline scientifiche.
È evidente che la storia è la disciplina che meglio può mettere a frutto questo prezioso strumento in vari modi: utilizzandolo come “documento storico” (si pensi a Il trionfo della volontà della Riefenstahl per capire il fenomeno nazista o l’Alexander Nevskij di Eisenstein per capire lo stalinismo), come ricostruzione di un punto di vista “altro” su un fatto storico (è l’uso che faccio, ad esempio, di Noi credevamo, parzialmente ascrivibile al filone “revisionista” della storiografia risorgimentale), ma anche un uso laboratoriale, facendo lavorare gli studenti su errori storici e anacronismi, facendo raffronti tra diverse rappresentazioni del medesimo oggetto storico (si pensi alle diverse Giovanna d’Arco del cinema, dall’espressionismo di Dreyer al classicismo di Rossellini, dalla ieratica filologia di Rivette alla spettacolarità di Besson).
La guerra può essere lo spunto per grandi riflessioni metafisiche, come accade ne La sottile linea rossa, dove emergono spunti scritturali ma anche la filosofia presocratica, o per grandi narrazioni etiche, come accade in Salvate il soldato Ryan di Spielberg.
Torneranno i prati è ultimo lavoro, ad ora, di un grande vecchio del cinema italiano, artefice di indimenticabili capolavori come L’albero degli zoccoli e Centochiodi, ma soprattutto di un altro grande film sull’esperienza della guerra che è Il mestiere delle armi, dedicato a Giovannino dalle Bande Nere sullo sfondo dell’Italia battuta nel XVI secolo dagli eserciti europei che la sottomisero. Torneranno i prati, i cui protagonisti sono quasi tutti emblematicamente senza nome, a dire la dimensione “anonima” della guerra di massa, inaugurata dal primo conflitto mondiale, è stato scritto, fa dei militari italiani, accasciati sulle loro brandine gelide ad attendere la morte, tanti Giobbe che si interrogano sul senso del male e della sofferenza.
La trama, essenziale, si svolge in tempo reale. Inverno del 1917, un avamposto italiano in quota sul fronte nordorientale, sull’Altopiano di Asiago. Una notte arriva il Maggiore, al quale è stato affidato il compito di far eseguire un ordine impossibile. Lo sanno tutti, che sotto il tiro dei cecchini non si possono coprire i dieci passi che separano la trincea dal rudere indicato dagli Alti Comandi. Qualcuno ci prova, qualcun altro, piuttosto che farsi impallinare, prende il moschetto e si ammazza da solo. È lo stesso spunto di Paura, novella di Federico De Roberto (1921). Con una differenza macroscopica rispetto al racconto, il cui incipit recita: «Nell’orrore della guerra l’orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell’Inferno». Invece, pur nei colori plumbei che sono più efficaci di qualunque parola la natura di Olmi appare benigna e misteriosa di contro all’orrore prodotto nel mondo da Polemos... Come possiamo vedere nella scena in cui il larice, assurto a simbolo mitico, albero dorato, nello sguardo trasognato di una delle sentinelle di origine contadina, viene distrutto dalle bombe.
Mi pare importante sottolineare come molto cinema, anche stilisticamente lontano, abbia fatto maturare nel pubblico un senso di profondo rigetto nei confronti della guerra. Può sembrare banale, ma noi viviamo in una città che anche nella toponomastica porta ancora dentro il “mito” della guerra, che il fascismo esalterà e farà propria (si pensi al monumento ai caduti con la Nike a piazza IV novembre). Molti film (penso a Kubrick e Rosi, oltre che a Olmi) decolonizzano il nostro immaginario, ci restituiscono un’immagine tutt’altro che mitica, anzi prosaica e crudele, spietata e insensata, della guerra. Io penso che questa sia una funzione assolutamente decisiva dell’arte che il cinema ha svolto egregiamente. In un film del 1970 di Olmi si sentiva che «La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai». Oppure, in Torneranno i prati: «Questo è un ordine criminale». Esistono ordini militari che non siano criminali?
Luigi Comencini è autore di quel Pinocchio non solo opera chiave della Bildung della mia generazione (anche in virtù delle indimenticabili musiche di Fiorenzo Carpi e della presenze di icone del cinema italiano, da Manfredi a De Sica, da Ciccio e Franco a Gina Lollobrigida), ma anche opera di valore assoluto. Tutti a casa è film del 1960 di Comencini con Alberto Sordi, Eduardo De Filippo e Serge Reggiani, con la sceneggiatura di Age e Scarpelli.
Gli eventi: in Veneto, durante la Seconda guerra mondiale, il sottotenente Innocenzi comanda il proprio reggimento dimostrandosi un ufficiale ligio al dovere. Con l’armistizio l’esercito è allo sbando. Come tanti altri, Innocenzi cerca di tornare a casa, a Roma, costretto a portarsi dietro il soldato Ceccarelli. Arrivato a Roma, dopo mille peripezie, il padre vuol costringerlo ad entrare nell’esercito repubblichino. Con Ceccarelli riesce a fuggire a Napoli, ma i due vengono arrestati dai tedeschi che li costringono a lavorare alla rimozione delle macerie. È il 28 settembre... Attenzione alla data!
Ha scritto il regista: «Tutti a casa non è un film di guerra. È un viaggio attraverso l'Italia in guerra compiuto da quattro uomini allo sbando (quattro “stupidi” senza soldi) che vogliono ritornare a casa. Sordi non è un vigliacco, ma un ufficiale che tiene immensamente al proprio grado e che fino alla fine cerca di compiere quello che ritiene il proprio dovere. L'unico problema è che, senza saperlo, non ha capito nulla». In maniera mirabile viene descritto cosa sia un regime totalitario (sebbene incompiuto), che produce individui incapaci di pensiero autonomo, ma anche quella miracolosa metamorfosi che spinse alcuni italiani, che hanno salvato l’onore di questo paese, tradito dalle sue classi dirigenti, dalla sua monarchia e da molti suoi intellettuali, ad avviare le Resistenza, da cui sarebbe nata la Repubblica italiana.
La bellezza di questo film è nella capacità di alternare, come la vita, il dramma e la farsa. Da questo punto di vista, a mio avviso, è una delle interpretazioni maggiori di Alberto Sordi: «lo sguardo smarrito dell'attore, dell'uomo abituato dal regime politico a rinchiudersi nel proprio guscio, è attraversato dall'entusiasmo, dall'esitazione, dallo stupore e infine da una reazione coraggiosa». Questa reazione all’inizio è solo affettiva, nasce dall’empatia, ma è il primo germe di un processo di consapevolezza politica di cui noi siamo gli indegni eredi senza testamento. «Non si può sempre stare a guardare».

[Rielaborazione dell'intervento tenuto in occasione delle Giornate Giannoniane del 2015]

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